4.8.11

Gioco a perdere. Berlusconi, Bersani e la crisi.


Banchieri del primo Novecento
Ho letto in un articolo di Pietro Ancona su “Italia-notizie” che tra le misure che il ceto dei politicanti e quello dei sindacalisti hanno in cantiere, quasi del tutto unitariamente, per “tranquillizzare i mercati finanziari e stimolare le ripresa economica” – come usano dire - ci sarebbe l’abolizione non già dell’articolo 18 soltanto, ma dello “Statuto dei Lavoratori” tutto intero, ipotesi esplicitamente avanzata ieri da Silvio Berlusconi nel suo intervento in Parlamento. Ancona è stato dirigente sindacale importante e membro del Cnel, sa di che cosa parla e la sua previsione è da considerarsi attendibile, sebbene una simile scelta potrebbe far dilatare a macchia d’olio il dissenso contro Camusso nella Cgil. Del resto già da parecchi anni Cisl, Uil, dirigenti Cgil, esponenti Ds e Margherita (poi Pd) parlano di uno “Statuto dei Lavori” che dovrebbe sostituire il vecchio testo elaborato da Giugni, e dell’esigenza di “spalmare le tutele”.
Questa sarebbe una cosa sbagliata perfino se fosse fattibile (togliere le tutele a chi le ha indebolisce la forza contrattuale di tutti e bisognerebbe piuttosto lottare per estenderle), ma Berlusconi ha svelato le regole di questo gioco a perdere: alla fine del percorso c’è la generalizzazione della precarietà e della mancanza di diritti. La democrazia che con fatica entrò nelle fabbriche, nei cantieri, nei negozi, in tutti i luoghi di lavoro rischia di uscirne con un consenso parlamentare pressoché unanime. La ripresa (che da una siffatta misura non sarebbe affatto agevolata) diventa pertanto l’alibi per sancire la sottomissione e la disgregazione del lavoro dipendente.
Trovo meno convincente quanto Ancona scrive sulla parte più “politica” del discorso di Berlusconi. Quanto il presidente del Consiglio ha detto sulla sostanziale affidabilità dello Stato italiano non è privo di fondamento: l’Italia può pagare il suo debito perché, nonostante gli sforzi congiunti, destra e sinistra di governo non sono riuscite a regalare agli amici l’ingente patrimonio della Repubblica, assai superiore per entità e valore a quello di paesi di grandezza comparabile. E quel vasto e multiforme patrimonio, più che le chiacchiere fasulle sulla ricchezza delle famiglie, che funge da garanzia sui titoli emessi.
La verità è che il discorso di ieri era quello che di solito fa Tremonti con in più una spruzzata di quell’ottimismo tipicamente berlusconiano, che è divenuto grottesco da quando è scoppiata la crisi. Esso non era diretto né agli italiani, né ai “mercati”, ma alla maggioranza e all’opposizione parlamentari (e sindacali), al distrutto Tremonti come al velleitario Maroni, al subdolo Casini come al “compagno” Bersani. A tutti il Cavaliere ha detto: “Senza di me non andate da nessuna parte, tanto più visto che Napolitano non vuole una crisi al buio e mi protegge”. La protezione del resto non è gratuita: è stato Napolitano e non Berlusconi a volere la diretta partecipazione italiana a una guerra stupida e criminale come quella di Libia.
Quanto il presidente del Consiglio non ha detto esplicitamente, ma ha alluso, e cioè il carattere speculativo dell’attacco ai titoli del debito italiano, è quasi certamente vero. Ma, se ciò accade, è perché la finanza trova terreno fertile nella situazione politica italiana, nella debolezza di una maggioranza raccogliticcia, ricattata e ricattabile, nella follia e nella decadenza umana oltre che politica di un capo del governo che è ossessionato dai processi, che è circondato da ladroni, lestofanti e magnaccia, che è costretto ad avallare cose ridicole e costose come il trasferimento dei ministeri e che si regge sulla forza del suo potere di corruzione e di ricatto oltre che sul sostegno sempre più evidente del capo dello Stato. L’attacco dei “mercati”, cioè della finanza di rapina che oggi domina l’economia reale e trascina i comportamenti del piccolo risparmio investito in azioni e titoli, si rivolge all’Italia non tanto per la sua debolezza economico-finanziaria (che, come molti dicono, è relativa), ma perché a capo del governo italiano c’è uno come Berlusconi. Lo dico con convinzione: un governo della destra, con un'altra guida, magari allargato al cosiddetto Terzo Polo rintuzzerebbe più facilmente le speculazioni finanziarie, che si rivolgerebbero altrove nonostante il debito pubblico italiano. E con altrettanta convinzione dico che quel governo lì (o peggio ancora il governo dei tecnici e cioè dei banchieri, industriali, burocrati e generali) sarebbe per i lavoratori di ogni tipo, attivi e pensionati (e i malati, i poveri, gl’immigrati, il Sud, le donne) la disgrazia più grave, più catastrofica perfino del governo Berlusconi.
Neanche a me il discorso di Bersani è piaciuto, ma per ragioni opposte a quelle di Ancona. Io non riesco a ragionare in termini nazionali ma solo di classe, e perciò a me il discorso di Bersani è sembrato moscio e vuoto. Pesa certamente su tutto ciò il suo essere alla testa di una congrega di politicanti che di rinunciare ai suoi privilegi non vuole sentir parlare, pesa il coinvolgimento in inchieste di esponenti Pd a lui vicini, ma pesa di più la mistificazione aclassista su cui si è costruito il Pds-Ds-Pd, l’idea di un partito che possa governare a prescindere dagli interessi diversi e contrapposti di classi, strati e ceti sociali. Bersani ha detto: “Le proposte le fo un’altra volta, ora via Berlusconi”. Non se n’è accorto questo bravo emiliano del massiccio spostamento di ricchezza degli ultimi venti anni? Non si è accorto dell’impoverimento di tanti e del massiccio arricchimento di alcuni gruppi, ceti e categorie, che hanno accumulato a spese dei più (anche di settori importanti di ceto medio-basso) patrimoni e ricchezze esorbitanti. E’ mai possibile che di patrimoniale si debba parlare nel centrodestra e Bersani si debba tenere lontano da una simile ragionevole proposta, solo per la paura d’essere considerato “comunista”? 

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