26.6.16

Aranci, limoni e mandarini. La Sicilia non profuma più (Laura Anello)

All’origine del fenomeno la massiccia cementificazione e la scarsa redditività

PALERMO
Sono il manifesto estetico della Sicilia, il profumo sensuale vagheggiato da poeti e viaggiatori, il luccichio tra i rami evocato da pittori e romanzieri, il vanto dei sollazzi arabi. Fecondi, gravidi di succo, luminosi. Gli agrumi. «Le arance dell’Isola sono simili a fiamme brillanti tra rami di smeraldo, e i limoni riflettono il pallore di un amante che ha trascorso la notte in lacrime per il dolore della lontananza», scrive nel 1160 il poeta siculo-arabo Abd ar-Rahman. «Splendon tra le brune foglie arance d’oro», gli fa eco sette secoli dopo Goethe, uno che si era innamorato dell’aria di quaggiù tanto da dire che l’Italia, senza la Sicilia, «non lascia alcuna immagine nell’anima».
Peccato che le distese di alberi fitti stiano scomparendo drammaticamente. Secondo i dati Istat, ripresi da Coldiretti, negli ultimi 15 anni si è volatilizzato il 50% dei limoni, il 31 % degli aranci e il 18 % dei mandarini. In totale, un terzo dei terreni. Al posto degli agrumeti, distese di cemento, parchi eolici o fotovoltaici, o alberi abbandonati dai contadini che hanno gettato la zappa alle ortiche. Strangolati da compensi da fame: nel 2016, annus horribilis delle arance (colpevole anche il clima asciutto che ha ridotto le dimensioni dei frutti e il tristeza virus che ha attaccato le piante), le industrie di trasformazione hanno pagato ai coltivatori solo dieci centesimi al chilo. Chi ha comprato il prodotto fresco, per lo più catene della grande distribuzione, non è andato sopra i 30 centesimi, 40 al massimo.
Allarme allora. Allarme rosso. Tanto da convincere il Fai a dedicare a questo tema parte della quinta edizione della manifestazione AgruMi che si svolge oggi e domani a Milano, a Villa Necchi, con la consulenza scientifica di Giuseppe Barbera, docente dell’Università di Palermo e studioso del paesaggio mediterraneo. Già, l’Sos parte dal Nord. Da quel Nord che paga un bicchiere di spremuta anche 5 euro - la stessa che per un coltivatore siciliano vale 3 centesimi - da quel Nord che vede negli agrumi siciliani un miraggio del caldo, dorato, vitaminico, mediterraneo Sud. «Si incontreranno le Università siciliane - spiega Barbera - i centri di ricerca, il distretto agrumicolo che riunisce le principali imprese della filiera regionale, i responsabili dei grandi mercati del Nord Italia. Bisogna comprendere che gli agrumi non producono solo frutti ma che costituiscono l’anima del paesaggio siciliano».
Un’anima minacciata dall’avanzata del cemento, da politiche comunitarie più vocate al sussidio che all’intervento strutturale, ma soprattutto dalla concorrenza estera: alla Spagna, pure patria storica degli agrumi, si aggiungono oggi Tunisia, Marocco, Turchia, forti di costi di produzione bassissima. Allora addio. Addio alle lumìe di Pirandello, ai limoni dipinti da Renato Guttuso, allo stupore di Stendhal, la cui sindrome per la bellezza sembrava arrivare anche dagli agrumeti. «Esiste davvero un Paese dove alberi così meravigliosi crescono in piena terra?», si chiedeva, lui abituato a vederli d’inverno dentro una serra.
L’unica risposta possibile sembra la qualità. Che fa rima con tipicità. «Stiamo lavorando per collegare sempre più strettamente le produzioni ai nostri territori - spiega Federica Argentati, presidente del distretto Agrumi di Sicilia, che raccoglie i produttori - valorizzando le produzioni di eccellenza, cioè i prodotti Igp, quelli Dop, le coltivazioni biologiche che rappresentano ormai il 40% del totale. Vogliamo puntare sul brand degli agrumi di Sicilia. C’è l’arancia rossa, quella di Ribera, il limone di Siracusa, il limone Interdonato di Messina, il mandarino tardivo di Ciaculli, il limone dell’Etna. Ogni frutto una storia, una peculiarità, un metodo di coltivazione, un paesaggio». Strada in salita, ma almeno in buona compagnia se c’è chi - come Pinella Costa, presidente dell’Associazione Gusto di Campagna - lavora su agricoltura e turismo proponendo itinerari che hanno come tappe consorzi, ristoratori, artigiani.
Di sicuro chi oggi a Palermo cerca la mitica Conca d’oro si vedrà indicare un centro commerciale. Della distesa di arance intorno alla città è rimasto solo il nome.


La Stampa 02/04/2016

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