La Società di Storia
patria, una delle istituzioni culturali più prestigiose di Napoli,
presenta oggi, nella sua sede del Maschio Angioino, una novità di
grande interesse. Si tratta dell' acquisizione di un certo numero di
lettere, autografi e documenti appartenuti al filosofo Antonio
Labriola (Cassino 1843 -Roma 1904), che può essere considerato il
padre del marxismo italiano.
Fino a ieri queste carte
erano in mano agli eredi di Luigi Dal Pane, un devoto specialista di
studi labrioliani. L'acquisto, reso possibile da un finanziamento del
Banco di Napoli, comprende fra l'altro parte del carteggio di
Labriola con corrispondenti di grande rilievo (da Friedrich Engels a
Benedetto Croce), i testi inediti di alcuni corsi che Labriola
impartì dalla sua cattedra dell'università di Roma, un volume di
Marx, Introduzione alla critica dell'economia politica, con
correzioni autografe dello stesso Marx, e infine manoscritti di vario
contenuto ma tali, nel complesso, da consentire l'approfondimento
critico del pensiero di Labriola.
Al centro della cerimonia
c'è una relazione di Eugenio Garin, che del filosofo è un
autorevole studioso. Con lui ho parlato di Labriola. appunto, e
dell'importanza delle carte che ora vengono in piena luce.
Per cominciare, Labriola
uomo. Devo premettere che ho appena riletto certi brani di sue
lettere che lo stesso Garin ha riportato in un'introduzione alla
Concezione materialistica della storia edita da Laterza. Ne ho
tratto l'impressione di un personaggio strano, una gran mala lingua,
uno spiritaccio incontentabile. La sua polemica contro il positivismo
che dominava nella seconda metà del secolo scorso è astiosa quanto
pittoresca. I positivisti sono affetti da «scemità volontaria», il
loro magistero è «una zuppa mal preparata e mal bollita». Essi
hanno deciso di fungere da «rappresentanti della degenerazione
cretina del tipo borghese». Passiamo alle persone: non c'è nome
illustre che resista alle sue bordale. Auguste Comte è «il sig.
Conte», Herbert Spencer «il Grande Eunuco», Achille Loria ed
Enrico Ferri, sono «casi paradossali di ciarlataneria cretina». Dei
cattolici, Labriola afferma che «vogliono avvelenare lo Stato
costituzionale». Dei borghesi in blocco scrive che «sono buoni
soltanto a farsi impiccare». Insomma, tabula rasa. Che tipo era,
dunque, Labriola?
«Era un uomo dotato di
una lingua terribile», dice Garin. «Non risparmiava nessuno. Quando
pubblicai l'introduzione di cui lei parla, parecchi anni fa, non era
ancora uscito il bellissimo epistolario di Labriola con Benedetto
Croce. Il filosofo abruzzese, di ventitré anni più giovane, era suo
amico; godeva della sua stima. Eppure anche con lui, a volte,
Labriola era cattivo. Figuriamoci con gli altri! In quelle lettere a
Croce si trovano cose tremende. Parlando ad esempio dell'economista e
sociologo Vilfredo Parete, che gli ha sempre" dimostrato grande
considerazione, il filosofo lo chiama regolarmente "quel
cretino". Il suo temperamento bisbetico gli impediva di moderare
il linguaggio. Ciò non vuol dire che fosse cattivo. Era sposato,
aveva figli, era molto legato alla famiglia...».
Che
cosa si aspetta, lei, da queste nuove carte di Labriola?
«La cosa che mi
incuriosisce di più sono gli appunti preparatori per i corsi di
filosofia. A parte i tre saggi marxisti pubblicati da Croce, e alcuni
scritti che gli avevano fatto vincere la cattedra universitaria a
Roma, il meglio di Labriola era nelle conversazioni al caffè Aragno,
in casa di amici, nelle lettere a Croce, ad Engels, ai socialisti
tedeschi, negli articoli e nei corsi universitari. Il suo modo di
parlare doveva essere vivacissimo. C'è una pagina di Croce che
rievoca le serate che Labriola passava nella casa romana di Silvio
Spaventa, dove i due filosofi si conobbero. Era lui ad animare il
dialogo, anche per quella sua attitudine ai giudizi taglienti».
ODIOSISSIMA CITTÀ
Quali erano stati i
legami di Labriola con Napoli? Egli si trovò a viverci mentre aveva
inizio la decadenza della città non più Capitale. Le energie
provenienti dalla provincia meridionale cominciavano a non affluirvi
più. Roma ormai era il polo d'attrazione. Napoli rischiava
d'inaridirsi. Labriola lo avvertiva, nel suo tipico modo. Nel 1873
arrivò a definire Napoli «odiosissima città»...
«A Napoli aveva
studiato, si era formato, prima di vincere la cattedra universitaria
a Roma e di trasferirvisi. Ebbe rapporti assai intensi con gli
hegeliani di Napoli, e soprattutto con Bertrando Spaventa, zio di
Croce, che considerò sempre il suo "caro professore"».
Ma neppure a questi
amici della sua gioventù — i vecchi patrioti liberali: gli
Spaventa, Francesco De Sanctis, Camillo De Meis, Pasquale Villari —
Labriola risparmiò qualche frecciata. Li definiva «i puritani amici
nostri». Perché?
«Non è detto che fosse
una critica. Li considerava — soprattutto gli Spaventa — così
legati a un ideale di intransigenza morale da risultare
anacronistici. Che cosa noi italiani abbiamo oggi di rilevante e di
"storico" oltre al Papato — osservava spesso Labriola —,
se non la camorra, il malcostume politico, la corruzione spicciola?
C'era in lui un tono disperato in merito alla possibilità di
trasformare l'Italia, e quella meridionale in specie...».
Odiava anche la scuola
italiana. Diceva di avere «molta più fiducia nei 19 milioni di
analfabeti» (tanti ce n'erano nell'Italia del tardo Ottocento) che
«in tutte le nostre scuole».
«Sì, criticava la
scuola, lui che era per istinto un insegnante e amava molto
l'insegnamento. Una delle sue prime opere è un libro su Socrate.
Aveva la vocazione socratica. Anche Socrate era, in fondo, un bel
rompiscatole».
Diceva di se stesso:
«Sono un socialista a modo mio». Che tipo di socialista, o se si
vuole di «comunista critico», fu dunque Labriola?
«Odiava i sistemi. Ma fu
uno dei pochi a conoscere molto bene 1'opera di Marx e di Engels. Era
uno dei più colti tra i filosofi suoi contemporanei, non solo
d'Italia, ma d'Europa. Questo lo distingueva da tutti i socialisti
nostrani. A Marx ed Engels era arrivato in un'evoluzione lunga e
lenta, attraverso la conoscenza del pensiero tedesco. Le sue opere
fecero molta impressione in Francia — dove le divulgò soprattutto
Georges Sorel — e in Germania».
Quali furono gli
scambi culturali fra Labriola e Croce?
«Credo che Croce debba
moltissimo a Labriola. Nella sua formazione, Labriola pesò in
maniera decisiva. Fu lui che lo spinse a studiare Marx, gli consigliò
i libri da leggere, i temi sui quali aggiornarsi. I fondamentali
studi di Croce sul materialismo storico e l'economia marxista nascono
da questa specie di dialogo con Labriola. Di Labriola Croce avrebbe
pubblicato gli scritti, a cominciare dalla famosa prolusione sulla
libertà dell' insegnamento, per finire coi saggi marxisti che lo
resero celebre. Anche se Labriola, quando era arrabbiato, se la
prendeva un po' col suo giovane amico, accusandolo di essere un
letterato, un erudito...».
Se è per questo,
Labriola criticava anche i socialisti, suoi supposti correligionari.
Trattava male Turati...
«C'è una grossa
differenza. Per Croce nutriva rispetto. Lo stimava. Di Turati non
ebbe mai una grande opinione intellettuale. Lo sentiva legato a quel
socialismo che in Italia si sviluppò in connessione col positivismo.
E del positivismo fu sempre un fustigatore».
Togliatti citava
Labriola come un maestro. Gramsci aveva fatto Io stesso. In che cosa
consiste il messaggio lasciato dal filosofo ai comunisti italiani?
«Anche qui occorre
distinguere. Togliatti aveva studiato Laoriola abbastanza a fondo e
contribuì alla conoscenza del filosofo nel secondo dopoguerra,
sostenendo la tesi non ingiusta che il Pci gli dovesse molto: in
realtà il comunismo critico è entrato in Italia attraverso Labriola
in una lettura assai originale, come una teoria della liberazione
umana, come qualcosa di non dogmatico. Gramsci lo ammirava, ma non
credo abbia assorbito molto del suo pensiero. Quel tanto di Labriola
che c'è in lui gli era arrivato attraverso gli studi marxiani di
Gentile».
SPIRITO PROFETICO
Gramsci ha scritto che
«Labriola ha avuto poca fortuna». Lei pensa che sia vero?
«Solo apparentemente.
Labriola ha operato in profondità. La sua presenza indiretta — ora
accettata, ora combattuta—è fortissima e continua. Leggi non solo
Croce, ma anche Gioacchino Volpe, Gaetano Salvemini, Rodolfo
Mondolfo, e ti accorgi che tante cose risalgono a Labriola. Per molto
tempo l'accesso a Marx si è avuto per suo tramite. Perfino durante
il fascismo, sulla metà degli anni Trenta, Giuseppe Bottai pubblicò,
nella collana di saggi che dirigeva per la Utet, lo scritto di
Labriola in memoria del Manifesto, come prefazione al
Manifesto stesso. E si era in piena campagna etiopica...».
In che cosa consiste
il pessimismo di Labriola, sul quale si sono intrattenuti tanti
studiosi?
«Era la sua visione del
mondo. Vedeva i tempi in nero. Le sue ultime lettere a Croce, che
risalgono ai primi del Novecento, sono tra i documenti più
impressionanti che Labriola abbia lasciato. Il nostro secolo, che a
Croce sembrava aprirsi come una primavera nuova, lui lo presentiva
come un'era di crisi. Diceva: sento un vento gelido di reazione,
un'onda di irrazionalismo passare sull'Europa. Era molto malato, è
vero. Avvertiva la morte; ma il pessimismo in lui era stato sempre
profondo. Neppure nel pessimismo, tuttavia, era dogmatico. In
definitiva, Labriola ha questo di caratteristico: l'incapacità di
essere dogmatico».
“la Repubblica”, 22
aprile 1986
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