Porte aperte
è tra i romanzi dell'ultimo Sciascia uno dei più densi (bello come
il film che ne trasse Gianni Amelio con una memorabile
interpretazione di Gian Maria Volonté); si è prestato perciò a
tante e diverse letture: romanzo sulla Sicilia “irredimibile”,
romanzo sul fascismo, romanzo sulla pena di morte ed altre ancora.
C'è di sicuro tutto ciò e anche altro, anche se a me pare che il
tema principale resti quello centrale di tutta l'opera dello
scrittore di Racalmuto, quello su cui non cessò mai di arrovellarsi:
la giustizia.
L'incipit
del romanzo entra subito in medias res. È
il 1937 e nel palazzo di giustizia di Palermo il procuratore del re è
in visita dal giudice: tra le carte dell'imputato di un grave fatto
di sangue è stato sequestrato, registrato dalla polizia, ma non
consegnato alla magistratura, un cartoncino. Pare su sollecitazioni
dall'alto. È stato ucciso un pilastro del fascismo palermitano, un
avvocato, capo della corporazione degli avvocati, e su quel
cartoncino è stampata una foto di Giacomo Matteotti. L'omissione
viene adesso sanata e il cartoncino viene consegnato al giudice. Il
procuratore si premurerà di evidenziare il messaggio contenuto in
quel singolare modo di procedere: “in alto” non si vuole
“confusione”, non c'è bisogno di dare risalto a codesto
marginale risvolto politico, ci sono “ben altri elementi” per
giungere a una condanna esemplare.
La riflessione di Sciascia non è presentata, in questo caso, in forma di digressione, ma è incorporata nel racconto, affidata ai pensieri che la vista di quel cartoncino suscita nel giudice. E' una pagina da ricordare e da meditare. (S.L.L.)
La riflessione di Sciascia non è presentata, in questo caso, in forma di digressione, ma è incorporata nel racconto, affidata ai pensieri che la vista di quel cartoncino suscita nel giudice. E' una pagina da ricordare e da meditare. (S.L.L.)
Il
giudice lo prese, e subito che vi gettò gli occhi ebbe come un
trasalimento: era un’immagine che, tredici anni prima, giornali,
manifesti e cartoline avevano come inchiodato nella memoria degli
italiani che avevano memoria, nel sentimento degli italiani che
avevano sentimento. Questa, proprio questa: un volto sereno e severo,
ampia fronte, sguardo pensoso e con un che di accorato, di tragico; o
forse con quel che di tragico aveva poi conferito alla sua immagine
da vivo la tragica morte. Immagine che riportò il giudice a
quell’estate del 1924 (era pretore in un piccolo paese siciliano in
cui pochi erano i fascisti e pochissimi i socialisti) in cui la sorte
del fascismo parve vacillare, ma declinando l’estate ecco
risollevarsi, riaffermarsi e vincere. E nella sua memoria il senso,
proprio il senso - i colori, gli odori, i sapori persino —
dell’estate che si spegneva, si associava allo spegnersi delle
passioni che anche nell’ambito delle famiglie quel tragico caso
aveva acceso. Passione che anche lui aveva sentito, ma dentro la
passione del diritto, della legge, della giustizia. E pensò: ‘così
andava sentita, perché non si spegnesse’.
Accanto
alla fotografia, fitta di puntini e di esclamativi, era la scritta in
cui a Giacomo Matteotti venivano attribuite, rivolte « ai suoi
carnefici », frasi come queste: « uccidete me, ma l’idea che è
in me non la ucciderete mai; la mia idea non muore; i miei bambini si
glorieranno del loro padre; i lavoratori benediranno il mio cadavere;
viva il socialismo». E da quelle frasi ingenuamente solenni ed
eroiche (che però, ricordava, facevano effetto non solo a rincuorare
l’opposizione ma a commuovere anche le casalinghe), la parola
«cadavere» si spiccò greve, dissolvendo in altra immagine quella
che aveva davanti: la fotografia del trasporto dei «resti mortali»
dal bosco della Quartarella al cimitero di Riano Flaminio: la cassa
di legno bianco, i quattro carabinieri che la portavano: e il primo
(a sinistra nella foto, ricordò con terribile precisione), il più
in primo piano, che si premeva sul naso e sulla bocca un fazzoletto.
Ormai da anni non pensava al delitto Matteotti, in certi momenti e di
fronte a certi fatti, che con parole che sarebbero state della storia
futura, del giudizio storico: ma quel cartoncino rosso lo aveva
precipitato in ricordi visuali che non sapeva di avere così nitidi,
così precisi: e vi si intridevano quelle parole, quel giudizio.
Fotografie, di quel settimanale che allora più di ogni altro ne
offriva: le donne di Riano che portano fiori sul luogo dove il
cadavere era stato trovato; i funerali a Fratta Polesine, la bara
portata a spalla da parenti ed amici (il baritono Titta Ruffo,
cognato, particolarmente segnalato nella didascalia: c’erano state
per lui, poi, amare vicende a conseguenza di quella parentela, di
quella devozione?); e quell'impagabile immagine, che valeva più di
un capitolo di un libro di storia, di quei deputati socialisti in
ginocchio presso la spalletta del ponte dove Matteotti era stato
preso. Avevano deposto una corona, si erano inginocchiati: occhi
cupidi di passare alla storia rivolti all’obiettivo; e si erano
alzati quelli che, tra gli ultimi, temevano l’obiettivo non li
cogliesse. E si propose di ritrovarla, quella fotografia: ricordava
due o tre nomi dei genuflessi, lo incuriosiva sapere quel che ne era
stato di ognuno.
Di
pensiero in pensiero, si trovò avventatamente a dire: «Una cosa cui
allora si badò poco: era libero docente di diritto penale
all’università di Bologna».
«Chi?»
domandò il procuratore.
«Matteotti»
disse il giudice: ma dallo sguardo guardingo, e con un che di
compassionevole, del procuratore, capì di avergli suscitato, oltre
che diffidenza, un sospetto di disordine mentale, di sconnessione.
L’argomento era spinoso, spinosissimo; e che c’entrava quel
particolare della libera docenza? Ma da quel particolare era
rampollata nella mente del giudice una constatazione: che Matteotti
era stato considerato, tra gli oppositori del fascismo, il più
implacabile non perché parlava in nome del socialismo, che in quel
momento era una porta aperta da cui scioltamente si entrava ed
usciva, ma perché parlava in nome del diritto. Del diritto penale.
Da
Porte aperte, Adelphi,
1987
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