Di Paolo Rossi ce ne sono tanti in Italia e più d’uno vanta nel suo campo una notorietà più o meno meritata. L’autore del testo che segue è un Fisico e un accademico di sicura importanza ed è oggi Preside della Facoltà di Scienze a Pisa. Quello qui "postato" è il brillante intervento svolto dal professore al Forum Narrare il sapere a partire da Galileo nel febbraio 2006, che ho recuperato dal suo sito personale. (S.L.L.)
Si racconta (ma molto probabilmente è una leggenda metropolitana) che la regina Vittoria, essendosi molto divertita a leggere Alice nel Paese delle Meraviglie, avesse espresso il forte desiderio di ricevere la prossima opera dello stesso autore, non appena fosse stata pubblicata. E così a tempo debito le fu fatto omaggio di un Trattato elementare sui Determinanti, opera del Reverendo Charles L. Dodgson, matematico di Oxford, che col nom de plume di Lewis Carroll sublimava il suo, forse non totalmente casto, affetto per le ragazzine.
Ho detto che l’aneddoto è quasi sicuramente inventato, ma come vedremo non c’è niente di male in ciò, anzi in un certo senso la natura apocrifa dell’apologo sostanzia anch’essa a suo modo la tesi che vorrei sostenere e che mi ha indotto a narrarlo. La mia tesi è molto semplice da enunciarsi: la Scienza è soltanto uno speciale filone della Letteratura.
Non mi riferisco qui al carattere per molti aspetti narrativo che si ritrova in molte opere importanti nella storia del pensiero scientifico: questo è un tratto interessante, e certo meritevole di investigazione, ma ogni generalizzazione in tal senso mi parrebbe impropria. E non mi riferisco nemmeno al ruolo centrale (su cui vorrei comunque tornare in seguito) che ha l’aneddoto nella descrizione/narrazione del processo che porta alla scoperta scientifica. Penso proprio, ed esplicitamente, ai singoli lavori scientifici che vengono ogni giorno pubblicati letteralmente a migliaia, pur con il loro linguaggio freddo, standardizzato, seriale.
A parte il fatto che gli aggettivi “freddo, standardizzato, seriale” descrivono altrettanto bene una buona parte della narrativa di consumo che inonda le librerie e i supermercati, ciò che io voglio sottolineare è il fatto che un lavoro scientifico – qualunque lavoro scientifico – racconta una storia. Che può essere appassionante o noiosa, originale o già sentita, scritta con cura o in modo sciatto, profonda o superficiale, con la morale o senza, ma è comunque una storia.
Di fronte a quest’affermazione mi immagino già almeno due classi di obiezioni, da non prendere alla leggera , né le une né le altre.
La prima è quella di chi dice: ma gli articoli scientifici sono scritti quasi sempre in un linguaggio formalizzato, da addetti ai lavori. A questi vorrei far notare che lo stesso si può tranquillamente dire del Disco di Festo, che chiunque può ammirare nel Museo di Iraklion a Creta, ma nessuno può leggere, perché è stato scritto con un codice noto soltanto agli addetti ai lavori, i quali però sono tutti morti da almeno tremila anni. Eppure mi pare difficile dubitare del fatto che il Disco racconti una storia, anche se non sapremo mai quale (ma nulla ci impedisce di immaginare, visto il luogo, che si tratti della prima formulazione del paradosso del mentitore!). Oppure ricordare la risposta del poeta Robert Browning, a chi gli chiedeva la spiegazione di una sua lirica: “Quando l’ho scritta solo io e Dio sapevamo che cosa significasse: ora soltanto Lui”
La seconda obiezione è più tecnica: i lavori scientifici sono scritti in un linguaggio denotativo e non connotativo, ovvero (volgarizzando brutalmente) descrivono fatti e non evocano sentimenti. La mia risposta è questa: i fatti sono sentimenti. Ricordo (ma lo sanno tutti) che “sentimento” deriva da sentio, vocabolo che è alla radice anche della parola “sensi”, i quali sono peraltro l’unico strumento con il quale abbiamo accesso ai “fatti” (lasciando qui da parte lo scabroso capitolo dei “fatti matematici” la cui natura da Platone in poi è oggetto di qualche discussione). Ciò che dovrebbe distinguere i fatti dai sentimenti è la condivisione, per cui siamo tutti d’accordo che il 14 luglio 1789 a Parigi è stata presa la Bastiglia. Ma non ci sono forse due di noi che abbiano la stessa opinione sulla Rivoluzione Francese. Allora io vi chiedo: la Rivoluzione Francese è un “sentimento”? Ma forse la risposta per molti di voi è “sì”, e infatti immagino che se avessi affermato che la storia è letteratura (cosa di cui ovviamente sono convinto) si sarebbero probabilmente indignati soltanto gli storici, e forse nemmeno tutti. Ma se i fatti sono sentimenti, sia pure condivisi, che cosa impedisce che la loro descrizione faccia parte della letteratura?
Una possibile spiegazione sta nell’incipit di Anna Karenina, là dove Tolstoi scrive “Tutte le famiglie felici sono simili; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”.
In altre parole, la letteratura dovrebbe occuparsi degli amori infelici, la scienza di quelli felici. È un’ipotesi di lavoro concreta, ma che non mi affascina. Prima di tutto anche la scienza è quasi sempre storia di amori infelici - e di fatti non separabili dalle opinioni.
Dopo che Aristotele (uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi, a mio parere) ci ha spiegato che il Sole gira intorno alla Terra e che i corpi cadendo viaggiano a velocità costante e proporzionale alla loro massa, ci è voluto Galileo per capire che in realtà è la Terra che gira intorno al Sole, e la gravità produce un moto uniformemente accelerato. Le magnifiche sorti e progressive! Peccato che Einstein ci abbia poi convinto che, essendo Sole e Terra entrambi liberamente gravitanti, sono entrambi ottimi sistemi di riferimento inerziali, e le due affermazioni precedenti, entrambe valide, esprimono soltanto due punti di vista. E peccato che uno dei primi esercizi che uno studente impara a risolvere a Fisica I è quello in cui si mostra che un corpo “vero” nel mondo “reale” cade a velocità ben presto costante e proporzionale (anche) alla massa. Appunto. Se non è letteratura questa …
La voglio dire in un altro modo: ma siamo proprio sicuri che il 14 luglio 1789 a Parigi sia stata presa la Bastiglia? Se ci pensiamo bene, anche questa è un’interpretazione, o meglio ancora una sovrainterpretazione: la Bastiglia era vuota, a parte sette psicolabili e poche guardie, e quindi non c’era nulla da prendere. Gli avvenimenti precedenti e posteriori hanno caricato di significati (connotato, appunto) un episodio che in quanto tale, in altro contesto, avrebbe potuto essere classificato come marginale ed etichettato con una formula assai meno impegnativa: “La presa della Bastiglia” è un giudizio storico, non un “fatto”.
E questo vale anche, e sempre, per le proposizioni della scienza. Esse hanno un significato preciso soltanto in un determinato contesto, storicamente determinato, e fuori dal contesto perdono il loro significato, e diventano “opinioni”. O, come dicevamo prima, “sentimenti”
Mi manca qui il tempo, ma non certo gli argomenti, vi assicuro, per cercare di convincervi che il contenuto di verità di “F = ma” è all’incirca lo stesso che quello della frase “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”. Si tratta in entrambi i casi di affermazioni sulle cause del moto, nelle quali alcuni termini sono tratti dall’esperienza sensibile (l’accelerazione, il sole, le stelle) mentre altri (la forza, la massa, l’Amore) restano definiti dalla proposizione stessa, che può essere utilizzata a fini predittivi esclusivamente facendo ricorso a una “conoscenza del mondo” che in quanto tale non ammette formalizzazione ma solo Rivelazione. E infatti Newton, quando enuncia la Legge di Gravitazione Universale, premette la celebre specificazione “Tutto avviene come se...”
Chi di voi ricorda il film “La Spada nella Roccia” ricorderà sicuramente anche gli scambi di battute tra Semola/Artù e il Mago Merlino:
“Che cos’è la gravità?”
“La gravità è quello che ti fa cadere”
“Come un inciampo o uno sgambetto?”
“Già, come un inciampo o uno.. – No, no, no, no, no, è la forza che ti tira verso il basso, il fenomeno per il quale due particelle di materia o corpi, se liberi di muoversi, vengono attratti l’uno verso l’altro.”
E più tardi (mentre entrambi sono trasformati in scoiattoli):
“Vedi giovanotto, questa faccenda dell’amore è una cosa potentissima.”
“Più forte della gravità?”
“Beh, sì, in un certo senso… io, sì, direi che è la forza più grande sulla Terra”
Ma allora per quale motivo la scienza godrebbe di quello speciale statuto che, separandola dal resto della letteratura, la rende al tempo stesso (così almeno sembra a molti scienziati e a molti che scienziati non sono) eticamente superiore ed emotivamente priva di fascino?
Io credo che la spiegazione stia nel fatto che il linguaggio scientifico è una forma di linguaggio magico, ossia volto al dominio della realtà mediante la parola (non vi sfugga l’ambiguità semantica del termine “formula”), e pertanto di linguaggio sacro. Vi ricordo che in latino sacer è una vox media, che può significare, a seconda delle circostanze, sia “sacro” che “esecrabile”.
E per di più la magia della scienza è magia nera, che può produrre armi di distruzione di massa (“Ho detto forse “Niente draghi viola?” L’ho detto?”) ed è magia vincente, che trasforma il mondo. Non necessariamente nella direzione desiderata, ma lo trasforma. Ricordo un libro abbastanza famoso, di Jungk, di circa trent’anni fa, che s’intitolava “Gli apprendisti stregoni”, e il sottotitolo era “Storia degli scienziati atomici”. C’è anche, degli anni ’50, un bel racconto di Buzzati sulle (metafisiche) motivazioni della ricerca di Einstein…
Ma la storia è molto più vecchia. Il più grande scienziato europeo del decimo secolo, Gerbert d’Aurillac (che peraltro diventò papa con il nome di Silvestro II, cosa che nei “secoli luminosi” successivi ai “secoli bui” non mi sembra si sia più ripetuta) per il semplice fatto che sapeva usare un astrolabio e faceva i conti in fretta perché in Spagna aveva imparato le cifre arabe godette fama (postuma) di essere un mago, di aver fatto un patto col diavolo, e di possedere un automa che rispondeva correttamente a ogni domanda muovendo la testa per dire “sì” o “no” (cosa che mi piacerebbe molto insegnare al mio PC, devo dire). “Tempi oscuri davvero! E maledettamente scomodi! Niente idraulica, niente elettricità, niente di niente!” direbbe il solito Merlino.
Come fa la magia della scienza a funzionare? La miglior formulazione l’ho trovata in un telefilm nel quale un personaggio veramente “cattivo” pronuncia la notevole frase “I problemi complicati hanno soluzioni semplici”, intendendo nel caso specifico l’eliminazione fisica dell’avversario. Così opera la scienza. Prendiamo l’esempio già discusso della caduta dei gravi. Il fenomeno è chiaramente disturbato dalla presenza dell’aria. Come capisce bene Galileo, bisogna eliminarne gli effetti. E quindi egli lascia perdere l’intrattabile mondo reale, e costruisce un bel piano inclinato, molto liscio e poco inclinato, s’intende… Per la cronaca, il problema “del mondo reale” che bisognava risolvere quella volta era quello della traiettoria delle palle di cannone. Chiunque sia stato in artiglieria, o abbia conosciuto un artigliere, o uno Svizzero, sa che a tutt’oggi la miglior soluzione consiste nello sparare col cannone diverse volte e a differenti angoli d’inclinazione, e segnare in una tabella dove sono andati a cadere i proiettili…
Lev Landau, Premio Nobel nel 1962, che di fisica e di fisici se ne intendeva abbastanza, amava ripetere che la maggior parte dei fisici, avendo imparato a risolvere problemi molto semplificati, ne hanno tratto l’erronea convinzione di poter risolvere questioni assai più difficili, come quelle che nascono in economia, in politica o nelle relazioni umane, con conseguenze spesso gravi…
Noi sappiamo predire con straordinaria accuratezza che cosa succede quando due particelle inesistenti in natura ma prodotte nei nostri laboratori sono mandate a sbattere una contro l’altra, sempre nei nostri laboratori, con velocità ed energie che nessuna particella, vera o inventata, possiederà mai nel mondo reale, quello fuori dalla porta del laboratorio. Ciò che non sappiamo è che cosa succede quando dentro la nostra testa collidono due pensieri, e perché nella maggior parte dei casi si distruggono reciprocamente, ma una volta ogni tanto, con una sezione d’urto più piccola di quella dei neutrini (che per osservarli, mi dicono, bisogna scrutare palmo a palmo un chilometro cubo di acqua di mare) generano un pensiero nuovo, bello e intelligente come Minerva. E con questo vengo a ciò che avevo promesso all’inizio: il ruolo dell’aneddoto nella narrazione del processo della scoperta scientifica.
Archimede esce di corsa nudo dalla vasca gridando “Eureka” perché ha intuito il Principio che ancora porta il suo nome.
Galileo si distrae durante la Messa e si mette a misurare il tempo di oscillazione di una lampada (che all’epoca non era ancora stata appesa, per la cronaca) usando come orologio i battiti del proprio polso.
Newton vede cadere una mela e capisce che la forza che l’ha fatta cadere è la stessa che tiene la Luna in orbita intorno alla Terra.
Fermat “non ha spazio” e Galois “non ha tempo”.
Max Planck osserva le finestre nere di un palazzo la cui facciata è illuminata dal Sole (e questo ci rimanda a una storia di Galileo) ed ha la prima intuizione del meccanismo che lo porterà a formulare la teoria quantistica del corpo nero.
Einstein vede cadere un muratore da un’impalcatura, accorre e, accertato che l’uomo è sano e salvo, gli chiede “Ma lei ha sentito una forza che lo tirava verso il basso?” e dalla risposta negativa ha la rivelazione del principio di equivalenza.
Schrödinger fa una gita in montagna e torna a casa con l’equazione che renderà famoso il suo nome nei secoli: “Hy = Ey”.
Vedete, potranno venire tempi in cui le lettere che usiamo per scrivere questa formula non significheranno più nulla, come il Disco di Festo, ma il fatto più grave è che già oggi questa formula non significa nulla per quasi nessuno. Ho provato a fare un conto, come si dice “della serva” (da pochissimo ho scoperto che questa procedura corrisponde a risolvere una Fermi Question, il cui prototipo, dovuto appunto a Fermi, è “Stimare su due piedi quanti accordatori di pianoforte ci sono a Chicago”, ed è una cosa che ogni fisico dovrebbe saper fare). Bene, in Italia ospitiamo circa il 4% della ricerca mondiale. Ogni anno si laureano in Fisica forse 500 ragazzi, e di questi (come pure dei loro docenti) la metà non ha capito l’equazione di Schrödinger. Ci saranno quindi forse diecimila persone in Italia, e a star larghi cinquecentomila nel mondo, per cui essa significa qualcosa. Ciò significa un essere umano ogni diecimila. Eppure anche in questa formula c’e’ un racconto, e un racconto molto importante, di quelli che cambiano il mondo, e che noi cerchiamo di rendere intelligibile a noi stessi raccontandoci altre storie.
Ecco gli aneddoti, allora: un modo per trasformare l’ignoto in noto, per ridurre ciò che non siamo capaci di spiegarci a ciò che comprendiamo in maniera infantile. Non è soltanto un problema della scienza, anche se nella scienza esso si esalta fino al paradosso: nell’armadio dei nostri archetipi c’e’ una grande quantità di mele, non solo quella di Newton: una mela per spiegare la guerra di Troia, e una per l’indipendenza della Svizzera, una per i Beatles e una per New York, una mela per Biancaneve e perfino una sul computer davanti al quale passo le giornate. E c’è una mela che per una grande parte del mondo sta indicare la nostra stessa condizione umana, e che ricorderò con le prime parole del Tractatus di Wittgenstein, che con la loro carica di quasi certamente voluta ambiguità ci rimandano esattamente alla contraddizione che è stata al centro di tutto il mio intervento: Die Welt ist alles was der Fall ist cioè “Il mondo è tutto ciò che accade”, ma anche “Il Mondo è la Caduta”. Anche se un imparziale osservatore einsteiniano tradurrebbe: “Il mondo è tutto ciò che cade”.
1 commento:
Bellissimo! Grazie! Lo condivido sui social network.
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