Franco Fortini a Siena |
Nei giorni immediatamente
successivi alla caduta del Muro di Berlino, fra il 20 e il 23
novembre del 1989, Franco Fortini tiene un seminario sulla traduzione
all’Istituto di Studi Filosofici, a Napoli: porta con sé un
fascicolo di una ottantina di carte, dove si depositano tracce e
appunti che ereditano il corso tenuto nel marzo dello stesso anno
all’Università di Siena sui Poeti traduttori. Fortini ha
già dedicato al tradurre parte cospicua della sua produzione
saggistica e, costume dei massimi poeti del secolo, a sua volta ha
firmato una quantità di versioni in prosa e poesia (fra le altre da
Proust, Kafka, Flaubert, Gide, Eluard, Dòblin Queneau, Simone Weil)
dove spiccano esiti assoluti quali Poesie e canzoni di Bertolt
Brecht (in collaborazione con Ruth Leiser, Einaudi ’59) e
ovviamente il Faust di Goethe (Mondadori ’70): né va poi
dimenticato che il tradurre occupa uno spazio di rilievo nei
carteggi, solo in parte editi, coi suoi grandi interlocutori di lungo
periodo, da Cesare Cases a Pier Vincenzo Mengaldo.
Nei giorni dunque in cui
va in pezzi il simbolo più odioso delle frontiere secolari, Fortini
tornaa alla traduzione come a un fatto non tanto e non soltanto
tecnico ma come al problema politico per eccellenza, perché tradurre
è stato sempre un modo, per lui, di valicare una frontiera e, nel
frattempo, di percepire il fronte interno. Per Fortini, in altri
termini, il problema della traduzione coincide col problema stesso
della letteratura della sua esistenza storica e finalità presente.
Sa infatti di avere servito l’industria culturale accettando
traduzioni di autori anche molto lontani come sa di averla ancora
servita con cattiva coscienza quando riteneva di marcare una alterità
avendone scelti lui in prima persona.
Quei fogli
senesi-napoletani (scanditi in quattro parti più diversi addendi e
un raro saggio del 1988, Su alcune versioni di Goethe lirico) sono
ora accessibili grazie ad una vera e propria edizione critica in
Lezioni sulla traduzione (Quodlibet, pp. 231, euro 16) con la
cura impeccabile di Maria Vittoria Tirinato che firma il saggio
introduttivo dopo una Premessa di Luca Lenzini. Come suo
solito, scrive appunto Lenzini, il poeta «procede per ampie
inquadrature di ordine storico e puntuali carrellate su esempi tratti
dall’esperienza personale, diretta»: la prima lezione è infatti
di carattere storico; la seconda concerne lo spinoso problema dei
«compensi» (e cioè l’impossibile equivalenza fra versione e
testo a fronte o, meglio, la partita del dare/avere fra testo di
partenza e d’arrivo); la terza analizza versioni di maestri e
coetanei italiani (da Ungaretti a Attilio Bertolucci); infine la
quarta ha carattere teorico ma insieme, inevitabilmente,
autobiografico.
È qui che Fortini
confessa di sentirsi in perpetua contraddizione fra il gesto sovrano
e di rapina della cosiddetta versione d’autore e il più umile
segno interlineare, di parafrasi e di critica storica: nel frattempo
rileva che in Italia le grandi traduzioni poetiche sono comparse nei
periodi di maggiore conservazione e oppressione ideologica, e massime
durante il fascismo, mentre le traduzioni di servizio si sono avute
in epoche di maggiore movimento e conflittualità politico-sociale,
specie nell’immediato dopoguerra. Immagina che chi lo sta
ascoltando sarà purtroppo testimone, e a lungo, di una letteratura
dimissionaria, pertanto il suo ultimo invito è a una grande,
necessaria, umiltà: «La traduzione privata o d’autore è il segno
di una separatezza. Per quanto è soprattutto dei maggiori classici
credo (...) che si debba perseguire il minimo di soggettività e di
invenzione poetica a favore del massimo del rigore filologico e
storico. Al limite fornire (con la storia critica delle versioni del
testo considerato) la possibilità del do-it-yourself, del
‘fai da te’, come è delle dizioni interlineari e scolastiche.
Soprattutto non troppo genio, è la formula che sento di lasciarvi».
“il manifesto”, 7
dicembre 2011
Nessun commento:
Posta un commento