2.8.11

1946. Perchè scelsi il Psi, e non il Pci (di Sebastiano Timpanaro)

Sebastiano Timpanaro
Sebastiano Timpanaro, filologo e filosofo, trascurato ma importante nella storia culturale italiana del secondo Novecento, rispose con un articolo di Memorie lontane e riflessioni attuali all’inchiesta della rivista “Giano”, diretta da Luigi Cortesi, sugli intellettuali e la condizione atomica. Il suo testo apparve nel Numero 1 del 1989. Io ho qui ripreso un brano relativo alla scelta socialista di Timpanaro nell’immediato dopoguerra. Mi pare questa una testimonianza molto significativa sulla sinistra italiana in quegli anni lontani. (S.L.L.)

Avvenuta la sospirata liberazione, io, allora ventitreenne, mi trovai lieto, ma politicamente ben poco orientato. Sentimenti fascisti non ne avevo avuto nemmeno da ragazzo: ero figlio di genitori antifascisti, gobettiani, immuni da pregiudizi anticomunisti, ma anche privi di idee chiare sull’antitesi tra comunismo e democrazia borghese, sull’involuzione stalinista e sulle sue cause. Mio padre e mia madre non avevano nascosto le loro idee antifasciste e avevano avuto qualche noia, ma non erano stati antifiascisti militanti, appartenenti a un gruppo clandestino; ed io non ero andato avanti a loro e non avevo preso parte alla Resistenza. Prima che Pisa rimanesse isolata – a Firenze, dove avevamo abitato fino al 1942-43 e dove c’erano i miei compagni d’Università già politicamente maturi e decisi a lottare quando fosse venuto il momento – non mi sarebbero mancate. Mi mancò la lucidità politica, la convinzione, il coraggio. Ho continuato poi sempre a sentire la mia mancata partecipazione alla Resistenza come una grave inferiorità: tanto più in quanto, dopo la liberazione, mi si destò un interesse politico molto vivo, un bisogno di capire e, anche, di agire. Mi buttai a leggere giornali, ad ascoltare comizi, a compiere un’indigestione di letture marxiste; divenni un anticapitalista e un “classista” accanito.
Al pari dei miei genitori (ma, direi, con motivazioni mie personali), fui un simpatizzante e, dopo la scissione saragattiana – un iscritto al Psi. Perché non al Pci, né al Partito d’Azione, che erano usciti con maggiore prestigio dalla Resistenza? Perché a quel tempo – un tempo che oggi appare antidiluviano – il Psi era il solo partito che parlasse apertamente di classe operaia, di lotta di classe, di antagonismo tra borghesia e proletariato, non, come il Pci togliattiano di unità nazionale e di ricerca di collaborazione con la Dc (presentata come partito “popolare” di sturziana memoria, non come il più forte partito capitalistico e clericale con una base di massa al suo seguito). D’altra parte il Psi non aveva neanche l’orgoglio intellettualistico e le illusioni interclassiste del Partito d’Azione (con poche eccezioni, forse una soltanto: Emilio Lussu). Io volevo stare con gli operai, con i contadini, fare attività di base; e operai e contadini nel Psi d’allora c’erano, e c’era (pur con gravi limiti, e spesso resa inutile da un massimalismo confuso) una libertà di discussione che nel Pci mancava.
Questo mio scegliere il Psi fu un atto di estremismo velleitario? Non mi sento di escluderlo del tutto. Tale, certo, fu giudicato da molti miei amici, in qualche caso con l’accompagnamento di un sorrisetto affettuosamente ironico di cui capivo bene il significato (“Non ha mosso un dito quando c’era da combattere e da morire e adesso fa il rivoluzionario”). E tuttavia, a parte il mio “fatto personale”, credo tuttora che fino al 1956 (e anche oltre) il Psi, pur con tutte le oscillazioni, le incoerenze e le deficienze cui ho altre volte accennato (cfr. “Il Ponte”, 31 gennaio 1981, p. 64 e ss.), sia stato un partito rispettabile, tanto più che dovette fare la sua parte in una situazione interna e internazionale estremamente difficile. Fra l’altro, per il rifiuto di rompere il patto di unità d’azione col Pci (le differenze col Pci, più sottintese che espresse, c’erano; ma l’unità di classe in quei tempi durissimi doveva prevalere), fummo espulsi dall’Internazionale socialdemocratica. Il Psi rimase un unicum sul piano internazionale; non poteva durare oltre un certo limite di tempo, eppure durò non tanto poco.

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