Su un bel supplemento del
“manifesto” di qualche anno fa, dedicato alle nuove tecnologie in rapporto all'ambiente, trovo questo articolo di Simona Galasso, una ricercatrice della
Fondazione Diritti Genetici, che mi pare assai interessante. (S.L.L.)
Susine |
Quattro colture presenti
sul mercato (soia, mais, cotone e colza) e due tipologie di
modificazione genetica (tolleranza agli erbicidi e resistenza agli
insetti): è questo il risultato della ricerca sugli Ogm a tredici
anni dalla loro introduzione su scala commerciale e a più di venti
dall’avvio dei primi studi nel settore, due decenni costellati di
problemi e questioni ancora aperte, tra una ricerca che non decolla e
politiche nazionali sempre più caute a dispetto del decisionismo
della Commissione europea.
A preoccupare i governi
che invocano il principio di precauzione (e sono la maggior parte,
visto che in Europa soltanto 6 paesi su 27 coltivano mais
geneticamente modificato e che nel 2009 la superficie complessiva
coltivata a transgenico è diminuita del 12%) sono soprattutto gli
impatti ambientali, tra cui la possibilità di un trasferimento di
geni da pianta a pianta e gli effetti sul suolo. L’ultimo caso
eclatante arriva dagli Stati Uniti, dove un’erba selvatica è
diventata resistente all’erbicida Roundup della Monsanto a causa
della «vicinanza» - ventuno chilometri! - con alcuni campi
sperimentali di erba transgenica.
Ma anche l’Italia deve
fare i conti con la questione «coesistenza» tra piante Ogm e piante
convenzionali, visto che l’estate scorsa un campo illegale di mais
transgenico in Friuliha causato, secondo le analisi effettuate
dalMinistero dell’agricoltura, una contaminazione da transgenico
sui campi limitrofi. Il mais in questione è il Mon810 della
Monsanto, in cui è stato inserito il gene di un
batterio, il Bacillus
Thuringiensis, in grado di produrre una tossina che ha effetti letali
sulle larve di piralide, un parassita che attacca le piante di mais.
Oltre al possibile trasferimento dei geni dalle piante Ogm a quelle
convenzionali, una delle questioni aperte è l’impatto della
tossina Bt sul suolo, gli effetti che il suo rilascio può comportare
sugli insetti e sulla salute del terreno.
Non a caso nelle nuove
linee guida elaborate dall’Efsa (l’Autorità europea per la
sicurezza alimentare) per la valutazione degli impatti ambientali
degli Ogm, tra i sette punti che le aziende biotech e gli esperti
dovranno considerare prima del rilascio in ambiente di un organismo
geneticamente modificato, ci sono gli effetti sui processi
bio-geochimici, cioè gli impatti sul terreno. Questione fino ad ora
piuttosto sottovalutata ma sulla quale esiste già una letteratura
scientifica notevole.
Quale potrebbe essere, a
questo punto, la soluzione? Un’altra coesistenza tra scienza e
ambiente è possibile? Forse sì, cominciando a pensare che
biotecnologie non vuol dire solo Ogm, e che produrre frutti che non
si ammalano e piante che resistono alla siccità o ai parassiti non è
un sogno esclusivo dell’ingegneria genetica. Ne è un esempio la
Mas, la selezione assistita da marcatori (Marker Assisted Selection)
una biotecnologia sostenibile e amica dell’ambiente che offre i
vantaggi dell’innovazione genetica senza le controindicazioni degli
Ogm. Grazie alle moderne tecniche genetiche si possono infatti
individuare le varietà che presentano la sequenza genica associata
al carattere desiderato – come ad esempio la resistenza alla
siccità o a certi parassiti – e poi effettuare incroci mirati tra
la varietà donatrice e una di interesse economico, finché il
carattere non si sia stabilizzato.
In fondo si tratta
soltanto di accelerare e semplificare quei processi di selezione
naturale che gli agricoltori compiono da migliaia di anni, ma con
risultati più incoraggianti e meno controversi rispetto agli Ogm: la
Mas non genera problemi di contaminazione ambientale né conflitti
sociali, valorizza il patrimonio genetico delle varietà selvatiche,
costa meno e le varietà selezionate non sono coperte da brevetto
industriale. In più, non contengono frammenti di Dna estraneo alla
specie cui appartengono. Nel caso del Mais Mon 810,ad esempio, il
gene del batterio viene isolato in laboratorio e poi «sparato»
nelle cellule della pianta andando a finire all’inizio o alla fine
della catena del Dna, con tutte le incognite che questo comporta. Con
la selezione assistita da marcatori, invece, non viene introdotto Dna
estraneo e la catena non viene stravolta.
Un’altra coesistenza
tra scienza e ambiente è dunque possibile, e nel nostro paese vari
centri di ricerca sono già impegnati da anni nel campo della Mas con
progetti che riguardano, tra gli altri, il grano, il pomodoro, il
peperone, il melo e la susina: perché non incoraggiarli?
Gasati - Supplemento
al “manifesto” 12
luglio 2012
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