Praga, agosto 1968. Una manifestazione a ridosso di un carro armato. Foto di Joseph Kovdelka |
Rileggo da “il manifesto” di domenica 21 agosto 1988 la rievocazione puntuale di Valentino Parlato, in occasione del ventennale, delle conseguenze nel Pci dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia.
Parlato e il gruppo del “manifesto” subirono un vero e proprio processo e la radiazione dal Pci anche per effetto delle pressioni del Pcus dopo l’articolo di fondo della rivista mensile (questo era in origine “il manifesto”) dal titolo Praga è sola, del settembre 1969 e, perciò, mi pare notevole la sua totale mancanza di acredine e il riconoscimento del coraggio di Longo, al tempo segretario del Pci, come del gruppo dirigente ristretto che lo circondava.
Parlato fa notare come, fin dal maggio del fatidico 68, la possibilità di una invasione “fraterna” tesa a bloccare il nuovo corso impresso dalla primavera socialista di Praga fosse tutt’altro che astratta, ma la solidarietà del Pci a Dubcek e al nuovo gruppo dirigente cecoslovacco non cessò di essere generosa. Ne è riprova, ad esempio, il titolo de “l’Unità” dell’8 maggio, a sette colonne, in concomitanza con il viaggio a Praga del leader comunista italiano: Longo esalta la lotta del Pc cecoslovacco per lo sviluppo della società socialista. Parlato cita poi il comunicato congiunto di Dubcek e Longo al termine della visita e l’impegnativa affermazione di quest’ultimo nella conferenza stampa che lo illustrava: “L’esperienza cecoslovacca servirà al Pc dei paesi capitalistici nella battaglia per creare una società socialista giovane, aperta e moderna”.
Non deve meravigliare l’aggettivo “giovane”: era il Sessantotto e giovani erano i contestatori delle università italiane e gli artefici del maggio francese come le Guardie rosse che a Pechino pretendevano di seppellire i “quattro vecchi” (mentalità, costumi, ideologia, cultura) e gli americani che rifiutavano di partire per il Vietnam.
Anch'io da giovane comunista inquieto amavo il 68 di Praga, a cominciare dal documento delle duemila parole che ne segnò l’inizio e sollecitò la grande partecipazione di base. Consideravo il nuovo corso in Cecoslovacchia parte di un sommovimento mondiale che travolgeva, insieme con il potere nordamericano e occidentale fermato nel Vietnam, anche le incrostazioni di potere burocratico nei paesi cosiddetti socialisti. “La gioventù del mondo ha scelto la sua strada contro l’imperialismo per una nuova società” – cantava il Canzoniere delle Lame, un gruppo musicale bolognese legato alla Fgci.
Parlato e il gruppo del “manifesto” subirono un vero e proprio processo e la radiazione dal Pci anche per effetto delle pressioni del Pcus dopo l’articolo di fondo della rivista mensile (questo era in origine “il manifesto”) dal titolo Praga è sola, del settembre 1969 e, perciò, mi pare notevole la sua totale mancanza di acredine e il riconoscimento del coraggio di Longo, al tempo segretario del Pci, come del gruppo dirigente ristretto che lo circondava.
Parlato fa notare come, fin dal maggio del fatidico 68, la possibilità di una invasione “fraterna” tesa a bloccare il nuovo corso impresso dalla primavera socialista di Praga fosse tutt’altro che astratta, ma la solidarietà del Pci a Dubcek e al nuovo gruppo dirigente cecoslovacco non cessò di essere generosa. Ne è riprova, ad esempio, il titolo de “l’Unità” dell’8 maggio, a sette colonne, in concomitanza con il viaggio a Praga del leader comunista italiano: Longo esalta la lotta del Pc cecoslovacco per lo sviluppo della società socialista. Parlato cita poi il comunicato congiunto di Dubcek e Longo al termine della visita e l’impegnativa affermazione di quest’ultimo nella conferenza stampa che lo illustrava: “L’esperienza cecoslovacca servirà al Pc dei paesi capitalistici nella battaglia per creare una società socialista giovane, aperta e moderna”.
Non deve meravigliare l’aggettivo “giovane”: era il Sessantotto e giovani erano i contestatori delle università italiane e gli artefici del maggio francese come le Guardie rosse che a Pechino pretendevano di seppellire i “quattro vecchi” (mentalità, costumi, ideologia, cultura) e gli americani che rifiutavano di partire per il Vietnam.
Anch'io da giovane comunista inquieto amavo il 68 di Praga, a cominciare dal documento delle duemila parole che ne segnò l’inizio e sollecitò la grande partecipazione di base. Consideravo il nuovo corso in Cecoslovacchia parte di un sommovimento mondiale che travolgeva, insieme con il potere nordamericano e occidentale fermato nel Vietnam, anche le incrostazioni di potere burocratico nei paesi cosiddetti socialisti. “La gioventù del mondo ha scelto la sua strada contro l’imperialismo per una nuova società” – cantava il Canzoniere delle Lame, un gruppo musicale bolognese legato alla Fgci.
Il coraggio a Longo e ai vertici del Pci non mancò neanche il 21 agosto e nei giorni successivi. Non si limitarono alla condanna dell’intervento militare, ma – cosa più importante - espressero una solidarietà senza reticenze e riserve all’azione di rinnovamento condotta dal Partito comunista cecoslovacco.
Tuttavia – spiega Parlato – già nei giorni successivi, quelli del forzato trasferimento a Mosca di Dubcek, Cernik e Smirkovsky e dei diktat sovietici contrabbandati per trattative, cominciò a farsi strada nel partito italiano un atteggiamento di prudenza: non si incoraggiava il dissenso e la protesta a Praga e si faceva il “tifo” per un compromesso, quale che fosse.
La chiave di spiegazione la dà forse ai primi di settembre un editoriale su "Rinascita" di Giorgio Amendola dal titolo Il nostro internazionalismo, in cui si sostiene che “nel quadro di un aggravamento della crisi generale del capitalismo, la contraddizione tra imperialismo e socialismo diventa più acuta”. Per il dirigente comunista i “due campi”, di cui la segreteria Longo pareva volersi liberare, esistevano ancora e la parte del Pci era, qualunque cosa accadesse, a fianco dell’Urss. Analogo atteggiamento assunse un altro prestigioso esponente della “destra” Pci”, Giorgio Napolitano, che su “l’Unità” respingeva ogni ipotesi di rottura con l’Unione sovietica.
Insomma, passati i primi giorni, il Pci metteva la sordina alle critiche e la sua direzione per mesi ed anni sembrò crogiolarsi nella “disperata speranza di un compromesso”, nell’illusione che la “normalizzazione” in atto conservasse qualcosa della “primavera di Praga” brutalmente interrotta. Pertanto alla condanna dell’intervento militare non seguì un approfondimento dell’analisi e della polemica nei confronti del Pcus di Brezhnev, anzi già nell’anno successivo il nemico divenne sempre di più “il manifesto” che, oltre a solidarizzare con Praga, pubblicava i verbali del Congresso del Partito cecoslovacco svoltosi semiclandestinamente nei primissimi giorni di occupazione e presieduto dal fisico Silhan, quel congresso che aveva confermato alla guida del Pcc Dubcek prigioniero a Mosca e aveva approfondito i principi del “nuovo corso”.
Tuttavia – spiega Parlato – già nei giorni successivi, quelli del forzato trasferimento a Mosca di Dubcek, Cernik e Smirkovsky e dei diktat sovietici contrabbandati per trattative, cominciò a farsi strada nel partito italiano un atteggiamento di prudenza: non si incoraggiava il dissenso e la protesta a Praga e si faceva il “tifo” per un compromesso, quale che fosse.
La chiave di spiegazione la dà forse ai primi di settembre un editoriale su "Rinascita" di Giorgio Amendola dal titolo Il nostro internazionalismo, in cui si sostiene che “nel quadro di un aggravamento della crisi generale del capitalismo, la contraddizione tra imperialismo e socialismo diventa più acuta”. Per il dirigente comunista i “due campi”, di cui la segreteria Longo pareva volersi liberare, esistevano ancora e la parte del Pci era, qualunque cosa accadesse, a fianco dell’Urss. Analogo atteggiamento assunse un altro prestigioso esponente della “destra” Pci”, Giorgio Napolitano, che su “l’Unità” respingeva ogni ipotesi di rottura con l’Unione sovietica.
Insomma, passati i primi giorni, il Pci metteva la sordina alle critiche e la sua direzione per mesi ed anni sembrò crogiolarsi nella “disperata speranza di un compromesso”, nell’illusione che la “normalizzazione” in atto conservasse qualcosa della “primavera di Praga” brutalmente interrotta. Pertanto alla condanna dell’intervento militare non seguì un approfondimento dell’analisi e della polemica nei confronti del Pcus di Brezhnev, anzi già nell’anno successivo il nemico divenne sempre di più “il manifesto” che, oltre a solidarizzare con Praga, pubblicava i verbali del Congresso del Partito cecoslovacco svoltosi semiclandestinamente nei primissimi giorni di occupazione e presieduto dal fisico Silhan, quel congresso che aveva confermato alla guida del Pcc Dubcek prigioniero a Mosca e aveva approfondito i principi del “nuovo corso”.
Parlato conclude la sua rievocazione con una ipotesi di storia “controfattuale” molto stimolante. “Certo, - scrive - ed è stato detto fino alla noia, la storia non si fa con i se. Ma provare a chiedersi come sarebbero andate le cose del Pci se subito dopo Praga avesse aperto un fronte di discussione radicale con il gruppo brezhneviano e l’Urss non mi sembra vano. La straordinaria crescita del Pci tra il 1968 e il 1976 avrebbe avuto un diverso contesto ideologico e di politica internazionale. L’evidente necessità di bilanciare il distacco dalla ‘patria del socialismo’ avrebbe contribuito a mettere nella diversità contenuti meno opportunistici e meno aerei. La verità è che in quella fase nel gruppo dirigente del Pci prevalse la miopia, se non la cecità, della realpolitik… Avvenne così che lo “strappo” fu consumato nel 1980, l’anno della famosa sconfitta alla Fiat e dell’inizio della fase di declino”.
Mi permetto di aggiungere qualcosa al quadro ipotetico proposto da Parlato. Quel 1968 aveva segnato la sconfitta elettorale del Partito socialista unificato e della linea dell'unificazione tra Psi e Psdi. Gran parte del gruppo dirigente del Psi, inclusi storici autonomisti come Lombardi e Mancini, si ricollocava a sinistra, raccogliendo la spinta del movimento operaio e studentesco. Alcuni dirigenti del Psi, peraltro, avevano molto puntato sull’esperimento di Dubcek: non casualmente fu il socialista Manca il primo esponente della sinistra italiana che si recò a Praga in cerca di contatti subito dopo quel 21 agosto. A mio avviso una più decisa critica dell’Urss brezhneviana avrebbe forse stimolato e aiutato processi unitari a sinistra su una linea socialmente assai avanzata.
Non andò così. Ma, quando si potrà mettere mano alla ricostruzione di una sinistra anticapitalistica larga e ragionevole in Italia e in Europa, a Praga e alla sua primavera interrotta bisognerà tornare.
Nessun commento:
Posta un commento