21.8.11

Boris Biancheri e il Gattopardo.

Boris Biancheri
L’ambasciatore Boris Biancheri era nipote acquisito di Giuseppe Tomasi per parte di madre(la moglie dello scrittore e la madre del diplomatico erano lettoni e sorelle). E’ morto il 19 luglio scorso. L’uomo (che è anche autore di alcuni romanzi favorevolmente recensiti) aveva fatto una gran carriera in diplomazia: tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento ambasciatore a Londra e a Washington e poi segretario generale alla Farnesina con il governo tecnico di Dini nel 1995 (ministro degli esteri Susanna Agnelli).
Cessata nel 1997 la sua attività di alto funzionario agli Esteri non mancò successivamente di ruoli: fu presidente degli Federazione degli editori di giornale, presidente dell’Ansa ed altro ancora. A Salina, ove mi è accaduto di trascorrere le vacanze ospite del mio fraterno amico Leonello, possedeva una sorta di villa-palazzotto in altura, visibilissimo. La persona a cui lo chiesi (quella sbagliata, ovviamente) non mi seppe dire se l’edificio fosse eredità del passato o costruzione recente in tutto o in parte. Nel secondo caso non era peregrino ipotizzare qualche forzatura ai vincoli paesaggistici.
Certo è che il Biancheri doveva essere un potente di prima fascia: in quell’abitazione, infatti, si recavano ad omaggiarlo in pellegrinaggio non poche delle “eccellenze” che, in barca propria o altrui, facevano sosta a Salina. Particolarmente assidui erano i capi della sinistra, da D’Alema a Fassino a Bertinotti, attratti – credo - dalle conoscenze di politica internazionale del navigato ambasciatore.
A me, ovviamente, un tipo così non poteva che stare sulle scatole; sono in questo come il droghiere americano del Piccolo Lord : ho una diffidenza profonda, plebea, verso l’aristocrazia e i suoi blasoni, verso le cortesie e le grazie che pure a volte ammiro.
Leggo ora – con ritardo – le due pagine di necrologia su “La Stampa” del 20 luglio. Non mi meraviglio del grande spazio riservato dal quotidiano né mi sorprende la deferenza del coccodrillista Càndito o di Marta Dessù: Biancheri era, da diversi anni, collaboratore (autorevole e prudente) del giornale torinese ed era amico personale di alcuni Agnelli.
Il quotidiano per meglio ricordare l’illustre scomparso pubblica una parte del breve saggio sul Gattopardo che il defunto gentiluomo aveva di recente scritto per “Aspenia”, un intervento acuto che smentisce alcuni luoghi comuni sulla Sicilia. Lo riporto qui in appendice, anche perché coincide con quanto, negli ultimi anni di insegnamento, andavo ripetendo alle mie care ragazze e ai miei cari ragazzi. Li ammonivo: “Non bisogna prendere per oro colato quanto il Principe di Salina dice sulla Sicilia. E’ il personaggio che parla. Forse l’autore vi mette un po’ del suo sentimento. Ma non è la verità”. Ma i pochi e le poche che leggevano il romanzo faticavano a credermi, ché a volte la letteratura costruisce una sua verità che è difficile scalfire. (S.L.L.)

Burt Lancaster interpreta il principe di Salina nel Gattopardo di Visconti

Appendice
Il Gattopardo affonda, e sogna che la Sicilia affondi con lui
A distanza di più di mezzo secolo dalla prima e fortunosa pubblicazione nel 1958, Il Gattopardo continua a incarnare agli occhi dei più una situazione di altera e fatale immobilità, che viene associata non tanto alla persona del protagonista o della classe di cui egli e' l'erede, quanto a tutta la Sicilia. Grazie alla suggestione del tema scelto, alle idee che esso permette di esprimere e alla sua capacità di raccontarle, Lampedusa ha fornito alcuni modelli mentali che sono andati non solo al di là delle intenzioni, ma anche dello stesso significato delle parole. La visione della Sicilia desunta da ciò che ne dicono, esplicitamente, don Fabrizio Salina e, indirettamente, altri personaggi del Gattopardo (incluso il nipote Tancredi che pure in parte rappresenta il rovescio del Principe), è estesa a tutta l'Italia; e il celebre, cinico commento di Tancredi secondo il quale «occorre cambiare tutto perché nulla cambi» supera l'ambito geografico e temporale al quale lo riferiva l'autore, per assumere la figura del paradigma di un secolo di vita nazionale. Con Il Gattopardo Lampedusa non ha voluto fare un'autobiografia perché non è dignitoso, non è da persone educate raccontare i fatti propri in pubblico, neanche sotto romanzesche spoglie. Dunque, non sono molti i tratti direttamente riferibili a lui nel personaggio di don Fabrizio Salina. Ma se Lampedusa non ha dato al Principe le sue sembianze esteriori, gli ha invece prestato i propri affetti, le proprie pigrizie, certi gusti e certe nostalgie e soprattutto quell'occhio disincantato e amaro con cui giudica ciò che vede attorno. Mentre scrive, Lampedusa ripensa alla sua vita. Gli anni della giovinezza sono passati; lo scrittore ha visto e vissuto in molte città e in molti Paesi d'Europa, ma in nessuno di essi ha deciso di soffermarsi a lungo, neppure nelle terre nordiche di sua moglie che ama e rispetta, la baronessa Alexandra Wolff-Stomersee, sposata a Riga nel 1932. Ha visto due guerre: la seconda gli ha distrutto la casa e ha accelerato la rovina del patrimonio familiare. Uno a uno i beni dei Lampedusa si dileguano, mentre nuovi venuti, più veloci e meno scrupolosi di lui, se ne impossessano. Dietro di lui, alle sue spalle, c'è il nulla. Non un mestiere, non un'opera compiuta, non un erede del suo sangue. E, tuttavia, sente che il suo posto è lì, in quelle terre tra Palermo e Donnafugata, davanti a quel mare, accanto agli infiniti libri che ha letto, che lo consolano e non danno alcun frutto. Questa non è l'immobilità della Sicilia ma l'immobilità di Lampedusa, il quale vuole che la Sicilia somigli a lui. Non è la morte della Sicilia nè il desiderio di morte dei siciliani: è Lampedusa che muore e sogna che la Sicilia e i siciliani muoiano con lui. Tanto si è scritto su quella bellissima pagina del Gattopardo dove il buon piemontese Chevalley, che viene dalla sua modesta proprietà del Monferrato, arriva a Donnafugata, guardingo e intimidito dallo splendore dei palazzi e dai duri visi barbuti che si vede attorno, per informare il Principe di Salina che il governo di Torino si proporrebbe di includerlo tra i senatori del nuovo regno. Il Principe risponde, lo sappiamo bene, col suo famoso rifiuto. Non risponde che è stanco, che si sente vecchio, che non vuole abbandonare le terre che gli rimangono e quel po' di famiglia che si è creato: risponde, a nome di tutta la Sicilia, che è troppo tardi, che tutti i siciliani sono vecchi, anzi vecchissimi e il solo peccato che non perdonano è quello di fare qualcosa. «Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono ed essi odieranno sempre chi li vorra' svegliare, sia pure per portare loro i più bei regali; e, sia detto tra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagagliaio». E' una splendida pagina letteraria e anche una splendida argomentazione: come nascondere meglio la propria immobilità e la propria pigrizia che nasconderle dietro a quelle di un'isola intera? Giuseppe Tomasi di Lampedusa sa bene che la Sicilia immobile che desidera solo dormire e morire non esiste. Quella Sicilia che egli descrive è solo il frutto della sua splendida immaginazione. Lo sa bene perché ha sotto gli occhi gli esempi del contrario. Ha sotto gli occhi suo zio, il fratello di suo padre, quel marchese Pietro Tomasi della Torretta grazie al quale Giuseppe ha conosciuto Licy, la sua futura moglie, che è stato ambasciatore a Londra, poi ministro degli Esteri e al quale poi - vedi caso - il re d'Italia offrirà davvero un seggio di senatore nel Regio Senato. E, soprattutto, Lampedusa ha sotto gli occhi l'intera Sicilia. Sa bene che la Sicilia è una terra che può dare messi e frutti di incomparabile qualità. Sa bene che il succedersi di occupanti esterni, anzichè addormentare i siciliani, ha aperto loro gli occhi sul mondo e che, contrariamente a ciò che dice il Principe di Salina, se qualcuno offre loro qualcosa di buon mattino, sono ben lieti di svegliarsi per accettarlo. Ma tutto questo non è più per lui. Sta per andarsene e nel suo cesto c'è un solo bellissimo frutto: il libro che ha appena finito di scrivere. 
Boris Biancheri - 2010 

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