29.8.11

Danilo Dolci in Sicilia. Con una testimonianza di Giuseppe Casarrubea.


La Marcia per la Sicilia Occidentale (1967)
Nel sito “Epicentro Belice” ho trovato una sintetica ricostruzione dell’attività di Danilo Dolci in Sicilia dagli anni 50 agli anni 70, da quando nei primi anni 50 arrivò a Trappeto e iniziò la sua attività di denuncia non violenta delle condizioni di povertà della Sicilia. Dolci suggeriva e praticava forme originali di lotta sociale. Tali furono il digiuno collettivo di contadini e pescatori sulla spiaggia di Trappeto  e lo sciopero alla rovescia, cioè lavorando (“perché se uno è disoccupato come può scioperare? Non astenendosi dal lavoro ma mettendosi al lavoro!”).
(http://www.epicentrobelice.net/)
Nel sito si ricorda, con il corredo di antiche fotografie, anche il processo contro Dolci per la partecipazione allo sciopero alla rovescia, ove ebbe come difensore per sé e per gli altri arrestati Piero Calamandrei. Sulla personalità di Danilo Dolci resero testimonianza Norberto Bobbio, Lucio Lombardo Radice e Carlo Levi.
Una delle chiavi su cui Dolci costruiva partecipazione di base e movimento era l’obiettivo della piena occupazione da realizzarsi attraverso la cosiddetta “pianificazione partecipata”. La parola rimandava all’Urss, alla sua economia, ai rigidi Piani Quinquennali che ne scandivano lo sviluppo; ma i piani di sviluppo di Dolci si costruivano dal basso, nelle valli dello Jato o del Belice, per esempio sconfiggendo la prepotenza e la mafia attraverso la partecipazione più ampia possibile alla mappatura delle risorse, alla loro possibile utilizzazione e gestione democratica.
In un convegno del 1957 sulla piena occupazione, Dolci presenta gli esiti di una ricerca sulle possibilità di pieno impiego in 10 comuni della Sicilia Occidentale condotta  da alcuni giovani (tra i quali Lorenzo Barbera). A Mosca gli viene assegnato per quest'azione il premio Lenin per la Pace,16 milioni di lire, una cifra importante per il tempo che è utilizzata per costituire, con sede centrale a Partinico, il Centro Studi e Iniziative per la Piena Occupazione: in diversi paesi comitati guidati da giovani pianificatori raccolgono dati sulla situazione sociale e ascoltano i cittadini aiutandoli ad auto-organizzarsi.
Saranno particolarmente importanti le attività condotte dal comitato di Roccamena, in cui dal 1960 emerge la figura di Lorenzo Barbera. Il comitato guiderà una grande battaglia per l’acqua, affermando la necessità di costruire una diga sul fiume Jato, tema di una lunga battaglia sociale e politica.
Le lotte degli anni Sessanta confluirono nel 1967 in una marcia per la Sicilia occidentale e per un nuovo mondo.
Dopo il terremoto del 1968, che ebbe proprio nella valle del Belice il suo epicentro, Dolci  sostenne i tentativi di una ricostruzione pianificata dal basso e le lotte delle popolazioni: alle consuetudinarie forme di protesta (assemblee, marce, una veglia tra i ruderi di Gibellina in occasione dell’anniversario del terremoto, mozioni, comunicati stampa) si aggiungevano anche il rifiuto di pagare le tasse a un governo considerato “fuori-legge” e il rifiuto non-violento della leva. Quella mobilitazione purtroppo non avrebbe ottenuto che risultati assai parziali e non avrebbe impedito che sulla ricostruzione si stendessero le mani dell’affarismo.
Del 1970 è il primo esperimento di Radio Libera su frequenze non pubbliche: fu realizzata  a Partinico da Danilo Dolci e Pino Lombardo, accompagnati dal flauto di Amico Dolci. Il titolo fu Sos Belice, il tema i racconti disperati e i mille bisogni del dopoterremoto: «si marcisce di chiacchiere e di ingiustizie, la Sicilia muore».
Sull’esperienza di Dolci trascrivo qui una importante testimonianza, sul filo della memoria, di Giuseppe Casarrubea, uomo di scuola e storico di valore. Rimando al suo blog per l’intero scritto. (http://casarrubea.wordpress.com/2008/08/31/danilo-dolci-sul-filo-della-memoria/ ) (S.L.L.)

 Danilo Dolci e la storia della Repubblica
Roccamena 1964. In prima fila tra gli altri Danilo Dolci e Ignazio Buttitta
Nell’inverno del 1964, non so come, ebbi un posto di insegnamento a Roccamena: corso post-elementare per analfabeti di ritorno. Una corriera traballante avrebbe dovuto lasciarmi in piazza. Si fermò un po’ prima e l’autista mi disse che potevo scendere per proseguire a piedi. Avevo già prenotato una stanza in affitto e così mi accingevo a disfare le valige per sistemare le mie cose per l’indomani. Non ebbi il tempo di farlo perché all’improvviso mi giunse un coro di voci lontane. Prestai un po’ d’attenzione pensando che qualcuno, chissà in quale via, tenesse la radio ad alto volume. Avevo la curiosità di sapere dove si fosse sintonizzato. Esclusi che si potesse trattare di un canale nazionale perché sentivo adesso distintamente canti di lavoratori, cori in dialetto siciliano, inni di partigiani interrotti da un vociare insolito. Mi rimisi la giacca a vento, chiusi la porta e mi indirizzai seguendo le voci che mi giungevano all’orecchio sempre più vicine. Così capii perché l’autista, quella sera non aveva potuto lasciarmi in piazza. Era occupata da una folla enorme di persone disposte tutte a cerchio attorno a un fuoco; molte s’erano munite di sedie, altre stavano sedute a terra. Guardai più attentamente e tra i bagliori delle fiamme scorsi uno accanto all’altro Danilo Dolci e Ignazio Buttitta. Conoscevo entrambi. Danilo more solito sventolò in aria le sue mani come fossero bandiere per salutarmi, Ignazio si dimostrò al solito suo apparentemente più chiuso, ma affabilissimo nel momento in cui gli strinsi la mano. Due caratteri diversi, due mondi che si incontravano e si capivano, e lottavano assieme in quel luogo sperduto della Sicilia dominato da una mafia meno visibile di quella di Partinico, Corleone o Castellammare del Golfo. Mi sentii rincuorato, avvertii che uscivo dalla solitudine e da certo gramsciano pessimismo che mi confermava tuttavia il dovere dell’ottimismo della volontà. Erano le prime lotte per la costruzione della diga sul Garcia, che tanti lutti, battaglie e sangue doveva costare negli anni a venire. Ricordo le numerose iniziative di allora in quell’entroterra ancora feudale: le sfilate interminabili dei contadini sui loro muli, i sit-in in quella piazza dove molte finestre restavano chiuse per l’intero anno, e stavano a guardarci come giganteschi occhi di fantasmi di pietra, le iniziative del Centro Studi curate da Lorenzo Barbera, la proiezione, in una vecchia sala cinematografica, del film di Rosi Salvatore Giuliano (1961). Mi rendevo conto che Danilo, modulava dai grandi dirigenti delle lotte contadine ammazzati dalla mafia, gli schemi delle azioni rivendicative che essi avevano condotto negli anni delle occupazioni delle terre. Mi venne spontaneo l’accostamento delle famose “cavalcate” nella Sciacca di Accursio Miraglia con quelle manifestazioni altrettanto plateali che ridavano adesso ai latifondi seminati a grano l’antica anima di un tempo. Sapevo che Miraglia era una figura centrale di Spreco.

Sul finire del 1968 feci le valige e me ne andai in Piemonte a cercare lavoro. E qui, tra Verbania e Stresa, al rientro dalla Scuola, mi ero dato dei tempi di riflessione sulla Sicilia, i suoi uomini e i suoi misteri. Sentivo tale bisogno come una sorta di dovere etico e confesso che Danilo era quasi sempre al centro dei miei pensieri. Perciò anche se a distanza di duemila chilometri, non potevamo fare a meno, talvolta, di comunicare. Ero stato ed ero un suo collaboratore volontario, avevo creduto nella sua azione e volevo dare a questa un mio contributo tangibile. Pertanto non percepivo una lira dal Centro Studi per la piena occupazione che lui dirigeva a Partinico, in quel vecchio edificio ottocentesco di proprietà degli Scalia. Volevo essere disinteressato e impegnato. Così mi sentivo in qualche modo forte e pago. Con una carica positiva dentro che mai prima mi era stato dato di avere.

Approfittai delle vacanze di Natale di uno di quei “caldi” inverni che avevano visto, tra piazza Gramsci e la Rhodiatoce di Verbania Intra, imponenti manifestazioni operaie, per tornare a Partinico e consegnargli un lavoro dattiloscritto su di lui. Erano pagine arricchite da un’appendice di incontri e seminari tenutisi a “Borgo di Dio”, il Centro di Trappeto che egli aveva fondato con i primi aiuti di Elio Vittorini. Lo lesse in un paio di giorni. Poi mi telefonò e mi fissò un incontro. Andai a trovarlo di mattina presto, sapendo che egli alle otto era in piedi già da quattro ore. Aveva l’abitudine dei contadini, di quei braccianti agricoli che se volevano sopravvivere dovevano alzarsi prima dell’alba per essere poi ingaggiati per una giornata di lavoro. Aveva imparato da loro e aveva così appreso uno stile di vita che sin dai primi anni della sua attività a Trappeto prima e a Partinico dopo, aveva costituito per lui un valore fondamentale, così grande da plasmare anche il suo carattere. Dunque l’andai a trovare di buon’ora e mi ricevette nel suo studiolo: una stanzetta umile e un po’ umida piena di libri contenuti in scaffali di tavole e laterizi, con una vecchia scrivania piena di altri libri e carte in un angolo. Ma c’era dell’altro, c’erano i suoi grandi interrogativi che egli affiggeva sistematicamente al muro, in grandi dazebao scritti a caratteri cubitali. Ne ricordo alcuni che costituirono per anni enigmi anche per me. Fino a quando, quasi trent’anni dopo, non me ne sono dovuto occupare nelle mie ricerche di storia. Leggevo: “Che successe nel baglio dei Parrini?”, “Chi ha ucciso Vincenzo Campo ad Alcamo?”, “Perché è stato ucciso Nardo Renda?”. Non era usuale allora entrare in una qualsiasi sede di partito e trovare, non dico affisse al muro, ma sussurrate in qualche sensibile orecchio, analoghe domande. In queste, mi sono reso conto ora, c’era la storia di cinquant’anni della nostra Repubblica.
Giuseppe Casarubbea

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