La pubblicazione delle
Opere di Giacomo Matteotti, curata da Stefano Caretti e
patrocinata dalla Fondazione Turati, è giunta ormai al sesto volume
(Velia Titta Matteotti, Lettere a Giacomo, a cura di Stefano
Caretti, prefazione di Sebastiano Timpanaro, Nistri-Lischi Editori,
Pisa, pp. 324, £. 40.000). Nel quasi totale disinteresse della
sinistra italiana e della sua cultura. Abituata a riscoprire e
rivalutare il superfluo, quest’ultima sembra aver smarrito ogni
interesse per ciò che è essenziale e irrinunciabile. E anche la
curiosità per i suoi stessi simboli più diffusi. Eppure non si sta
parlando di un «bolscevico», ma di un socialista riformista,
fondatore in questo paese di quel socialismo democratico a cui gran
parte della sinistra dichiara di richiamarsi.
La verità è che
Matteotti, come vedremo, può restare simbolo inoffensivo e
politicamente corretto solo a patto di ignorare o edulcorare il suo
pensiero. Non che il nome di Matteotti sia ignoto agli italiani: ma
finisce per essere una via, una piazza, «il Martire» per
antonomasia, un simbolo morale di cui pare sia sconveniente
approfondire i contenuti politici.
La stessa dimensione del
martire, beninteso, non è priva di implicazioni rilevanti. Come ha
mostrato il volume dedicato al mito uscito nel 1994, in cui Caretti
ha raccolto anche le forme di «devozione popolare» suscitate
dall’assassinio: omaggi, scritte anonime, poesie, epigrafi,
visioni, «elaborazioni cristologiche». Ma è una dimensione
divenuta nel tempo esclusiva e che ha sacrificato lo spessore
politico e la portata storica dell’opera di Matteotti. In realtà
non si diventava martiri per caso in quel tempo, e il fascismo sapeva
scegliere bene le sue vittime.
Dai volumi finora
pubblicati - Scritti sul fascismo (1983); Lettere a Velia
(1985); Sulla scuola (1990); Sul riformismo (1992);
Matteotti. Il mito (1994) - emerge il profilo di un politico
coerente e lungimirante, dal percorso ricco di sorprese e di smentite
per chi si accontenta di ragionare attorno a formule e slogan. In un
ciclo politico e culturale della sinistra che conosce una
straordinaria fortuna verbale del riformismo e in cui tutti si
dichiarano riformisti, è significativo il disinteresse per una delle
pochissime esperienze di un riformismo con la spina dorsale,
anticapitalista e antimperialista, che questo paese abbia conosciuto.
L’opposizione alla
guerra imperialista è intransigente in Matteotti già al tempo della
guerra di Libia. Quando matura l’intervento nella prima guerra
mondiale è favorevole all’insurrezione popolare contro la guerra e
giudica timida e compromissoria la formula ufficiale socialista del
«non aderire né sabotare». Entra in contrapposizione frontale a
tutto il mondo dei futuri socialisti liberali, entusiasti per la
«guerra democratica». Viene confinato in Sicilia nel 1916 dalle
autorità, il più lontano possibile dal fronte, per impedirgli di
«minare» lo sforzo bellico. Di qui si oppone a quelli che gli
appaiono cedimenti del suo partito in direzione di una «solidarietà
nazionale» dopo Caporetto.
Nel breve periodo della
sua attività politica (quattordici anni in tutto) Matteotti è
legato a una visione 2gradualista” del processo di costruzione del
socialismo, che diffida delle scorciatoie demagogiche e del
verbalismo rivoluzionario, ma che non per questo è arrendevole o
conciliante. “riformista perché rivoluzionario”, come amava
definirsi non concede nessuna apertura di credito alla classe
dirigente che pone costantemente sotto accusa nella sua quotidiana
attività di organizzatore e di polemista. Di fatto nella situazione
italiana del primo dopoguerra, Matteotti denuncia proprio il venir
meno di una dei presupposti di fondo del riformismo classico, cioè
l’esistenza di una borghesia disposta a «rispettare le regole del
gioco». Il fatto che essa «per difendere il suo privilegio esce
dalla legalità e si arma contro il proletariato» distrugge alla
radice l’idea stessa di democrazia, che viene percepita come «vuoto
inganno» dalle classi lavoratrici.
Matteotti è del tutto
immune dal fascino della Rivoluzione russa, e la sua condanna non è
basata sulla invocazione di princìpi astratti e dottrinari ma sulla
constatazione concreta e realistica della impossibilità di costruire
il socialismo «senza l’autonomia e l’autogoverno delle classi
lavoratrici». L’episodio del gennaio ’21 ha un carattere quasi
simbolico, e di amara sottolineatura di un paradosso e di un limite
che sta sullo sfondo dei dibattiti della sinistra. Partecipa a
Livorno al congresso di fondazione del partito comunista, dove
dovrebbe parlare in rappresentanza della corrente riformista, ma
preferisce abbandonare subito i lavori, non appena giunge notizia dei
sanguinosi incidenti di Ferrara e dell’assalto delle squadre di
Balbo alle organizzazioni operaie. Una scorta armata fornita dai
comunisti lo aiuta a raggiungere incolume Ferrara e a tentare di
organizzare una resistenza popolare.
È una scelta di priorità
che solo Matteotti sembra percepire con chiarezza in quei mesi. Di
fronte al fascismo è il primo politico che comprende la sua novità
e la sua torbida complessità, la sua essenza di reazione moderna, e
anche la possibilità di contagio in tutta Europa che l’esperienza
italiana dischiude. Non l’estremo sussulto di un capitalismo
destinato a spegnersi. Non un governo borghese che vale l’altro,
come scrivono quasi tutti i comunisti e i socialisti al tempo della
marcia su Roma. Non una breve parentesi destinata a richiudersi in
maniera indolore. È un nemico nuovo e pericoloso che va contrastato
e sconfitto in termini unitari e, anche, energici. Nei termini di
lotta armata che la situazione richiede.
Nell’ultima lettera a
Turati, poco prima dell’assassinio, sosteneva la necessità di
«prendere, rispetto alla dittatura fascista, un atteggia mento
diverso da quello tenuto fin qui... Lo stesso codice riconosce la
legittima difesa. Nessuno può lusingarsi che il fascismo dominante
deponga le armi e restituisca spontanea mente all’Italia un regime
di legalità e libertà...». La raffigurazione, ancor oggi
predominante, di Matteotti nelle forme di un profeta disarmato e che
predica la non violenza di fronte alle squadre fasciste prende corpo
solo nei meccanismi di costruzione del mito postumo del martire.
Matteotti paga con la vita la sua denuncia delle violenze e delle
illegalità che hanno assicurato la vittoria del fascismo nelle
elezioni del 1924. Il suo assassinio interrompe un percorso di cui
nessuno può ipotizzare compiutamente gli esiti e priva
l’antifascismo del suo leader naturale.
Anche da questo carteggio
emerge quella immagine di civiltà, pulizia e onestà di sentirnenti
che spesso colpisce nei carteggi familiari dell’antifascismo. Nel
caso di Matteotti è anche parte integrante, risvolto privato di una
costruzione paziente e tenace, dal basso, di una alternativa di
società e, al tempo stesso, di unasocietà alternativa che avverte
come la vera essenza del riformismo italiano.
«Pare che tutti abbiano
piacere della sconfitta in pieno del socialismo – scrive alla
moglie nel 1922 -; eppure non ne rimangono sconfitti i difetti, ma la
civiltà medesima”.
I conformisti che
vogliono ad ogni costo convincerci che il fascismo era un regime
normale, sotto il quale non si stava poi tanto male, che alla fine
veniva accettato da tutti, dimenticano – o ignorano del tutto –
quale cammino democratico il fascismo aveva interrotto con la
violenza, quanti pensieri aveva impedito di pensare, a quante
alternative di maturare.
"il manifesto", 18 luglio 2000
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