"Le donne italiane
sono intellettualmente ad un livello basso, tuttavia sono prive di
affettazione... Io sono convinta che saranno madri di stirpe grande e
generosa".
A formulare questa
profezia "risorgimentale" è, nel dicembre 1847, una donna,
e per di più una femminista. Si chiama Margaret Fuller, americana,
di professione giornalista. Si trova a Roma da otto mesi, mandata dal
suo giornale, il “New York Tribune”, come corrispondente in vista
delle sconvolgenti notizie che si preannunziano, e delle quali
l'atteggiamento "liberale" di papa Pio IX rappresenta una
promessa ghiotta, quasi uno scoop.
Moderna, spregiudicata,
legata da un amore intenso ed esigente al suo paese come portatore di
spiriti libertari e fautore di diritti civili, Margaret è ciò che
oggi si chiamerebbe una "wasp", una "White Anglo Saxon
Protestant", con tutte le implicazioni razziali e l'intero
corredo di moralismo e di idealismo che il termine può eventualmente
comportare. Ha ricevuto un'educazione umanistica. Conosce i classici
greci e latini. Da ragazza - ora ha 37 anni - ha imparato il tedesco,
l'inglese, l'italiano. È stata fra le proto-femministe del Nuovo
Continente, come dimostra il suo libro Woman in the Nineteenth
Century, un saggio basilare per il femminismo americano dell'
Ottocento. In Italia è arrivata già in possesso di amicizie
autorevoli, da Thomas Carlyle a William Wordsworth, da George Sand a
Giuseppe Mazzini, conosciuti qua e là per l'Europa, dov'è sbarcata
nel 1846. Di Roma l'attira, com'è ovvio, il retaggio storico. Ma ciò
che soprattutto l'affascina è il destino di Roma "moderna",
che molti sintomi fanno ritenere imminente. Gli italiani le appaiono
dotati di un'eccezionale "prontezza di genialità", un
"popolo d' artisti" corrotto da "secoli di schiavitù"
e tuttavia desideroso di redimersi. Questo popolo - dice Margaret,
riferendosi ai romani in particolare - "è capace come poche
nazioni e pochi uomini di accendersi di una fiamma pura venendo a
contatto con il raggio del sole, della verità e della vita".
A completare la trama di
questo libro di Margaret Fuller, Un'americana a Roma: 1847-1849,
che ora esce nelle Edizioni Studio Tesi, (a cura di Rosella Mamoli
Zorzi, traduzione di Cristina Malagutti, pagg. XLVIII - 384, lire
14.000), non resta che registrare il fervore a volte allucinato con
il quale l'autrice vede e commenta gli eventi che si svolsero nella
capitale dello Stato pontificio durante i suoi due anni di
permanenza: le prime riforme introdotte da Pio IX, le speranze che
esse fecero nascere, la successiva delusione con la fuga del
pontefice a Gaeta, l'entusiasmante avventura della Repubblica romana
e il suo mesto epilogo. Come contorno non meno coinvolgente, gli
eventi che si svolgono negli altri Stati italiani, dal
Lombardo-Veneto al Regno delle due Sicilie. Nelle diciassette
"lettere" che la corrispondente Fuller manda al Tribune,
trasmigra verso il pubblico americano un pezzo importante di vita
risorgimentale: quel Quarantotto che a un'intellettuale d'indole
cosmopolita dové apparire come un melodramma denso di colpi di
scena, esaltazioni, disperazioni, atti di generosità, viltà,
tradimento. Di questo melodramma, Margaret tende a farsi protagonista
più che testimone.
Il sentimento che
inizialmente la lega a Pio IX è una fiducia fortemente intrisa di
tenerezza. Egli le appare un "padre" dei suoi sudditi. Sul
suo volto scorge "non tanto i segni di un grande intelletto,
quanto piuttosto quelli della bontà e della nobiltà del cuore e
delle simpatie liberali e generose". Il primo semestre delle
corrispondenze di Margaret è dominato dalla figura di papa Mastai.
Non è difficile, in quel grosso villaggio che è allora Roma,
imbattersi, in qualche sentiero di campagna fuori porta, nel vicario
di Cristo. "Abbiamo incontrato il Papa, a piedi, che faceva del
moto", racconta la giornalista. "Egli abbandona spesso la
carrozza ai cancelli per camminare. Cammina veloce, con indosso una
semplice tonaca bianca, con ai lati due giovani preti in viola
immacolato". La fisionomia di Pio IX "dà l'impressione che
nulla che abbia attinenza con il genere umano gli possa essere
estraneo. Tali sono i re autentici degli uomini". Ma la parabola
del libro, e il tono delle corrispondenze che lo compongono, si
adeguano agli eventi, che non sono affatto rosei per quella parte
"liberale" cui la Fuller ha impetuosamente aderito. La
defezione di Pio IX viene vissuta da Margaret con una passione che
trova pochi riscontri nella letteratura risorgimentale a firma
straniera. Il suo sdegno esplode nel contemplare "quei giovani
eroici che erano scesi in campo con la benedizione" del Papa,
"ad alcuni dei quali la sua stessa mano aveva consegnato la
croce". Ora, dopo la fuga di Pio IX, i fasti della Repubblica
romana sono al culmine. Ma si tratta di un breve tripudio. Nella
prosa di Margaret, spesso comiziesca per eccesso di enfasi, si aprono
squarci narrativi assai efficaci. Come quando sotto la sua finestra
che dà su piazza Barberini - siamo nel marzo 1849 - si organizza la
festa di san Giuseppe in stile "repubblicano", con quei
cuochi in berretto frigio "di un bel tessuto rosso" che
friggono zeppole per la letizia di una torma di clienti. "Roma",
conclude Margaret, "ha lo stesso aspetto dei romani, cioè
tranquillo come sempre malgrado le preoccupazioni che le tormentano
il cuore. Corre voce che Mazzini debba essere nominato dittatore come
Manin a Venezia, in modo da provvedere celermente ed energicamente
alla guerra. Ave Maria Santissima!... Madonna Addolorata!". Ecco
che il nome di Mazzini sovrappone una nota seria e problematica al
racconto di questa festa popolare a base di frittelle e copricapi
giacobini. Di fronte agli imprevisti che si addensano sulla fragile
Repubblica di cui Mazzini è il simbolo, la razionalista Margaret non
prova ritegno ad invocare la madonna. Ormai - si direbbe - è una
romana onoraria.
Il sogno di Margaret
Fuller è, comunque, sul punto di concludersi. Non soltanto a Roma la
Repubblica è al tramonto, ma i moti e le speranze suscitati in tutta
l'Europa dal Quarantotto si sono spenti. Le corrispondenze al
“Tribune” si fanno amare. Mentre le artiglierie del generale
Oudinot cannoneggiano Roma non più libera, in un impeto di
passionalità la giornalista arriva a desiderare l'olocausto. "Non
sarebbe così terribile", scrive, "morire colpiti da una
bomba...". Nella ideale galleria "europea" della
Fuller, altre immagini si sostituiscono a quella di Pio IX. Avanti a
tutti Mazzini, "mente profetica", "grande radicale",
"uomo di talento e pensatore eminente". Accanto a lui
Garibaldi, che evoca nella sua mente una triade religiosa e
mitologica: Gesù, Mosè ed Enea. Poi, eroi negativi, coloro che la
Fuller considera i nemici o i traditori degli ideali liberali. Di
Gioberti, Margaret dubita: lo considera "un ciarlatano",
privo di "vera forza intellettuale". A maggior ragione
Carlo Alberto è un maestro del doppio gioco, afflitto da
"un'assoluta mancanza di coraggio mentale". Ferdinando II è
"un povero, stupido re", Leopoldo di Toscana, "codardo
e falso", Luigi Filippo, vittima di un "egoismo spietato",
Luigi Bonaparte, il futuro Napoleone III, "un imbecille".
Per non parlare del generale Oudinot, fisico affossatore della
Repubblica romana.
Dietro l'esaltazione
"patriottica" che animò questi anni risorgimentali di
Margaret Fuller c'è la sua minuta vita di ogni giorno, l'incontro
con la gente, con i posti: la "sua" Roma, piena di vestigia
maestose ma insieme colorita e patriarcale. Alla sua sensibilità di
donna moderna certe scene sospese fra la tradizione e l'idolatria -
come il bacio che i consiglieri pontifici stampano sul piede del Papa
- appaiono "disgustosamente abiette". Altre cerimonie, come
la vestizione di una suora, accompagnata dal "salmodiare falso e
innaturale troppo comune fra i predicatori di tutte le chiese e di
tutti i paesi", risvegliano i suoi spiriti di libera pensatrice.
L'adorazione del Bambino Gesù all'Ara Coeli le sembra il
massimo del paganesimo e la induce ad esclamare: "Bruciate la
vostra bambola di legno!".
Anche al di fuori dei
riti religiosi, la sua solida infatuazione di Roma - "mai v'è
stata una visione", ella scrive, "la cui magnificenza
serena potesse rivaleggiare con quella di Roma al tramonto" -
cede di fronte alla petulanza dei suonatori di organetto,
all'abitudine di tutti a parlare gridando, e alle piogge continue,
all'umidità e agli "odori acri" che portò al suo naso il
lungo inverno romano 1847-48. In quei mesi Margaret era all'inizio di
una gravidanza: nel settembre 1848 avrebbe partorito un bimbo nato
dalla sua relazione con Angelo Ossoli, un marchese che
intellettualmente non la valeva. La nascita del bambino, lasciato in
custodia a una balia, non le impedisce - come s'è visto - di
gettarsi nelle vicende politiche. Poi, mentre l'Unità d' Italia si
allontana sullo sfondo, l'avventura nostrana della giornalista si
conclude nella tragedia. Nel maggio 1850, la nave che trasporta negli
Stati Uniti Margaret, Ossola e il loro figlio, naufraga: i tre
muoiono. L'epigrafe, in fondo, Margaret se l'era scritta da sè:
"Dovunque io vada in futuro, un'ampia parte del mio cuore
rimarrà per sempre in Italia. Spero che i figli di questo popolo
sempre riconosceranno in me una sorella, anche se non sono nata qui".
Era l'ultima corrispondenza spedita al “Tribune” dopo la resa di
Roma, il 6 luglio 1849. Una modesta lapide, questa di Margaret
Fuller. Forse la più ingenua, fra le tante che ricordano la
Repubblica romana.
“la Repubblica”, 27
marzo 1986
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