A Vivian non piace
ricordare. Tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, si sveglia alle
6.30 e cammina spedita verso la metro che la porterà al lavoro,
nella mensa di una scuola elementare di Roma. Non si volta indietro.
Ma a volte il passato calpesta il suo sonno: si rivede con indosso un
vestito bianco macchiato di sangue, rivede papa, sua moglie e lo
sciamano. Nell’incubo non hanno volto, però ripetono nei suoi
confronti quel rituale di quasi quattro anni fa. Tanto è trascorso
dal giorno del juju, variante locale del rito voodoo
con cui è cominciato il suo viaggio verso l’Italia.
«Mi spogliarono, mi
fecero indossare un vestito bianco e inginocchiare sull’acqua. Papa
sgozzò un gallo che aveva portato, ne prese le interiora e le poggiò
sulla mia testa, schiacciando forte perché il sangue mi colasse sul
corpo. Lo sciamano cominciò la preghiera, diceva: “Se onorerai il
tuo debito la tua vita proseguirà liscia come l’acqua di questo
mare. Se non paghi finirai in un vortice. Io promisi. Anche se non ci
credevo... Non so se ci credevo, in quel momento sentivo che il juju
era più forte, che mi soggiogava», racconta Vivian (nome di
fantasia), adesso che è abbastanza libera da sfidare se stessa nello
sforzo di voltarsi indietro, solo per qualche ora.
Iniziano sempre così le
storie delle donne vittime di tratta dalla Nigeria. Destinate allo
sfruttamento sessuale in Europa, in tre anni quelle arrivate via mare
nel nostro Paese sono più che decuplicate: 433 nel 2013, 1.454 nel
2014, 5.633 nel 2015, denuncia l’Organizzazione internazionale per
le migrazioni. Un aumento spropositato anche rispetto alla crescita
generale di persone sbarcate sulle coste italiane nello stesso
periodo.
L’approdo di Vivian a
Lampedusa si colloca all’inizio di questa curva crescente, nel
settembre del 2013. La sua è una vicenda che si discosta, nella
prima parte, dal copione classico. «Quasi sempre i parenti sanno che
le ragazze andranno a prostituirsi: è un’attività accompagnata
dallo stigma solo se non ti arricchisci; se invece fai i soldi è
tollerata. Purtroppo, in un Paese dove indigenza estrema e corruzione
sono diffusissime, la ricchezza è un valore enorme», osserva Simona
Moscarelli, esperta legale dell’Oim. Quello che spesso non si
conosce è la portata reale del debito contratto: «Prima era attorno
ai 50 mila euro, adesso è sceso a 30 mila. Si tratta in ogni caso di
somme che pensano di poter restituire con qualche mese di lavoro in
strada. Non è così».
Vivian non è stata
venduta da familiari consenzienti, spinti dalla povertà, in cerca di
una chance di sopravvivenza se non di riscatto sociale. È
finita nella rete di trafficanti e maman per mancanza di appigli.
Il fratello maggiore
scomparso in circostanze ignote. La seconda moglie del padre
musulmano che, rimasta vedova, si appropria di tutto il poco che
hanno e la taglia fuori dalla nuova famiglia. La madre, cattolica
pentecostale, uccisa poco dopo da un’infezione da diabete che non
aveva potuto curare. Uno zio che le lascia le prime violazioni sul
corpo. Sola, a 22 anni, incontra l’uomo che ancora oggi chiama papa
– «probabilmente un trafficante improvvisato», ricostruisce
Chiara Spampinati dell’associazione Differenza donna, la
prima a parlare con Vivian quando arrivò nel Cie di Ponte Galeria a
Roma, convincendola a sporgere denuncia. È lui a prometterle il
passaporto e un lavoro in un ristorante in Niger. «Mi spiegò che
non mi conosceva, e che quindi prima di andare a Benin City per fare
i documenti dovevamo fare il rito, altrimenti non si sarebbe potuto
fidare di me», ricorda. Il juju si svolge in una delle
piccole località dove il Niger incontra l’oceano. Quello subìto
da Vivian non è tra i più violenti, «il rito canonico prevede che
alla ragazza si taglino una ciocca di capelli, i peli delle ascelle o
quelli pubici, e che le si pratichi un taglio tra le scapole, in
mezzo al seno oppure sul braccio. A volte si procede durante le
mestruazioni, dando alla vittima nuovi indumenti intimi nel corso
della cerimonia», spiega Spampinati. Una cerimonia di espropriazione
dell’anima, «un atto in cui non conta tanto la violenza in sé, ma
il simbolismo: sancisce la perdita della proprietà di te stessa, è
un rito di magia nera, in teoria slegato dalla religione ma percepito
come strettamente connesso ad esso, ed è per questo che lo subiscono
tutte, musulmane e cristiane», aggiunge Ilaria Boiano, avvocato di
Differenza donna.
Il lavoro nel ristorante
di Agadez durerà pochi mesi: «Il marito della proprietaria mi
violentava. Lei lo scoprì, s’infuriò e mi cacciò via». Vivian
finisce nelle mani di una maman: «Appena fuori, sulla strada di
fronte al ristorante vidi una donna su un pick up. Disse che andava
in Libia e si offrì di portarmi con lei. Avrei pagato all’arrivo».
Di nuovo senza alternative, spaventata e bisognosa di qualcuno di cui
fidarsi, accetta. La rotta è la solita, quella che passa per Dirkou,
da anni checkpoint dei trafficanti prima di passare il
confine. «C’erano auto cariche di persone, si fermavano tutti lì
a prendere le taniche d’acqua». Ma arrivate a Zuwara, dopo qualche
settimana come aiutante domestica in una casa, la maman alza
la posta: i soldi che guadagna non bastano per ripagare il viaggio.
«Mi mise in contatto con un uomo, che mi portò in una connection
house». È il ghetto dell’addestramento verso la schiavitù in
Europa: a quel punto il destino delle ragazze come Vivian è già
deciso, vengono abituate a prostituirsi, stuprate, torturate.
L’obiettivo è piegarle psicologicamente, ammaestrarle a non
fidarsi dell’uomo bianco.
«L’instabilità
politica in Libia e la presenza di Boko Haram nel nord della Nigeria
hanno amplificato la capacità di fuoco di queste organizzazioni
criminali, che con il traffico di donne hanno trovato un business
redditizio e funzionale al controllo del territorio», osserva ancora
Simona Moscarelli. Prima si muovevano anche in aereo, con documenti
falsi, da Lagos verso gli hub di Parigi, Madrid, Milano. Ora i
controlli più rigorosi negli scali europei favoriscono la rotta
attraverso il deserto e il Mediterraneo. Questo spiega in parte il
forte incremento del flusso via mare. Oltre a una domanda,
evidentemente, alta. E che negli ultimi tempi si caratterizza per un
aumento delle minorenni – l’anno scorso circa un migliaio,
istruite a dichiarare la maggiore età – e di donne in stato di
gravidanza perché, si legge nell’ultima relazione dell’Oim, i
trafficanti sanno che «la presenza di un bambino favorisce spesso la
permanenza legale delle donne nei Paesi di destinazione, lasciandole
più libere di prostituirsi ed essere sfruttate».
«Dopo circa due mesi
l’uomo mi disse: ti porto in Europa con la barca, non so dove
finirai ma se ti va bene qualcuno all’arrivo ti aiuterà. Tu non
hai nessuno, non ti conviene restare qui». La partenza avviene da
Tripoli, passando per altre violenze in un’altra connection
house. Vivian, nella tragedia, è stata fortunata: il barcone con
cui ha fatto la traversata è andato in avaria, nei soccorsi è stata
separata dal trafficante che era a bordo con lei, 24 ore dopo
l’attracco a Lampedusa era al Cie di Ponte Galeria.
Ma non va sempre così.
Spesso le ragazze viaggiano con in tasca un pizzino con il numero di
telefono di un’altra maman che le aspetta a destinazione, e
sono loro a chiamarle. Perché, per contraddittorio che sembri,
guardano ai loro aguzzini con un sentimento di gratitudine, «come a
qualcuno che ha comunque permesso loro di arrivare in Europa; e allo
sfruttamento stesso come a un prezzo da pagare per raggiungere una
situazione di benessere», spiegano dall’Oim. Gli operatori, tra
aprile 2014 e ottobre 2015, hanno individuato 3.952 vittime di tratta
sbarcate sulle coste sud d’Italia. Se va bene, al porto riescono a
parlare con loro, informandole su diritti e vie d’uscita possibili.
Nello stesso periodo quelle convinte a denunciare appena arrivate
sono state 91, di cui 36 minorenni. Poche: è come svuotare il mare
con un cucchiaino.
Per l’informativa ci
sono pochi minuti a disposizione, la si fa per gruppi nei quali è
spesso presente anche la maman, non c’è privacy. Molte di loro non
denunciano perché immaginano maledizioni conseguenti al tradimento
del rito, o temono ritorsioni nei confronti dei familiari rimasti in
Nigeria. Che non sono rare (si veda l’articolo qui sotto). «Noi
pensiamo che le vittime di tratta siano molte di più, oltre il 70%.
Per questo è importante anche intervenire lì, lavorando a partire
dal fattore culturale», conclude Moscarelli.
Le organizzazioni
Le più note si chiamano
Aye, Black Eye (nato con una scissione del primo gruppo), Vikings.
Evoluzione violenta delle Secret Cults (un po’ confraternite e un
po’ sindacati degli studenti, nate a metà del secolo scorso), dal
1999 in poi, con l’inasprirsi dei conflitti interreligiosi, «sono
state comprate dalla politica e hanno avviato attività criminali»,
spiega Rosanna Paradiso, ex presidente della onlus Tampep e
consulente della Procura di Torino per la tratta di donne dalla
Nigeria. Hanno investito nelle attività più redditizie: truffe
online, clonazione di carte di credito, traffico di droga e di donne.
«A questi gruppi si rivolgono le maman per minacciare le ragazze»,
e sono loro ad aver conferito ai riti magici l’attuale connotazione
coercitiva: «In origine erano una sorta di benedizione per la figlia
che partiva».
Per gli stupefacenti si
avvalgono della manovalanza dei corrieri dell’Est Europa, «in
maggior parte di nazionalità bulgara, per consentire una più sicura
circolazione all’interno dell’area Shengen riducendo al minimo il
rischio di controlli», ha scritto la Direzione nazionale antimafia
nella sua relazione annuale 2014. I viaggi delle ragazze vendute
s’intersecano invece con il percorso dei migranti attraverso il
deserto e il Mediterraneo: il regno dei trafficanti di uomini, non
per forza coinvolti nel successivo sfruttamento della prostituzione,
ma in grado di «assicurarsi ingenti incassi dalla sola gestione del
trasporto illegale», spiega a “pagina99” Calogero Ferrara, pm
della Dda di Palermo titolare delle inchieste Glauco 1 e
Glauco 2, avviate dopo il naufragio del 3 ottobre 2013 in cui
morirono 366 migranti a poche miglia dal porto di Lampedusa. Uno
degli scafisti, l’eritreo 31enne Nuredin Atta Wehabrebi, ha deciso
di collaborare con la giustizia. È il primo pentito tra i
trafficanti. Le indagini hanno portato finora a 40 misure cautelari,
tutte nei confronti di africani.
Ma nei tribunali
italiani non fermiamo i veri boss
Nei tribunali italiani si
spezza solo l’ultimo anello della catena del traffico. Arrivare
all’altra estremità è più difficile: la natura transnazionale
del crimine presuppone una cooperazione che nel caso della Nigeria è
spesso infruttuosa. Da noi il numero di processi istruiti per
articolo 601 del codice penale, che punisce la tratta di persone con
pene da otto a 20 anni, è esiguo rispetto a quelli per articolo 12
comma 3 ter del testo unico del 1998, la norma relativa al
favoreggiamento dell’immigrazione clandestina aggravato dalla
finalità della prostituzione. La ragione tecnica la spiega bene
Paolo Borgna, procuratore aggiunto a Torino dove coordina il gruppo
criminalità organizzata e sicurezza urbana, che per anni si è
occupato di migranti e criminalità transfrontaliera. «La scelta
sulla strada da percorrere dipende spesso da come si presentano i
fatti: l’articolo 601 comporta una sforzo accusatorio maggiore,
bisogna provare l’assoggettamento fisico della persona – per
esempio che la ragazza non può avere contatti telefonici non
controllati, che non può spostarsi se non accompagnata – o
psicologico». Per farlo servirebbero più intercettazioni ambientali
anche dall’altro lato del Mediterraneo, e squadre di interpreti ben
assortite per comprendere cosa succede in una federazione di 36 Stati
con oltre 500 lingue locali. «Nella mia esperienza, capita di
frequente che in primo grado sia riconosciuto anche il reato di
tratta e poi in appello solo il favoreggiamento dell’immigrazione
clandestina», prosegue Borgna. E precisa: «Da un punto di vista
delle condanne non è un problema: con l’articolo 12 aggravato si
può arrivare in teoria fino a 22 anni di reclusione, quindi pene
persino più alte di quelle previste per la tratta». Ciò che in
questo modo rimane sommerso è l’estensione territoriale del
fenomeno. «Il maggiore punto debole delle indagini è il seguente:
se una ragazza che si trova in Italia sporge denuncia, viene portata
in una struttura protetta. Ma non abbiamo gli strumenti per tutelare
allo stesso modo i suoi familiari lì. Non possiamo prometterle che
ai genitori non venga bruciata la casa. Così accade che le giovani
che decidono di sottrarsi alla schiavitù poi si vedano recapitare i
filmati delle vendette subìte dai parenti». Nel luglio del 2003 in
Nigeria è nata la Naptip (National agency for the prohibition of
trafficking in persons), con il compito di indagare sui traffici
di persone, anche rinforzando le sinergie con altri Paesi. Quattro
mesi dopo l’allora procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna
e il ministro della Giustizia nigeriano Akinlolu Olujinmi firmavano
un memorandum of understanding di cooperazione.
«Io ero nella
delegazione che, assieme ad associazioni e funzionari del ministero
dell’Interno selezionati dall’Unicri (United nations
interregional crime and justice research intistute), andò in
missione in Nigeria, tenendo corsi di formazione a pm e poliziotti»,
ricorda Borgna. «Doveva essere un nuovo strumento di protezione ai
parenti delle ragazze. Ma negli anni, di fronte a denunce e verbali
inviati dall’Italia, l’Agenzia ha risposto che le famiglie erano
irreperibili, o che addirittura avevano rifiutato il programma di
protezione». I maliziosi dicono che la Naptit sia stata
un’operazione di facciata in un Paese dove il traffico di
prostitute in Europa fa girare molti soldi. «Questo non lo credo»,
risponde il magistrato, «non ci sono elementi per sostenerlo. Ma di
fatto l’Agenzia non sta funzionando come si sperava». E già due
anni fa la Direzione nazionale antimafia scriveva nella sua relazione
annuale che «le indagini possono essere sviluppate solo contro i
trafficanti individuati in Italia, giacché non si riesce a ottenere
alcuna concreta collaborazione giudiziaria dal Paese d’origine per
colpire i capi che gestiscono i traffici». Al massimo si prendono i
pesci piccoli, gli squali del sistema restano dove sono.
Pagina 99, 7 maggio 2016
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