10.6.16

Leonardo Sciascia e Giacomo Matteotti. Un frammento da “Porte aperte”

Porte aperte è tra i romanzi dell'ultimo Sciascia uno dei più densi (bello come il film che ne trasse Gianni Amelio con una memorabile interpretazione di Gian Maria Volonté); si è prestato perciò a tante e diverse letture: romanzo sulla Sicilia “irredimibile”, romanzo sul fascismo, romanzo sulla pena di morte ed altre ancora. C'è di sicuro tutto ciò e anche altro, anche se a me pare che il tema principale resti quello centrale di tutta l'opera dello scrittore di Racalmuto, quello su cui non cessò mai di arrovellarsi: la giustizia.
L'incipit del romanzo entra subito in medias res. È il 1937 e nel palazzo di giustizia di Palermo il procuratore del re è in visita dal giudice: tra le carte dell'imputato di un grave fatto di sangue è stato sequestrato, registrato dalla polizia, ma non consegnato alla magistratura, un cartoncino. Pare su sollecitazioni dall'alto. È stato ucciso un pilastro del fascismo palermitano, un avvocato, capo della corporazione degli avvocati, e su quel cartoncino è stampata una foto di Giacomo Matteotti. L'omissione viene adesso sanata e il cartoncino viene consegnato al giudice. Il procuratore si premurerà di evidenziare il messaggio contenuto in quel singolare modo di procedere: “in alto” non si vuole “confusione”, non c'è bisogno di dare risalto a codesto marginale risvolto politico, ci sono “ben altri elementi” per giungere a una condanna esemplare.
La riflessione di Sciascia non è presentata, in questo caso, in forma di digressione, ma è incorporata nel racconto, affidata ai pensieri che la vista di quel cartoncino suscita nel giudice. E' una pagina da ricordare e da meditare. (S.L.L.)
Il giudice lo prese, e subito che vi gettò gli occhi ebbe come un trasalimento: era un’immagine che, tredici anni prima, giornali, manifesti e cartoline avevano come inchiodato nella memoria degli italiani che avevano memoria, nel sentimento degli italiani che avevano sentimento. Questa, proprio questa: un volto sereno e severo, ampia fronte, sguardo pensoso e con un che di accorato, di tragico; o forse con quel che di tragico aveva poi conferito alla sua immagine da vivo la tragica morte. Immagine che riportò il giudice a quell’estate del 1924 (era pretore in un piccolo paese siciliano in cui pochi erano i fascisti e pochissimi i socialisti) in cui la sorte del fascismo parve vacillare, ma declinando l’estate ecco risollevarsi, riaffermarsi e vincere. E nella sua memoria il senso, proprio il senso - i colori, gli odori, i sapori persino — dell’estate che si spegneva, si associava allo spegnersi delle passioni che anche nell’ambito delle famiglie quel tragico caso aveva acceso. Passione che anche lui aveva sentito, ma dentro la passione del diritto, della legge, della giustizia. E pensò: ‘così andava sentita, perché non si spegnesse’.
Accanto alla fotografia, fitta di puntini e di esclamativi, era la scritta in cui a Giacomo Matteotti venivano attribuite, rivolte « ai suoi carnefici », frasi come queste: « uccidete me, ma l’idea che è in me non la ucciderete mai; la mia idea non muore; i miei bambini si glorieranno del loro padre; i lavoratori benediranno il mio cadavere; viva il socialismo». E da quelle frasi ingenuamente solenni ed eroiche (che però, ricordava, facevano effetto non solo a rincuorare l’opposizione ma a commuovere anche le casalinghe), la parola «cadavere» si spiccò greve, dissolvendo in altra immagine quella che aveva davanti: la fotografia del trasporto dei «resti mortali» dal bosco della Quartarella al cimitero di Riano Flaminio: la cassa di legno bianco, i quattro carabinieri che la portavano: e il primo (a sinistra nella foto, ricordò con terribile precisione), il più in primo piano, che si premeva sul naso e sulla bocca un fazzoletto. Ormai da anni non pensava al delitto Matteotti, in certi momenti e di fronte a certi fatti, che con parole che sarebbero state della storia futura, del giudizio storico: ma quel cartoncino rosso lo aveva precipitato in ricordi visuali che non sapeva di avere così nitidi, così precisi: e vi si intridevano quelle parole, quel giudizio. Fotografie, di quel settimanale che allora più di ogni altro ne offriva: le donne di Riano che portano fiori sul luogo dove il cadavere era stato trovato; i funerali a Fratta Polesine, la bara portata a spalla da parenti ed amici (il baritono Titta Ruffo, cognato, particolarmente segnalato nella didascalia: c’erano state per lui, poi, amare vicende a conseguenza di quella parentela, di quella devozione?); e quell'impagabile immagine, che valeva più di un capitolo di un libro di storia, di quei deputati socialisti in ginocchio presso la spalletta del ponte dove Matteotti era stato preso. Avevano deposto una corona, si erano inginocchiati: occhi cupidi di passare alla storia rivolti all’obiettivo; e si erano alzati quelli che, tra gli ultimi, temevano l’obiettivo non li cogliesse. E si propose di ritrovarla, quella fotografia: ricordava due o tre nomi dei genuflessi, lo incuriosiva sapere quel che ne era stato di ognuno.
Di pensiero in pensiero, si trovò avventatamente a dire: «Una cosa cui allora si badò poco: era libero docente di diritto penale all’università di Bologna».
«Chi?» domandò il procuratore.
«Matteotti» disse il giudice: ma dallo sguardo guardingo, e con un che di compassionevole, del procuratore, capì di avergli suscitato, oltre che diffidenza, un sospetto di disordine mentale, di sconnessione. L’argomento era spinoso, spinosissimo; e che c’entrava quel particolare della libera docenza? Ma da quel particolare era rampollata nella mente del giudice una constatazione: che Matteotti era stato considerato, tra gli oppositori del fascismo, il più implacabile non perché parlava in nome del socialismo, che in quel momento era una porta aperta da cui scioltamente si entrava ed usciva, ma perché parlava in nome del diritto. Del diritto penale.

Da Porte aperte, Adelphi, 1987

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