Ho scritto questa
recensione nel 1990, quando uscì il libro di Mimmo Gambuli di cui
qui si parla. Un libro che trovai molto bello e che ebbi l'onore di
presentare in alcuni incontri pubblici. Uno, il più commovente, si
svolse a Pietralunga, ove il più importante dei “presentatori”
era il parroco partigiano, il famoso parroco che dalla torre
campanaria fermò con il mitra i tedeschi per
sottrarre i suoi concittadini alla rappresaglia. Il
testo apparve su “Cronache Umbre”, la rivista del PCI
dell'Umbria, con il titolo La memoria e la storia e
con qualche refuso che ho provveduto a eliminare. (S.L.L.)
Settimio Gambuli da giovane |
Uno dei più inquietanti
segnali di restaurazione del decennio trascorso è stato il
"revisionismo storiografico", raramente fondato su una
nuova documentazione e metodi scientifici d'indagine, ma fortemente
ideologizzato, apologetico nei confronti del capitalismo e
celebrativo dei suoi trionfi, feroce con i movimenti di popolo e di
massa che nell'ultimo cinquantennio hanno osato contestare l'ordine
sociale esistente e contrastare il corso normale delle cose. In
questa luce il movimento comunista italiano e il partito nuovo di
Togliatti non sono stati che strumenti della politica imperiale
sovietica; le lotte degli anni quaranta e cinquanta per la pace, il
lavoro e la terra torbide agitazioni manovrate dai comunisti; il
sessantotto fucina del terrorismo; il protagonismo operaio degli anni
settanta matrice, con il suo egualitarismo, di ogni crisi economica
passata, presente e futura.
Da ultimo è toccato alla
Resistenza e alla guerra di liberazione. L'estate scorsa, prendendo
spunto da episodi marginali e, in genere, da tempo ben conosciuti, su
gran parte della stampa quotidiana e periodica, storici d'attacco,
tromboni fascisti di Salò e pentiti di ogni genere, si sono
scatenati a criminalizzare la Resistenza, a rappresentare i
partigiani come sanguinari assetati di vendetta.
Si capisce. Nel momento
in cui si vuol costruire una seconda repubblica con un potere di
governo concentrato, fondato su un consenso di tipo plebiscitario, ed
eliminare lo scandalo della prima, cioè l'influenza nelle sedi della
rappresentanza dei movimenti di massa, se ne vogliono prosciugare le
sorgenti di legittimazione. Allo stato nato dalla Resistenza si vuol
sostituire un potere senza resistenze, senza disturbi al manovratore,
tutt'al più sorretto dalla pubblica opinione orientata dai media.
Non so quanto siano in
tema queste riflessioni, ma pure tanta amarezza e rabbia mi ha
suscitato la lettura del bel libro che Settimio Gambuli ha di recente
dato alle stampe per i tipi della Protagon di Perugia, un libro che
mi ha appassionato e commosso: A Gaeta a far gavette. E'
un'opera senza trucchi, onesta e leale come chi l'ha scritta, che ci
restituisce intera la verità di una giovinezza, di una tragedia e di
una scelta.
1. La costruzione
della memoria
Gambuli partigiano e
combattente della liberazione, viene da una lunga militanza politica
e da un lungo impegno giornalistico ed è certo consapevole delle
reticenze e degli inganni della memoria: sa bene che essa non è
tanto registrazione quanto rappresentazione. Proprio per questo non
ha voluto scrivere un libro di storia o di ricordi personali. Ha
scelto invece la forma del romanzo, della fiction, per
trasferire sulla pagina l'esperienza che considera fondante della sua
identità e messaggio da trasmettere a quelli che verranno.
Il libro ha una struttura
molto particolare. Si immagina che alcuni combattenti antifascisti,
detenuti a Gaeta per aver rumorosamente contestato il principe
Umberto, luogotenente del regno, approfittino di quegli ozi forzati
per scrivere la loro storia. Il libro non sarebbe che la trascrizione
del memoriale dopo lungo tempo ritrovato.
L'"invenzione"
del manoscritto può apparire ingenua, primitiva e convenzionale:
basta ricordare I Promessi Sposi. Lo stesso Gambuli esplicita
la letterarietà della sua scelta intitolando la prima parte Il
manoscritto trovato in Calabria, che fa il verso al "Manocritto
trovato a Saragozza" di Potocki o anche al Memoriale
ritrovato a Sant'Elena dello pseudo-Napoleone. Tuttavia il
ricorso a questo antico espediente risulta in Gambuli originale e
straordinariamente pregno di significati. Per esempio disvela uno dei
meccanismi del ricordare: nei movimenti collettivi la memoria è
sempre collettiva, non ci sono quasi mai ricordi individuali, il
ricordo del compagno è anche il mio ricordo, si imprime
nell'immaginazione con gli stessi colori vividi dell'esperienza
diretta. Uno è l'estensore materiale del manoscritto, ma la memoria
non è mai la sua, è quella di tutto il gruppo.
Con la trovata del
"memoriale di gruppo" Gambuli ci ha forse esemplificato
efficacemente quanto sociologi e psicologi storici hanno difficoltà
a farci comprendere sulla costruzione della memoria storica, ci ha
fornito un modello di genesi della coralità epica e comunicato la
sua integrità intellettuale. Egli sembra dire al lettore: a
combattere sulle montagne e nella palude io c'ero, c'ero quando
fischiammo il principino, c'ero nel carcere a Gaeta, ma non voglio
venderti questa storia come reale nei minimi particolari; ci sono,
com'è normale, involontarie censure, attenuazioni ed esagerazioni,
spostamenti cronologici, ma questa non vuol essere la vicenda come è
accaduta, ma come i compagni ed io ce la siamo rappresentata nella
nostra comune memoria, allora e dopo, nei periodici incontri, nelle
cene, nelle bevute.
2. La storia
L'invenzione del
manoscritto influenza anche la distribuzione della materia nelle
varie parti del libro, permettendo all'autore di intrecciare i tempi
della vicenda per mantenere viva la curiosità e l'attenzione del
lettore. E gli riesce, come ha detto Saverio Tutino presentando il
volume a Città di Castello, lo stesso effetto di "suspense"
di un racconto poliziesco. L'appendice di documenti posta alla fine
del libro serve non solo a riconnettere la verità della memoria con
quella degli archivi, ma contribuisce anche a "sciogliere"
i nodi che la narrazione aveva accumulato.
Il procedere quasi
labirintico della narrazione rende assai difficile un'esposizione
sintetica dell'intreccio, tuttavia richiamare al lettore la traccia
principale del racconto mi pare cosa utile. La vicenda si sviluppa
nell'arco di due anni o poco più, tra gli ultimi mesi del '43 e la
fine del '45. Tre sono gli scenari fondamentali: i monti, le valli e
i paesi tra l'Umbria e la Toscana dove un gruppo di giovani,
provenienti in maggioranza da Città di Castello, combatte la
guerriglia partigiana; le paludi della Padana dove essi, inquadrati
nella divisione Cremona del ricostituito esercito italiano, danno il
loro contributo alla totale liberazione dell'Italia dal nazifascismo;
il carcere di Gaeta, ove sono reclusi dopo la condanna per i fischi
al principe Umberto.
Già nel primo momento di
questa terribile e generosa avventura, pur tra persone che hanno
compiuto una precisa scelta di campo, è difficile capirsi,
collegarsi, coordinarsi. Nei gruppi partigiani convivono estrazioni
sociali, convinzioni, orientamenti e aspettative molto diversi, sulle
montagne c'è perfino un gruppo di combattenti jugoslavi. È
difficile stabilire un dialogo dopo che la dittatura e la sua
retorica ufficiale avevano costretto e abituato al silenzio, è
difficile ritrovare autonomia e responsabilità dopo l'esperienza in
un società e in un esercito che richiedevano solo passività ed
obbedienza. Contro queste difficoltà e contro quelle materiali,
gravissime, si erge una diffusa solidarietà. I mezzadri e le loro
famiglie proteggono quei ragazzi con la loro assistenza: essi
ottengono alloggio, cibo, informazione, trovano perfino il modo di
fantasticare d'amore. Il gruppo di Montebello, così detto da luogo
del suo primo insediamento, conosce così la tragica esperienza della
morte e la gioia dell'impresa riuscita, esaltandosi nelle prove di
coraggio, trepidando nella fuga, smarrendosi a volte di fronte
all'ignoto. Dopo i tanti pericoli i partigiani possono rientrare
nelle loro città liberate.
Ripartono pochi mesi dopo, inquadrati
nella divisione Cremona, persuasi che questo sia il loro dovere. È una
integrazione molto tormentata quella in un esercito "regolare"
ove alcuni non pochi ufficiali e graduati sono avvezzi alla disciplina cieca e
all'ottusità burocratica, ma pure riesce. E dopo nuove prove, nuove
morti, nuove battaglie ed avventure, giunge la vittoria. Eppure i
segni, che intravedono qua e là, di restaurazione del vecchio ordine
li spingono a disturbare la festa del principino. Ne segue il
carcere, ne seguono nuove conoscenze e consapevolezze, quella
soprattutto che in galera e nel carcere militare finiscono solo i
poveracci, mentre molti tra i responsabili del disastro italiano
stanno riacquistando influenza e potere.
Questa la sequenza
cronologica degli eventi, ma essa è del tutto insufficiente a
restituire il tono generale del libro. Ad esso infatti danno un
contributo decisivo i tantissimi personaggi, principali e di
contorno, tra loro diversissimi. Pur nella comunanza degli ideali e
dell'impegno ognuno di loro porta dentro la storia del movimento la
sua storia particolare, le sue esperienze e le sue speranze. La
coralità della narrazione non stempera le individualità in una
massa indifferenziata, la grandezza di un popolo compattamente
proteso verso la liberazione e la libertà non si esprime nell'annullamento delle differenze ma nella loro valorizzazione.
3. Personaggi e
paesaggio
Queste individualità
trovano una espressione compiuta nel modo di raccontare di Gambuli.
Egli è un narratore nativo, tradizionale. Gli sono del tutto
estranee tecniche e modalità che esprimano la scomparsa del
soggetto. Questa sua vocazione propriamente narrativa ricorda per
molti aspetti il grande realismo ottocentesco. I personaggi, ad
esempio, sono solitamente messi in scena con un ritratto, un ritratto
fisico, che ce li fa quasi vedere, e un ritratto psicologico-morale. Centrale è po, in tutto il libro, l'attenzione alla fisicità
dell'esistenza, al vedere, al sentire, al mangiare, al toccare, al
fare l'amore o al desiderare di farlo. Sono quasi tutti giovani gli
attori del dramma e la loro gioventù si effonde in una irrefrenabile
vitalità, quasi una sfida alla morte che li circonda e li sovrasta.
Non voglio togliere al lettore il gusto di scoprirli nel libro e di
ricordarli: Gamo, il narratore, Livio, il saggio, Nannone, estroso e
ribelle, il calabrese, il ladro, il tenente Rigo e tantissimi altri,
che, con pochi tratti e qualche esemplare episodio, Gambuli ci fa
quasi incontrare e conoscere da vicino, nella loro pienezza umana.
Una cosa vale qui la pena di ricordare: non è un libro piagnucoloso
e opprimente, nel libro si ride e si fa ridere, perché - come ci
spiega Gambuli - la risata o anche il sorriso sono l'antidoto
all'angoscia, il sale della razionalità, l'incoraggiamento alla
tolleranza. C'è una paginetta di riflessione che proprio al ridere
nelle diverse età della vita e nelle diverse circostanze
dell'esperienza Gambuli dedica: è il punto di un acuminato spirito
di osservazione e di una grande finezza psicologica. Ci sono, nel
romanzo, altre paginette di psicologia e moralità, quella ad esempio
sul coraggio e la paura, o quella sulla giustizia e la pietà, che ci
trasmettono una sapienza non appresa dai libri, ma maturata nella
ricchezza del rapporto tra uomini.
Un altro elemento, che
potrebbe apparire retrò, mi ha colpito e sorpreso, la compiutezza
dei paesaggi, la cui precisa descrizione apre molti dei brevi
capitoli di cui il libro si compone. C'è nel narratore un amore
viscerale per monti e valli, alberi e animali, inverni e primavere,
assolutamente privo di intellettualismo, che ci riporta alla civiltà
contadina, al suo nativo ambientalismo che nutre di sé chi l'ha
appreso fin dai primissimi anni di vita, quali che siano poi i luoghi
ove la vita lo conduce.
4. La scrittura
Un altro elemento
decisivo della straordinaria comunicatività del libro di Gambuli è
la scrittura, il cui tratto fondamentale è la semplicità. Non che
lo scrittore non sia in grado di maneggiare un periodo complesso: ci
sono qua e là saggi di una frase più articolata e complessa. La
semplicità di Gambuli è il frutto di una scelta, è frutto di una
volontà e di una ricerca. Nulla è più difficile della semplicità,
ha scritto qualcuno: Gambuli ha appreso bene, forse anche per la sua
lunga militanza, quest'arte; a verificarne la portata è l'equilibrio
che egli riesce a realizzare nella sua lingua tra elementi letterali
ed elementi dialettali. Senza scadere nel pittoresco e nel
folclorico, senza togliere nulla alla fruibilità e godibilità del
suo racconto per il lettore che umbro non è, egli intesse la sua
narrazione non solo di vocaboli, ma anche di stilemi, proverbi,
espressioni legate ai luoghi e alle persone, alla terra e al popolo,
che conferiscono alla semplicità del suo scrivere una pienezza
sensuale, frutto di una popolarità non populistica. Qualcuno ha
rimproverato all'autore la presenza in alcuni luoghi del romanzo di
elementi di "politichese" o di "giornalesco": io
non li ritengo fuori posto. Sono anche questi gerghi parte di una
lingua viva: il loro uso estremamente parco e temperato non inficia
la lingua usata nel libro, ma la rende più ricca di articolazioni e
di spessore. Un'altra sorprendente capacità equilibratrice Gambuli
rivela nell'articolare piano del dialogo e piano del racconto: non
c'è una decisa preponderanza dell'uno sull'altro, come c'è un
scelta "classicistica" nel non differenziare troppo il
livello espressivo dei due momenti. Ci sono difetti, cadute? Era
inevitabile per uno scrittore non professionista, ma si tratta di
elementi marginali di una scrittura che aderisce fortemente alla
"cosa" che Gambuli vuole comunicare.
5. Il messaggio
Gambuli lo dice
esplicitamente: il suo libro vuol essere un messaggio soprattutto
diretto alle nuove generazioni, a quelle che della Resistenza
conoscono quasi soltanto le retoriche commemorazioni ufficiali, che
la svuotano del suo significato umano e la danneggiano allo stesso
modo delle falsificazioni criminalizzatrici. La lettura di A Gaeta
a far gavette mi ha riportato alla mente una vecchia poesia di
Luca Canali; del 1965, La resistenza impura. Così essa
recita: "agli uomini senza ambizione politica, /senza
particolari dati di impegno, senza relazioni influenti, / cioè senza
possibilità di scampio o di scampo, / che caddero oscuramente, /
mossi da elementari bisogni e da elementari ideali. / A questi uomini
che in morte come in vita / non ebbero mai nè chiesero quartiere, /
e di cui la storia, che pure di essi soprattutto / si nutre, disperde
prudentemente le tracce".
Il libro di Gambuli è
dedicato a uomini di questo tipo, quelli che caddero e quelli che non
caddero, che seppero compiere una scelta radicale, senza attendersi
ricompense e carriere e che, nell'Italia repubblicana, riscattata
soprattutto dal loro valore dalla vergogna fascista, tornarono
dignitosamente alla loro quotidiana fatica di vivere. Ai giovani
questi uomini trasmettono un messaggio di responsabilità. Non è
possibile lasciare ai capi, ai politici, ai generali la
determinazione della sorte comune, occorre che ognuno si faccia
carico dell'impegno di salvaguardare la giustizia, la libertà e la
pace. Ieri, nell'Italia straziata dalla guerra, oggi in un'Italia e
in un mondo dilaniato da guerre, razzismi, ingiustizie, criminalità,
droga, è compito dei giovani resistere contro il male.
“Cronache Umbre” -
Dicembre 1990
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