Filologia e libertà è il titolo di una raccolta di saggi di Luciano
Canfora su quella che definisce “la più eversiva delle discipline”, edita da
Mondadori nel 2008 e riedita nel 2011 con una nuova prefazione. Il saggio breve
che funge da epilogo e che qui riprendo si intitola Il sogno di Machiavelli e contiene un confronto canonico, quello
tra Machiavelli e Guicciardini. Canfora, anche se il finale onirico proietta
una luce di ambiguità sul suo ragionare, condivide le cautele e le diffidenze
di Guicciardini sull’uso degli antichi come paradigma interpretativo della
storia e della politica presente. L’Intervista
sul Potere dello stesso Canfora uscita qualche mese fa per Laterza sembra
contraddire il suo scritto di qualche anno prima ed ha alla base quello che
Lanfranco Binni, sul Ponte, ha efficacemente chiamato “strabismo analogico”, la
sua capacità, ad esempio, di connettere arditamente la democrazia diretta
ateniese e il potere sovietico. Forse, a leggere bene i due testi, si può anche
concludere che la contraddizione è solo apparente, io ho solo voluto comunicare
un’impressione e proporla come problema. (S.L.L.)
Un celebre ritratto di Niccolò Machiavelli |
Difficile trovare nella
letteratura un testo autobiografico più drammatico della lettera di Niccolò
Machiavelli a Francesco Vettori, quella con cui gli annuncia di aver terminato
la stesura del Principe (10 dicembre
1513). È l'autobiografia di uno sconfitto, non di un vinto: che ha scelto di
proseguire la sua battaglia con altri mezzi: cioè mettendo in circolazione la
summa della sua riflessione sul potere. Ecco la sua giornata: «Mangiato che ho,
ritorno nell'osteria, quivi è l'oste, per l'ordinario, un beccaio, un mugnaio,
due fornaciai. Con questi io m'ingaglioffo per tutto dì, giuocando a cricca, a
tricche-trach, e per dove nascono mille contese e infiniti dispetti di parole
iniuriose; e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti non
di manco gridare da San Casciano».
La scena di abbrutimento non
potrebbe essere più efficace. E quel che più conta è la lucida amarezza con cui
Machiavelli vede se stesso in tale condizione e legge l'abbrutimento come sfida
alla fortuna («questa malignità di questa mia sorta»): «sendo contento mi
calpesti, per vedere se la se ne vergognassi». Parole tante volte citate, nelle
quali è racchiuso il convincimento incrollabile dell'autore secondo cui non è
possibile accettare che la «fortuna» sia padrona di tutto l'agire umano. Lo
dice solennemente nel notissimo capitolo XXV del Principe: «Perché il nostro
libero arbitrio non sia spento, iudico poter essere vero che la fortuna sia
arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare
l'altra metà, o presso, a noi».
Ma, «venuta la sera», la scena
cambia. Machiavelli si spoglia «della veste cotidiana, piena di fango e di
loto», indossa panni «reali e curiali» ed entra, leggendo e meditando gli antichi
autori, «nelle antique corti delli antiqui uomini». E qui per un'intera,
straordinaria, pagina mantiene viva la finzione quasi onirica della visita sua
quotidiana ai grandi del passato. Essi lo «ricevono amorevolmente», «io non mi
vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e
quelli per loro umanità mi rispondono». Questo dialogo è per lui totalizzante:
in quelle ore di lettura di quegli antichi - scrive - «dimentico ogni affanno,
non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in
loro».
Il Principe è nato così: dall'«avere
inteso» ciò che è racchiuso in quei libri, e dall'aver dialogato con essi. Il
fattore decisivo è stata la lettura delle opere storico-politiche antiche e la
scrittura che ne è risultata è il frutto di quel dialogo, efficacemente messo
in scena nella lettera.
Naturalmente noi ci rendiamo
conto che il dialogo con loro ha prodotto un pensiero nuovo, ma che comunque
scaturisce dalla materia e dalla riflessione sugli antichi. Non si tratta di
subalterno culto del passato o di soggiogamento classicistico, si tratta della
convinzione radicata che in quell'età remota ci fosse un accumulo di esperienze
e di pensieri che aspetta ancora di essere sfruttato fino in fondo.
L'uso dell'antico modello diventa
talvolta immedesimazione piena («tutto mi trasferisco in loro» aveva scritto al
Vettori). Nel libro primo dei Discorsi
(cap. 2) si assiste a un fenomeno che banalmente si può dire «plagio», ma
ovviamente non lo è. Nel descrivere «di quante spezie sono le repubbliche» il suo
dire trapassa, senza che il lettore sia avvertito, nelle parole di Polibio
(libro VI, a lui noto da una traduzione latina). Quelle pagine lo hanno
impressionato perché descrivono lo
sfociare di un modello politico
in un altro: che è il suo tema (e il suo cruccio). Ma è la sostanza che ne cava
che è nuova: «Nessuna repubblica può essere di tanta vita che possa passare
molte volte per queste mutazioni e rimanere in piede». Va ben oltre la
morfologia atemporale di Polibio. Anche Denis Lambin, il più versatile umanista
francese del tardo Cinquecento, adottò questa tecnica, quando immise nella sua
prefazione a Cornelio Nepote prosa di Diodoro e di Cicerone come prosa sua: ma era
un omaggio, non più di questo.
In questa pur così feconda procedura
che potremmo definire di «assimilazione-superamento» manca la necessaria presa
di distanze dagli antichi. In Guicciardini quella presa di distanze c'è. Ed è
questo che lo rende più moderno, più vicino a noi. Essa è espressa, in modo
esemplare, in un pensiero (Ricordi,
143) che va a colpire direttamente la fonte stessa del «dialogo con gli
antichi»: le loro opere di storia. Esse - scrive Guicciardini - «hanno lasciato
di scrivere molte cose che a tempo loro erano note, presupponendole come note».
Perciò - osserva - «nelle istorie dei Romani, dei Greci e di tutti gli altri si desidera la notizia». E ne fornisce
una lista sommaria: «l'autorità e diversità de' magistrati», «i modi della milizia»,
«la grandezza della città». Guicciardini ha intuito che è la carenza di questi
elementi che ci fa perdere la nozione della differenza
tra noi e gli antichi. Carenza che spinge alla identificazione, e che
induce a pensare attraverso di loro:
sì che soltanto attraverso tale lente deformante si giunge a pensieri nuovi. Al
contrario, la conoscenza di quei dati materiali (la «grandezza delle città» che
significa in particolare conoscenza dell'antica demografia) può far capire - ad
esempio - che tra il «governo popolare» degli antichi greci e il nostro c'è incommensurabilità; e che dunque ogni
discorso sulla politica dei moderni fatto manovrando i modelli antichi è falso.
Nell'opera di liberazione dal «vincolo degli archetipi» la riflessione
guicciardiniana occupa un posto importante. Segna davvero un nuovo avvio.
Il limite entro cui si contenne Machiavelli fu - in ultima analisi - un freno. Esso è simboleggiato dal celebre «sogno» che Paolo Giovio e altri sostengono abbia fatto Machiavelli pochi giorni prima di morire (giugno 1527). Vide da un lato una folla di cenciosi e dall'altra un gruppo di persone di nobile portamento (Platone, Plutarco, Tacito) le quali «discutevano di repubbliche». I primi - gli fu spiegato - erano quelli che i Vangeli prevedono destinati al regno dei cieli, i secondi all'inferno perché la loro dottrina «inimica est Dei». E a quel punto lui disse: preferisco stare con questi.
Il limite entro cui si contenne Machiavelli fu - in ultima analisi - un freno. Esso è simboleggiato dal celebre «sogno» che Paolo Giovio e altri sostengono abbia fatto Machiavelli pochi giorni prima di morire (giugno 1527). Vide da un lato una folla di cenciosi e dall'altra un gruppo di persone di nobile portamento (Platone, Plutarco, Tacito) le quali «discutevano di repubbliche». I primi - gli fu spiegato - erano quelli che i Vangeli prevedono destinati al regno dei cieli, i secondi all'inferno perché la loro dottrina «inimica est Dei». E a quel punto lui disse: preferisco stare con questi.
Filologia e libertà, Oscar Mondadori, 2011
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