19 marzo 2016:
compleanno, 86 anni, di Gualtiero Marchesi. Brindisi alla libreria
Hoepli di Milano dove viene presentato l’ultimo volume – Opere
Works (Cinquesensi editore). Nel libro, una intervista a tre, con
Aldo Colonetti e Gillo Dorfles e le foto di 134 piatti da lui creati,
senza ricette, solo il titolo e la data in appendice. Uno sfarfallio
di luci e colori che comincia con una citazione ovvia: riso, oro e
zafferano del 1981. In quell’anno, aveva da poco aperto il suo
ristorante in via Bonvesin de la Riva, a Milano, e quel piatto
resterà un simbolo, mentre era stato creato in una città curiosa,
guardinga e anche tonta (la frase più ovvia per dileggiare le sue
porzioni: ghe denter nagot, c’è proprio poco da mangiare).
Era già stellato Michelin, e riuniva intorno a sé una stampa
sensibile, attenta. La accoglieva e la invitava a sedere a tavola con
lo stesso sorriso di sempre, con il suo tono di voce pacato, e con
una cassoeula destrutturata: una larga foglia di verza verde
sbollentata, a coprire il piatto, qualche costina di maiale e un
salamino da mordere.
La nouvelle cuisine
era arrivata con lui e i nomi dei fratelli Troisgros di Roanne o di
Alain Senderens, alla Porte de Versailles, erano appena sussurrati,
perché l’Italia identificava la Francia con Parigi e se doveva
scegliere nel corso degli anni Settanta un ristorante prenotava un
tavolo alla Tour d’Argent, anatra alla “presse” e vista su
Notre-Dame. La nouvelle cuisine era invece in pieno fermento e
non era solo creatività, ma anche una scuola nella quale tutti gli
insegnamenti alberghieri ereditati da Escoffier venivano criticamente
esaminati e nuovi principi, dal mercato ai fornelli, guidavano cuoco
e allievo. Da quel 1981, anno d’oro, Marchesi in Italia è il
maestro e nelle sue cucine si impara un mestiere diverso,
disciplinato dalla materia e dalla forma, da un gusto che occhieggia
l’arte. I suoi allievi non erano dei marchesini, e i più
intelligenti prendevano la propria strada, liberamente,
autonomamente. Un esempio? Pietro Leemann, svizzero, che apre, nel
1989, il ristorante Joia a Milano con un ben preciso programma, ancor
oggi attuato con successo: niente carni e cucina vegetariana.
Marchesi pubblica La
mia nuova grande cucina italiana nel 1980 e continuerà
ininterrottamente a farlo, con altri libri, per istruire non solo i
futuri chef ma tutti i curiosi, uomini e donne, che dopo un pranzo
nel suo ristorante, dopo un articolo letto in un giornale, sentono
che quel modo leggero e colorato e pensieroso di cucinare, può
cambiare la vita. Detta, fa scrivere, insegna e si racconta. Le sue
vicissitudini imprenditoriali, l’abbandono di via Bonvesin de la
Riva, l’apertura dell’Albereta, a Erbusco, e l’approdo in
piazza della Scala nel Marchesino, non si riflettono né sul suo
percorso intellettuale e culinario né sulla autorevolezza di una
personalità che si è imposta applicando principi e regole della
nuova scuola francese alla cucina italiana, approfondendola, con
variazioni e sovversioni, felice talora di stupire con riso, oro e
zafferano, ma cocciuto nello studiare e ristudiare la materia prima.
Ne è un perfetto esempio il trancio di orata cotto a vapore che nel
titolo in copertina del supplemento domenicale del Corriere della
Sera 2015, diventa: la cucina della verità ovvero della forma e
della materia. Pochi ammiccamenti alle libertà e semplificazioni
della cucina di casa – intervistato da Aldo Colonetti che gli
domanda “Gualtiero, tu a casa cucini?” risponde: “No, mai
cucinato a casa. E la prima volta che ho fatto una sfida con mia
moglie, ho perso … ” – concentrazione sul proprio oggetto, con
le due parole chiave che gli frullano, materia e forma. Tutto questo
non esclude una ricerca immaginaria, perfettamente illustrata dalle
foto di Opere, Works. Il cibo, apparentemente più semplice,
una dadolata di polenta e della fonduta, si manifesta per gradi,
suscitando sorpresa alla lettura della carta nel suo ristorante, e
stupore guardando il piatto quando la fonduta viene versata, e,
libero da ogni contesto, dopo cena, usciti per strada, diventando
fantasia o rimpianto. È una esperienza del 2008, uno strano passo
indietro e avanti alla ricerca di quella semplicità che suscita
meraviglia.
Il cuoco di professione,
allievo o no, il giornalista, il gastronomo, il cliente e il semplice
lettore hanno un rapporto diverso, personale, con i piatti e i libri
di Gualtiero Marchesi. Se ne appropriano e li travasano nella propria
memoria, ripetendone, concretamente o virtualmente, singoli aspetti,
un sapore, un colore, o inghiottendone il nome. La cronologia, lo
scarto temporale giocano un ruolo secondario in un repertorio
autenticato dalla ripetizione e dalla sua diffusione a tal punto che
oggi, un libro senza ricette, di sole fotografie, rappresenta la sua
ennesima avventura. Ma un aspetto della personalità di Gualtiero
Marchesi, sfugge alla banalizzazione del riso e dell’oro. La sua
passione per la musica che gli fa titolare “adagio” e “vivace”
due panini creati per McDonald’s – fischi e applausi a un
“compositore” tanto spudorato non si sono ancora smorzati – la
genia di figli e nipoti che hanno rifiutato la cucina per suonare uno
strumento, il suo sguardo obliquo per l’arte contemporanea, e
infine il gusto degli aforismi e delle massime, riscritte su
foglietti, recitate con la semplicità di chi passa in cucina o vi
esce per andare a presentare un libro. Niente televisione, solo
cultura.
Pagina 99, 9 aprile 2016
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