Roma - Si conclude oggi
il convegno intitolato Giuseppe Gioachino Belli nel bicentenario
della nascita. Quattro giorni, decine di relazioni, un corteo di
dotti che indaga a fondo la personalità dello scrittore, un finale
in Campidoglio, dedicato al Belli nella tradizione del Novecento. In
Campidoglio! "Un miracolo grosso", avrebbe esclamato il
poeta rifacendosi al titolo d'un suo sonetto. "Abbiamo
cominciato a sdebitarci con lui", dice Carlo Muscetta, belliano
illustre, autore di un saggio ispirato e minuzioso sul cantore della
plebe romana. "Ce n' era bisogno. Mai al Belli toccò un
riconoscimento in vita. Riuscì a veder pubblicate soltanto le sue
poesie in italiano. Venne considerato uno scrittore notevole, tranne
che per la sua opera più importante, che restava ignota al
pubblico". Uno scherzo del destino, cui d'altronde contribuì lo
stesso poeta. "Era ben consapevole di aver scritto cose
pericolose. I sonetti romaneschi li recitava solo davanti a persone
'sicure' . Nel l835 un editore parigino gli propose di pubblicarli in
Francia: rifiutò. Capiva che, una volta resi noti i sonetti, lui
avrebbe dovuto emigrare da Roma. Quando Giuseppe Mazzini nel '49, nei
giorni della Repubblica romana, lo fece cercare, considerandolo
l'unico letterato popolare a disposizione, si barricò in casa. Era
insomma, spaventato dal proprio sovversivismo e, di conseguenza,
prudente". La prima edizione integrale dei Sonetti risale
al 1886, ventitré anni dopo la morte del loro autore. Ma la fortuna
critica, che è stata a lungo stentata e controversa, ora è un dato
acquisito. Siamo, anzi, alla celebrazione. Questo anno belliano, il
1991, che cosa porta di nuovo? "La consapevolezza che, dopo
Eduardo De Filippo, Belli è il nostro scrittore dialettale più
tradotto nel mondo. In Germania, per esempio, dove Otto Ernst Rock ha
pubblicato un centinaio di sonetti, è ormai un best seller,
oggetto di culto. C' è un'associazione di Amici del Belli. È come
se, tutto d' un colpo, fosse stato vendicato della relativa
noncuranza che gli avevano riservato i suoi connazionali".
Poi, per tornare in
Italia, c'è l' avvenimento dell'edizione nazionale dei sonetti.
"Sarà completa entro l'anno prossimo. Dodici volumi in tutto -
ne sono già usciti sette - a cura di Roberto Vighi, uno studioso
oggi ottantatreenne che al Belli ha dedicato la vita. Per ogni
singolo sonetto, si risale al manoscritto e si fa la storia di tutte
le interpretazioni che ne sono state date lungo il tempo. Ne viene
fuori una sorta di enciclopedia belliana. Se i sonetti sono, come
voleva il loro autore, un monumento alla plebe di Roma, questa
edizione possiamo definirla un monumento al monumento". E lei,
Muscetta, rispetto al suo libro Cultura e poesia di G.G. Belli
la cui ultima edizione risale a dieci anni fa, ha concepito qualche
nuova idea? Le è nato in mente qualche nuovo approccio
interpretativo? "Ho ripensato al Belli sulla linea di un grande
marxista dissidente, il russo Michail Bachtin, il quale ha dedicato
uno studio alla 'letteratura carnevalizzata' , analizzando quegli
scrittori che un tempo si definivano serio-comici. Di questa genìa
Belli è un esponente tipico. Nella sua biblioteca trovavano posto
tre autori della letteratura carnevalizzata: Boccaccio, Voltaire,
Hoffmann. Ma ciò che più conta è che a Roma il carnevale era un
evento vissuto con intensità e languore insieme: in quella compagine
politica e umana al tramonto che era lo Stato pontificio, l'allegria
e la morte convivevano. Così, nei sonetti, le troviamo l'una accanto
all'altra. Il poeta usa spesso, per ciò che va scrivendo, il termine
"dramma", proprio nel senso shakespeariano di una forma d'
arte in cui la buffoneria si sposa al tragico".
Da certi tratti della sua
vita - soprattutto dall' attività di censore pontificio, svolta fra
il '52 e il '53, in cui gli capitò di condannare Macbeth e Rigoletto
- si potrebbe desumere che Belli fosse un reazionario. O almeno, si
direbbe oggi, un clerico-moderato. Lei, invece, lo considera - così
ha scritto - "un poeta obiettivamente rivoluzionario"...
"Io posso dirle che in tutta la vita del Belli c'è una
costante: l'egualitarismo. Da vecchio, quando leggendo “La Civiltà
cattolica” si vedeva sommerso da violente polemiche contro Il
Manifesto di Carlo Marx, scrisse una poesia in italiano intitolata '
Il comunismo' . Vi si rifletteva il suo rifiuto dell'esistenza di
'due generi umani' . Quel rifiuto che aveva espresso in versi
eloquenti. 'Quer chi tanto e chi niente è 'na commedia - che m'
addanno ogni vorta che ce penzo' . Va ricordato che, in due
circostanze, Belli conobbe la povertà vera: da piccolo, quando gli
morì il padre, e da adulto quando scomparve sua moglie Maria Conti,
una donna ricca e anziana che lo aveva a lungo sollevato da
preoccupazioni economiche. Perciò, quando parlando dei poveri dice
'noantri' , si coglie nei suoi versi un accento di verità.
Più d'una volta assunse atteggiamenti che oggi si direbbero
liberal-progressisti: intorno al 1830, allorché nello Stato
pontificio ci furono dei tentativi insurrezionali, e poi con Pio IX,
un papa al di fuori dei canoni abituali per un suddito della Chiesa".
Eppure, in quella che si
può definire la sua commedia, non si trova mai la parola "Italia".
"Anche se l'Italia non si vede mai, neppure sullo sfondo, tutte
le note che egli fa seguire ai propri sonetti sono indirizzate a un
ideale lettore non romanesco ma italiano. Certo, per lui il mondo è
Roma. Un mondo prossimo a sfasciarsi, che entra in colloquio con
altre parti del globo. Nei sonetti si parla dello zar. Si evoca New
York, detta 'Agliorca'".
La plebe di Roma parlava
davvero così? "Il fondo lessicale dei sonetti è romanesco
autentico. Poi ci sono invenzioni poetiche: una parola come '
puttanicizia' non è rintracciabile per esempio, in natura". Un
grande belliano, Giorgio Vigolo, parla della "lunga lotta"
del poeta con il dialetto. Una lotta che finisce nel 1849, quando
Belli indirizza un sonetto a sua nuora Cristina: "Sora Crestina
mia...". Qui s' interrompe, fino alla morte dello scrittore
(1863), l' uso del dialetto, che egli - scrive Vigolo - aveva
adoperato "come personaggio estremo e turpe, come maschera
infima e tenebrosa". In quei quattordici anni che gli restano
Belli scrive in italiano. Il suo italiano com' è? "Come
scrittore in lingua si collocava nella buona media del tempo. E
dell'italiano aveva una conoscenza che non si esagera a definire
mostruosa. Redasse un'aggiunta al dizionario del Carnevali, un
classico dell'epoca, con tutte le parole che l'autore aveva omesso.
In italiano un filologo attentissimo. In dialetto, uno sperimentatore
irrefrenabile".
“la Repubblica”, 9
novembre 1991
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