Su “il manifesto” di domenica 22 aprile 1990 Franco Fortini in un articolo dal titolo Croce e delizia, ragiona di e con Benedetto Croce, in particolare della sua estetica e della sua concezione storico-politica, chiamandolo “un classico a doppio taglio”. Il metodo con cui Fortini legge (o rilegge) Croce è – stranamente, ma consapevolmente – gramsciano. Ribadita la distanza, abissale, da don Benedetto, Fortini affronta alcuni nodi cruciali del suo pensiero, cercando di cogliere il nocciolo duro di verità intravista ed intravedibile che la mistificazione ideologica nello stesso tempo occulta ed esprime.
Prima fra tutte la concezione crociana di poesia, l’idea che l’armonia delle forme purifichi, componga, universalizzi e superi ogni dolore, ogni sofferenza, ogni passione, anche la più violenta e sconvolgente. A mostrare codesto classicismo Fortini cita un esempio caro al Croce, l’Andromaca virgiliana, in cui il sentimento immediato, il “dolore da vedova” non lascerebbero tracce nel testo poetico. Se così fosse – obietta Fortini – quei versi non avrebbero sul lettore alcuna efficacia, e invece sovente lo commuovono o lo esaltano: “Non sarà forse perché, invece di essere scomparso, come voleva Croce, il conflitto delle ‘forme’ con i ‘contenuti’ si è moltiplicato, facendoci avvertiti anche del ‘contenuto delle forme’ e delle ‘forme del contenuto’?”. Conclude Fortini: “Da promessa di felicità e quindi di sovversione, come, con le parole stendhaliane per l’amore voleva Adorno, la poesia si è fatta anche scoperta di desolazione, indice di miseria. Leggo quel Virgilio e sempre meno comprendo il rapporto tra i tristi casi di cui ci parla e i suoi versi armoniosi. Finché capisco che il suo senso è in questa divaricazione. Una lettura barocca o iperromantica? Aborrita, a ragione, dal ‘classico’ e ariosteo e goethiano Croce? E se, come ha detto non rammento chi, ogni classicismo fosse solo la corda più tesa del barocco? Ecco un esempio degli interminabili rimandi che oggi, e credo sempre, una pagina di Croce può proporci. In questo davvero classica”.
Un metodo analogo Fortini segue nell’approccio al profilo storico-politico del filosofo di Pescasseroli, ricordando come il suo “duro” liberalismo tenda, dopo il 1924, a sfumare le sue originarie connotazioni antisocialiste e antidemocratiche. Da questo relativo annacquamento deriverebbe “la faccia burbera e bonaria, da padre della patria che troviamo stampata nelle antologie delle scuole secondarie”. “E invece – insiste Fortini – in quel Croce che seppe meditare… sui meccanismi dell’autorità, della forza e della violenza nella esistenza dei singoli, delle classi, dei ceti e dei popoli, che possiamo ancora oggi trovare un aiuto contro le stoltezze pseudo-etiche che intessono la ideologia italiana incaricata di distrarci dalle vere ragioni dei conflitti… Croce sapeva bene di dovere i propri privilegi alla violenza giacobina del 1793 e ai bersaglieri che dopo il 1860 ammazzarono, nella guerra al ‘brigantaggio’, più contadini del sud di quante vittime fossero costate, tutte insieme, le guerre del Risorgimento”. La proposta finale su questo Croce che “sapeva come nell’agire umano il bene e il male siano inseparabili e come tuttavia si debbano separare” è esplicitamente gramsciana: “Lo si usi contro la cultura di chi ce lo propone… Bisogna trasformare in ausilio a una causa che continuiamo a ritenere nostra e giusta tutto quello che ci viene predicato contro di quella”.
S.L.L.
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