13.8.11

De Sanctis a Torino.

Su “La Stampa” del 5 agosto 2011 un articolo di Franzo Grande Stevens rievoca l’operoso esilio torinese di Francesco De Sanctis negli anni 50 dell’Ottocento e il legame con quella città del grande storico della letteratura, critico e patriota, poi anche – per un breve periodo - ministro della Pubblica istruzione nel neonato Regno d’Italia. Ne riprendo un ampio stralcio. (S.L.L.)

Francesco De Sanctis
Per aver partecipato con i suoi allievi ai moti del ‘48 il giovane professore De Sanctis scontò 32 mesi di prigione a Napoli in Castel dell’Ovo. Commutata la pena in esilio scelse Torino - la Mecca dei patrioti italiani - giungendovi nell’ottobre del 1853. Rifiutò il sussidio concesso agli esuli perché, come poi scrisse, «il modo come un esule può onorare la patria è mantenersi onesto, demandare i mezzi dell’esistenza al lavoro, illustrare il suo paese con gli scritti». Dopo un modesto incarico di insegnamento in un istituto femminile e, ricavando qualche soldo da lezioni private e collaborazioni a giornali, ottenne finalmente dal sovraintendente prof. Alessandro Paravia (titolare della cattedra universitaria) il consenso a tenere un programma di lezioni.
De Sanctis, conoscendo il corso tenuto dal Paravia, pedantesco e retorico, gli aveva sottoposto un corso di lezioni su Dante con commenti allegorici, mitologici ecc. E così iniziò il suo famoso corso tematico di mirabili lezioni dantesche al Collegio di San Francesco da Paola (una lapide tuttora lo ricorda al n. 3 sul palazzo dove ora ha sede l’assessorato alla Cultura del Comune di Torino). Negli Atti della Regia Accademia delle Scienze di Torino nel 1915 si ricordò lo scritto di Bianchi Giovini pubblicato nel 1855 su “l’Unione” nel quale questi dice fra l’altro: «Per l’opera dei suoi amici e di generosi mecenati potrà il signor De Sanctis continuare quest’anno a farci gustare col suo tatto squisito le delizie di quel poema. Egli, già chiaro per altri lavori di letteratura, tiene una via felicissima per farci rilevare le estetiche forme dantesche. Esclude quella meschina interpretazione puramente grammaticale o retorica o storica od allegorica, la quale ultima abbassa la più sublime poesia ad una mascherata...».
E Vittorio Bersezio ne Il Regno di Vittorio Emanuele II ne parla così: «A domandargli un corso di lezioni su Dante fu un gruppo di cittadini amici di buoni studi e dell’emigrazione e particolarmente di lui, al quale volevano pur procurare così un mezzo di proventi nella dignitosa povertà dell’esilio. Queste lezioni furono un vero trionfo pel giovane professore: abituato alla solenne gravità dell’insegnamento ufficiale meticoloso e vuoto, pedantesco e gretto, i torinesi trovaronsi in un ambiente nuovo, più ampio, aperto, luminoso, pieno di concetti e di idee, in cui alla mente si affacciavano opinioni audaci, temerarie fors’anche, ma nuove, rigorose, appassionanti».
E Ruggiero Bonghi nel 1855 scriveva su “Lo Spettatore” all’amico Barbera: «Non devo finire questa lettera senza dirti ch’io conosco un nome in Italia... Probabilmente non l’hai sentito mai nominare; è un uomo modesto, vero e di molto merito... È Francesco De Sanctis, un napoletano che vive ora in Torino. L’anno scorso ha fatto alcune lezioni su Dante Alighieri, ed ha trovato modo, non dico di dire qualcosa di nuovo, ma di non dire quasi nulla che non fosse nuovo. Gli è vero che ha avuto una bizzarria grandissima: di considerare Dante come Poeta, e di figurarsi che la poesia non consista in alcune combinazioni. A questo s’è aggiunto che sì è dato a intendere che Dante fosse uomo, di maniera che non solo gli è parso che potesse sbagliare talora, che dovesse seguire,... certi comuni errori di gusto del suo tempo ma che vivesse, e in questa vita...».
Per necessità De Sanctis nel 1856 accettò la cattedra di «Letteratura italiana» al Politecnico di Zurigo dove si trasferì con il rimpianto di lasciare Torino. Ma col desiderio di ritornarvi quando fosse possibile ed, infatti, aspettava le ferie d’agosto per esserci, rivedere gli amici, gli altri patrioti esuli, i suoi allievi, i luoghi pieni di ricordi. Ed anche da Zurigo tenne un fitto epistolario non soltanto con gli amici torinesi a Torino ma con le sue allieve consentendo quel tenero rapporto di confidenza spirituale che s’era rinvigorito. Benedetto Croce pubblicò più tardi le «lettere a Virginia» (Virginia Basco, poi «Contessa Riccardi di Lantosca») mentre restarono non pubbliche quelle alla prediletta Teresa De Amicis (poi divenuta «Contessa Barbavara»).

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