Vito Lo Monaco, quando era mio segretario di federazione nel Pci nisseno, secondo me non fece bene – credo per inesperienza e cattivi consigli. Oggi, a differenza di molti altri quadri comunisti siciliani irretiti nella palude del trasformismo e dell’opportunismo, ha tenuto il punto: è pensionato di non so quale organizzazione di massa (forse la lega delle cooperative o la confederazione degli agricoltori di sinistra) ma, da volontario, ha un impegno di primo piano nel riformismo antimafia.
Un tempo vicino alla destra Pci, i cosiddetti “miglioristi”, di cui tuttora mostra di accogliere la lezione di “realismo”, Lo Monaco presiede il Centro Studi intitolato a Pio La Torre, che produce una bella rivista on line, “A sud’europa”. E’ proprio lì che nel numero 24 del 27 giugno si può leggere un suo editoriale, una sorta di commento a una ricerca diretta da Rocco Sciarrone sul nesso tra mafia ed economia nell’Italia meridionale e in Sicilia.
Mi pare che l’articolo di Lo Monaco, di cui qui propongo una parte, illustri con chiarezza la ricerca e vi rifletta su con buon senso. Riprende un termine antico, manutengolismo, assai efficace, che fu usato prima per indicare i complici, tra i ceti possidenti, della guerriglia contadina filo borbonica nel Sud Italia, poi dal barone Franchetti per indicare quei proprietari che in Sicilia facevano lega con la mafia degli abigeati e ne diventavano i complici, ampliando la loro ricchezza e il loro potere. Ho l’impressione, tuttavia, che su temi come questo il buon senso non basti ed occorra più visione, più coraggio, più inventiva. Credo che sarebbe tempo di prendere nella considerazione che meritano le impegnative analisi e proposte del volume Globalmafia (Bompiani, 2010) dello storico Giuseppe Carlo Marino, fino ad oggi sottovalutate dall’associazionismo antimafioso, generalmente piuttosto autocentrato. (S.L.L.)
Il barone Leopoldo Franchetti |
La presentazione del libro Alleanze nell’ombra a cura di Rocco Sciarrone, ricerca della Fondazione Res, su mafia ed economie locali in Sicilia e nel Mezzogiorno, ha dato luogo a un dibattito tenutosi alla facoltà di Scienze politiche di Palermo tra studiosi di varie discipline e esperti. Le reti di relazioni, ricostruite su casi giudiziari già chiusi o in via di definizione, oggetto della ricerca empirica, hanno confermato quella stretta connessione tra politica, affari, mafia che costituisce l’essenza stessa del sistema mafioso, braccio illegale del potere legale.
L’analisi si ricollega a quel filone storico interpretativo intravisto da Franchetti nel 1876 con la descrizione del “manutengolismo” per identificare il rapporto mafia-politica cioè il modo mafioso in cui si esprime una parte delle classi dirigenti, ma essa ha il grande pregio, utilizzando i più evoluti metodi di ricerca sociologica, economica, storica, di documentare l’espansione delle reti di relazioni mafiose entrando in sintonia con altre ricerche che si sono cimentate sul campo (comprese quelle del Centro Studi).
La ricerca dimostra che la compenetrazione tra mafia ed economie locali non è un processo unidirezionale. Non è solo la mafia che si infiltra, ma è anche l’impresa che usa la mafia per trarre vantaggi competitivi sul mercato cioè si può individuare un “capitalismo politico criminale che utilizza la minaccia delle violenze e il condizionamento delle istituzioni pubbliche locali e regionali per alimentare attività economiche che non si reggono sulle capacità di competizione pacifica sul mercato”. Tale processo si realizza con la disponibilità di “un’area grigia”della quale fanno parte professionisti, burocrati, politici, rappresentanti istituzionali quali soci o collusi o contigui dell’organizzazione mafiosa. Questa, dunque, non può essere ricondotta solo “all’ala militare” perché è fondata sul capitale sociale delle reti di relazioni personali che costituiscono la vera “innovazione” prodotta dal sistema mafioso.
Per il resto il sistema mafioso preferisce operare in mercati protetti, crea effetti discorsivi sullo sviluppo e nei settori innovativi sul piano tecnologico sceglie le attività più tradizionali (v. il ciclo del cemento).
La ricerca sfata il mito dei mafiosi imprenditori capaci e audaci; tutt’altro appare dai loro metodi basati sulla violenza. Non sfugge, comunque, la loro capacità di regolatori delle economie locali per le capacità relazionali che hanno accompagnato e favorito la loro espansione nel paese. A tal proposito, è stato rilevato come il contrasto delle autorità di polizia e della giustizia, assieme a una più diffusa opinione pubblica avversa, abbia spinto l’economia criminale a trasferirsi in quella legale, meno rischiosa. Le conseguenze sullo sviluppo del Paese sono note per le risorse drenate con i traffici illeciti trasferiti dal Sud nei settori e nelle aree più ricche del Paese e del Mondo. Le conclusioni da trarre sul piano politico generale prevedono: 1. Una classe dirigente del paese consapevole che il fenomeno mafioso interessa una parte di stessa; 2.misure specifiche sul piano economico, giuridico, legislativo…
Nessun commento:
Posta un commento