Dal “diario” di Marco Palladini pubblicato nel luglio 2011 recupero questa penetrante e condivisibile noterella sui rapporti tra Heidegger e il nazismo. (S.L.L.)
Nel libro-intervista Martin Heidegger. Mio zio (Morcelliana, 2011), il nipote Heinrich Heidegger, sacerdote diocesano, tratta anche la questione dell’adesione al nazismo del filosofo di Essere e tempo. E racconta che assieme al pensatore, pure la moglie Elfride entrò il primo maggio del 1933 nelle fila del partito nazionalsocialista. Anzi sembra essere stata lei la più attiva nelle organizzazioni locali e femminili del NSDAP, mentre il marito dopo aver abbandonato nella primavera del 1934 il Rettorato a Freiburg, si dedicò all’attività accademico-scientifica, evitando altre compromissioni politiche, pur se non si dimise mai dal movimento nazista e portò sino alla fine il suo simbolo all’occhiello della giacca. E anche i figli Jörg e Hermann (quest’ultimo nato da un amore adulterino di Elfride con un giovane medico) entrarono nella Hitlerjugend, assumendo “per le loro capacità una posizione direttiva”. Insomma, tutta la famiglia Heidegger è stata profondamente coinvolta con il nazismo e tanto più mi ha sempre dato molto da riflettere che dopo la guerra, per trent’anni, fino al 1976 quando morì, il maggiore cervello filosofico del ’900, autore di migliaia di pagine di alta speculazione teoretica e ontologica, non abbia mai scritto una sola riga di ripensamento, se non di resipiscenza, sul suo rapporto con il regime hitleriano. Secondo alcuni ciò esulava dai suoi compiti di sofisticato pensatore. Ma l’enormità criminale del nazismo, almeno sotto il profilo etico, avrebbe dovuto indurlo a dichiarare qualcosa. Secondo taluni proprio questa enormità politico-criminale avrebbe creato una sorta di blocco psicologico, cosa che ha impedito a gran parte dei tedeschi di parlarne. Può darsi, resta per me che questa macroscopica omissione di pensiero è, forse, per Heidegger ancora più grave dell’essere stato un convinto nazista.
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