L'untuoso Paolo Mieli nel
1986 scrive il necrologio di Roasio su “Repubblica”. Alquanto
maligno. (S.L.L.)
Antonio Roasio |
ROMA - E' morto Antonio
Roasio. Aveva 83 anni, era membro del comitato centrale del Pci e
presidente dell'associazione che riunisce gli ex volontari
antifascisti della guerra civile spagnola.
Ex socialista, era stato
nel ' 21 uno dei fondatori del partito comunista, ma aveva sempre
preferito definirsi, fin dal titolo di un libro autobiografico che
pubblicò qualche anno fa, "figlio della classe operaia".
Voleva così sottolineare che lui, nato da una poverissima famiglia
di Vercelli, l'operaio l'aveva fatto davvero in un'industria tessile.
A differenza di quei dirigenti ammalati di "personalismo" e
viziati da "forme di ambizione poco sane" con i quali
successivamente s'era più volte scontrato. E non era questo l'unico
titolo che poteva vantare: nominato a vent'anni segretario del
partito a Biella era stato in prima fila in battaglie molto violente
che avevano lasciato sul terreno morti e feriti; condannato a
trent'anni di prigione, era fuggito prima in Francia e poi a Mosca
dove tra il 26 e il 36 riprese a far l' operaio e svolse attività
politica a fianco di Togliatti riuscendo, con la moglie Dina Ermini,
a passare indenne attraverso le purghe di Stalin. Nel 36 andò in
Spagna a combattere per la Repubblica contro il generale Franco e
alla fine di quell'anno fu ferito. Tornò per un breve periodo a
Mosca e poi fu mandato a Parigi. Qui, nel 1938, il partito era in
grave crisi: nel libro Saluti fraterni, Bruno Corbi ha
ricordato come tutti sospettassero di tutti, l'ossessiva ricerca di
infiltrati dell'Ovra e di traditori trotzkisti aveva determinato,
anche ad opera di Roasio, un clima che lui stesso ebbe a definire, in
una ricostruzione pubblicata nel 1972 su "Critica marxista",
"di caccia alle streghe". E la situazione divenne ancora
peggiore nel 1939, quando l'Urss firmò un patto con la Germania
nazista e, pochi giorni dopo, Hitler provocò con l'invasione della
Polonia la seconda guerra mondiale.
Alcuni dirigenti del Pci
volevano partecipare subito alla guerra contro il nazismo, altri non
volevano prender parte a quella "guerra imperialistica".
Giuseppe Berti che dirigeva il "centro" comunista emigrò
negli Stati Uniti mentre Roasio, con Novella e Negarville, restò in
Francia: "eravamo come un piccolo gruppo di naufraghi in balìa
delle onde infuriate", disse poi di quel periodo. All'inizio del
1943 Roasio rientrò in Italia dove nei due anni successivi fu un
leader della Resistenza. Divenne anche, assieme a Luigi Longo e
Pietro Secchia, uno dei più autorevoli rappresentanti del "partito
del Nord" che si opponeva, dopo la caduta del fascismo, agli
"intrighi" romani attorno a Badoglio a cui compagni come
Roveda e Amendola prestavano "troppa attenzione". Né
cambiò idea l'anno successivo con la "svolta di Salerno"
(Togliatti accettò di collaborare con Badoglio) e da quel momento
Roasio fu sempre vicino a Secchia.
Finita la guerra Roasio
entrò nella Direzione del Pci in cui rimase fino al 1962 e fu prima
deputato e poi senatore per quattro legislature. Fu anche
responsabile della sezione quadri, dell' organizzazione e del partito
in Emilia. Quando, a metà degli anni Cinquanta, Secchia fu
sconfitto, Togliatti giustificò la permanenza di Roasio in Direzione
con queste parole: "ha la piena fiducia dei sovietici".
E infatti Roasio ha
sempre difeso le ragioni dell'Urss. Nel comitato centrale del 1969 in
cui fu radiato il gruppo del "Manifesto" rimproverò al
partito l'eccessiva simpatia per Dubcek, a Luca Pavolini di non aver
pubblicato su "Rinascita" un suo articolo che esaltava le
conquiste della Corea del Nord e definì lo storico Paolo Spriano un
"anticorpo" per alcune sue affermazioni molto critiche nei
confronti dell' Urss. Ma all'inizio degli anni Ottanta, pur
condividendone le tesi, Roasio non ha aderito all'offensiva di
Cossutta e Cappelloni né all'eresia filosovietica di "Interstampa". Ieri Natta e Pecchioli hanno fatto una visita di condoglianze alla moglie di Roasio; oggi il partito gli renderà onore con un'orazione funebre di Giancarlo Pajetta.
“la Repubblica”, 3
gennaio 1986
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