Da Bagheria al mare era
tutta una distesa verde, verde di ulivi e di agrumi. In Sicilia
l’agrumeto si chiama giardino. Come il giardino del Paradiso, un
luogo non legato al denaro ma al piacere. Un segno divino, un terreno
capace di dare gioia, godimento spirituale, non solo nutrimento. Se
oggi vado da Villa Valguarnera a Palermo vedo semplicemente asfalto,
palazzi, cose orribili: i giardini sono scomparsi.
Non che mi consoli, ma
penso che questa trasformazione riguardi tutta l’Italia, tutte
quelle zone che erano particolarmente adatte alla coltivazione, degli
agrumi come dei pomodori, e che hanno cambiato destino. Questo perché
nel Dopoguerra si è puntato in maniera sbagliata all’industria. Si
è pensato che l’agricoltura dovesse essere sostituita
dall’industria, ed è stata una catastrofe.
Basta vedere come si è
ridotta Gela con il petrolchimico – catastrofe ambientale e sociale
- basta vedere le tante fabbriche abbandonate e lasciate lì.
Abbandonare l’agricoltura è stata quasi una colpa. Ma io non sono
pessimista: si può rimediare, la terra è sempre la terra. Si può
sempre migliorare un panorama, si può riconvertire un territorio, si
può eliminare l’orrore dei fabbricati industriali. Piantando
alberi, tornando a dare importanza ai fiumi. L’essere umano ha
capacità straordinarie. Si può, si deve tornare indietro, ma per
far questo bisogna cambiare la cultura del Paese, la mentalità, lo
sguardo sulle cose. Bisogna capire che si deve tornare alla terra,
che quello è il nostro specifico, che è inutile cercare di fare
cose che non ci appartengono.
La Sicilia a che cosa è
destinata? All’agricoltura, alla bellezza dei suoi beni
monumentali, alle sue tradizioni, alle sue chiese, al turismo
organizzato bene, non di massa. Turismo come cultura, come sviluppo
della specificità. Mi vengono in mente i pomodorini di Pachino, un
sapore meraviglioso. Li fanno pure i cinesi, ma in nessun posto del
mondo hanno il sapore che hanno in Sicilia.
La Stampa, 2 aprile 2016
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