1.6.15

Antonio Labriola. Il filosofo e i cretini. Intervista a Eugenio Garin (Nello Ajello)

La Società di Storia patria, una delle istituzioni culturali più prestigiose di Napoli, presenta oggi, nella sua sede del Maschio Angioino, una novità di grande interesse. Si tratta dell' acquisizione di un certo numero di lettere, autografi e documenti appartenuti al filosofo Antonio Labriola (Cassino 1843 -Roma 1904), che può essere considerato il padre del marxismo italiano.
Fino a ieri queste carte erano in mano agli eredi di Luigi Dal Pane, un devoto specialista di studi labrioliani. L'acquisto, reso possibile da un finanziamento del Banco di Napoli, comprende fra l'altro parte del carteggio di Labriola con corrispondenti di grande rilievo (da Friedrich Engels a Benedetto Croce), i testi inediti di alcuni corsi che Labriola impartì dalla sua cattedra dell'università di Roma, un volume di Marx, Introduzione alla critica dell'economia politica, con correzioni autografe dello stesso Marx, e infine manoscritti di vario contenuto ma tali, nel complesso, da consentire l'approfondimento critico del pensiero di Labriola.
Al centro della cerimonia c'è una relazione di Eugenio Garin, che del filosofo è un autorevole studioso. Con lui ho parlato di Labriola. appunto, e dell'importanza delle carte che ora vengono in piena luce.
Per cominciare, Labriola uomo. Devo premettere che ho appena riletto certi brani di sue lettere che lo stesso Garin ha riportato in un'introduzione alla Concezione materialistica della storia edita da Laterza. Ne ho tratto l'impressione di un personaggio strano, una gran mala lingua, uno spiritaccio incontentabile. La sua polemica contro il positivismo che dominava nella seconda metà del secolo scorso è astiosa quanto pittoresca. I positivisti sono affetti da «scemità volontaria», il loro magistero è «una zuppa mal preparata e mal bollita». Essi hanno deciso di fungere da «rappresentanti della degenerazione cretina del tipo borghese». Passiamo alle persone: non c'è nome illustre che resista alle sue bordale. Auguste Comte è «il sig. Conte», Herbert Spencer «il Grande Eunuco», Achille Loria ed Enrico Ferri, sono «casi paradossali di ciarlataneria cretina». Dei cattolici, Labriola afferma che «vogliono avvelenare lo Stato costituzionale». Dei borghesi in blocco scrive che «sono buoni soltanto a farsi impiccare». Insomma, tabula rasa. Che tipo era, dunque, Labriola?
«Era un uomo dotato di una lingua terribile», dice Garin. «Non risparmiava nessuno. Quando pubblicai l'introduzione di cui lei parla, parecchi anni fa, non era ancora uscito il bellissimo epistolario di Labriola con Benedetto Croce. Il filosofo abruzzese, di ventitré anni più giovane, era suo amico; godeva della sua stima. Eppure anche con lui, a volte, Labriola era cattivo. Figuriamoci con gli altri! In quelle lettere a Croce si trovano cose tremende. Parlando ad esempio dell'economista e sociologo Vilfredo Parete, che gli ha sempre" dimostrato grande considerazione, il filosofo lo chiama regolarmente "quel cretino". Il suo temperamento bisbetico gli impediva di moderare il linguaggio. Ciò non vuol dire che fosse cattivo. Era sposato, aveva figli, era molto legato alla famiglia...».
Che cosa si aspetta, lei, da queste nuove carte di Labriola?
«La cosa che mi incuriosisce di più sono gli appunti preparatori per i corsi di filosofia. A parte i tre saggi marxisti pubblicati da Croce, e alcuni scritti che gli avevano fatto vincere la cattedra universitaria a Roma, il meglio di Labriola era nelle conversazioni al caffè Aragno, in casa di amici, nelle lettere a Croce, ad Engels, ai socialisti tedeschi, negli articoli e nei corsi universitari. Il suo modo di parlare doveva essere vivacissimo. C'è una pagina di Croce che rievoca le serate che Labriola passava nella casa romana di Silvio Spaventa, dove i due filosofi si conobbero. Era lui ad animare il dialogo, anche per quella sua attitudine ai giudizi taglienti».

ODIOSISSIMA CITTÀ
Quali erano stati i legami di Labriola con Napoli? Egli si trovò a viverci mentre aveva inizio la decadenza della città non più Capitale. Le energie provenienti dalla provincia meridionale cominciavano a non affluirvi più. Roma ormai era il polo d'attrazione. Napoli rischiava d'inaridirsi. Labriola lo avvertiva, nel suo tipico modo. Nel 1873 arrivò a definire Napoli «odiosissima città»...
«A Napoli aveva studiato, si era formato, prima di vincere la cattedra universitaria a Roma e di trasferirvisi. Ebbe rapporti assai intensi con gli hegeliani di Napoli, e soprattutto con Bertrando Spaventa, zio di Croce, che considerò sempre il suo "caro professore"».

Ma neppure a questi amici della sua gioventù — i vecchi patrioti liberali: gli Spaventa, Francesco De Sanctis, Camillo De Meis, Pasquale Villari — Labriola risparmiò qualche frecciata. Li definiva «i puritani amici nostri». Perché?
«Non è detto che fosse una critica. Li considerava — soprattutto gli Spaventa — così legati a un ideale di intransigenza morale da risultare anacronistici. Che cosa noi italiani abbiamo oggi di rilevante e di "storico" oltre al Papato — osservava spesso Labriola —, se non la camorra, il malcostume politico, la corruzione spicciola? C'era in lui un tono disperato in merito alla possibilità di trasformare l'Italia, e quella meridionale in specie...».

Odiava anche la scuola italiana. Diceva di avere «molta più fiducia nei 19 milioni di analfabeti» (tanti ce n'erano nell'Italia del tardo Ottocento) che «in tutte le nostre scuole».
«Sì, criticava la scuola, lui che era per istinto un insegnante e amava molto l'insegnamento. Una delle sue prime opere è un libro su Socrate. Aveva la vocazione socratica. Anche Socrate era, in fondo, un bel rompiscatole».

Diceva di se stesso: «Sono un socialista a modo mio». Che tipo di socialista, o se si vuole di «comunista critico», fu dunque Labriola?
«Odiava i sistemi. Ma fu uno dei pochi a conoscere molto bene 1'opera di Marx e di Engels. Era uno dei più colti tra i filosofi suoi contemporanei, non solo d'Italia, ma d'Europa. Questo lo distingueva da tutti i socialisti nostrani. A Marx ed Engels era arrivato in un'evoluzione lunga e lenta, attraverso la conoscenza del pensiero tedesco. Le sue opere fecero molta impressione in Francia — dove le divulgò soprattutto Georges Sorel — e in Germania».

Quali furono gli scambi culturali fra Labriola e Croce?
«Credo che Croce debba moltissimo a Labriola. Nella sua formazione, Labriola pesò in maniera decisiva. Fu lui che lo spinse a studiare Marx, gli consigliò i libri da leggere, i temi sui quali aggiornarsi. I fondamentali studi di Croce sul materialismo storico e l'economia marxista nascono da questa specie di dialogo con Labriola. Di Labriola Croce avrebbe pubblicato gli scritti, a cominciare dalla famosa prolusione sulla libertà dell' insegnamento, per finire coi saggi marxisti che lo resero celebre. Anche se Labriola, quando era arrabbiato, se la prendeva un po' col suo giovane amico, accusandolo di essere un letterato, un erudito...».

Se è per questo, Labriola criticava anche i socialisti, suoi supposti correligionari. Trattava male Turati...
«C'è una grossa differenza. Per Croce nutriva rispetto. Lo stimava. Di Turati non ebbe mai una grande opinione intellettuale. Lo sentiva legato a quel socialismo che in Italia si sviluppò in connessione col positivismo. E del positivismo fu sempre un fustigatore».

Togliatti citava Labriola come un maestro. Gramsci aveva fatto Io stesso. In che cosa consiste il messaggio lasciato dal filosofo ai comunisti italiani?
«Anche qui occorre distinguere. Togliatti aveva studiato Laoriola abbastanza a fondo e contribuì alla conoscenza del filosofo nel secondo dopoguerra, sostenendo la tesi non ingiusta che il Pci gli dovesse molto: in realtà il comunismo critico è entrato in Italia attraverso Labriola in una lettura assai originale, come una teoria della liberazione umana, come qualcosa di non dogmatico. Gramsci lo ammirava, ma non credo abbia assorbito molto del suo pensiero. Quel tanto di Labriola che c'è in lui gli era arrivato attraverso gli studi marxiani di Gentile».

SPIRITO PROFETICO
Gramsci ha scritto che «Labriola ha avuto poca fortuna». Lei pensa che sia vero?
«Solo apparentemente. Labriola ha operato in profondità. La sua presenza indiretta — ora accettata, ora combattuta—è fortissima e continua. Leggi non solo Croce, ma anche Gioacchino Volpe, Gaetano Salvemini, Rodolfo Mondolfo, e ti accorgi che tante cose risalgono a Labriola. Per molto tempo l'accesso a Marx si è avuto per suo tramite. Perfino durante il fascismo, sulla metà degli anni Trenta, Giuseppe Bottai pubblicò, nella collana di saggi che dirigeva per la Utet, lo scritto di Labriola in memoria del Manifesto, come prefazione al Manifesto stesso. E si era in piena campagna etiopica...».

In che cosa consiste il pessimismo di Labriola, sul quale si sono intrattenuti tanti studiosi?
«Era la sua visione del mondo. Vedeva i tempi in nero. Le sue ultime lettere a Croce, che risalgono ai primi del Novecento, sono tra i documenti più impressionanti che Labriola abbia lasciato. Il nostro secolo, che a Croce sembrava aprirsi come una primavera nuova, lui lo presentiva come un'era di crisi. Diceva: sento un vento gelido di reazione, un'onda di irrazionalismo passare sull'Europa. Era molto malato, è vero. Avvertiva la morte; ma il pessimismo in lui era stato sempre profondo. Neppure nel pessimismo, tuttavia, era dogmatico. In definitiva, Labriola ha questo di caratteristico: l'incapacità di essere dogmatico».


“la Repubblica”, 22 aprile 1986

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