Il celebre trovatore Rambaut di Vaqueiras in una miniatura |
Che senso ha leggere i
Trovatori? Tramontato il mito romantico del loro aurorale
primitivismo (hanno fatto, sì, germinare la poesia europea, ma sopra
radici culturali poderose, illuminate da generazioni di eruditi);
appannato - forse - ai nostri occhi il fascino letterario dell’amor
cortese con i suoi riti, tutto sommato ripetitivi e stilizzati;
sommerse le loro rime dalle successive grandi stagioni della poesia
lirica europea: perché proprio i Trovatori, cioè una pattuglia di
poche centinaia di poeti fiorita, con centro la Provenza, tra
Catalogna e Italia prima di Dante e Petrarca?
La domanda è facilmente
eludibile con un’autogiustificazione accademica: esiste una
disciplina chiamata Filologia romanza (i non-laureati-in-lettere
spesso la ignorano, ma è, o dovrebbe essere, un cardine della nostra
educazione umanistica: lo studio dei testi scritti nelle lingue
derivate dal latino) che ha fatto della letteratura provenzale antica
la sua principale palestra. La Filologia romanza, e in particolare
occitanica, in Italia sta abbastanza bene, specie rispetto ad altri
Paesi. In Francia, per dire, è stata praticamente sterminata con la
stessa risolutezza che nel Duecento guidò la crociata contro gli
eretici albigesi. Pur nei mala tempora, in Italia si coltivano
ancora gli studi di robusta scuola filologica che hanno svelato
all’Europa i Trovatori: la monumentale Bibliographie des
Trobadours del tedesco Alfred Pillet, del 1933, ancora
utilissima, è stata ora ripubblicata e ben aggiornata da Paolo
Borsa, Roberto Tagliani e Stefano Resconi (e Stefano Asperti l’aveva
già messa in internet). In Italia si pubblicano le migliori edizioni
dei poeti di Provenza e i commenti più raffinati. Ma di tutto questo
al pubblico arriva poco, e ciò non risponde alla domanda da cui
siamo partiti.
Tra le risposte
possibili, se ne può cercarne una nelle Canzoni occitane di
disamore (Carocci, 2014) appena pubblicate da Francesca
Sanguineti e Oriana Scarpati. Ottimo campo di prova: è un’antologia,
felicemente pensata, delle poesie che i trovatori dedicano al tema
opposto a quello usuale: non l’innamoramento ma la fine dell’amore.
Che significa: constatazione di crudeltà, scorrettezza, venalità o
ingenerosità della donna che si è poeticamente servita e riverita.
Con le parole di Bernart de Ventadorn: «Mout l’avia gen servida
/ tro ac vas mi cor volatge; / e pus ilh no m’es cobida, / mout sui
fols, si mais la ser» («l’avevo servita molto nobilmente
finché non manifestò un animo volubile nei miei confronti, e poiché
ella non mi è destinata, sono davvero folle se la servo ancora»).
Più esplicito e iattante Raimbaut de Vaqueiras: «Ges no pres un
botacis / dona que aitals sia / c’un prenda et autre.n lais» («Non
apprezzo uno sbuffo una donna che si comporti in modo tale da
prendere uno e lasciarne un altro»).
Come accade anche ai
non-trovatori, il disamore implica deprecazione dell’amore in sé.
Folchetto, con la sua eleganza: «Amor, per so m’en soi eu recresuz
/ de vos servir, que mais no n’aurai cura; / c’aissi com mais
prez’hom laida pentura / de long, no fai cant es de pres venguz,
prezava eu vos mais can no.us conoissia» («Amore, per questo ho
abbandonato il vostro servizio e non me ne interesserò mai più;
perché così come si apprezza maggiormente un brutto dipinto da
lontano rispetto a quando è vicino, io vi apprezzavo di più quando
non vi conoscevo»).
Più spesso, ci si
risolve nella decisione di servire un’altra donna, da cui si spera
di avere miglior guiderdone (guizardo). Raimbaut d’Aurenga:
«Ar sui partitz de la pejor / c’anc fos vista ni trobada, / et am
del mon la bellazor / dompna, e la plus prezada» («ora mi sono
allontanato dalla peggiore che esista, e amo la più bella donna del
mondo, e la più valente»). Resta il diritto se non proprio
d’insultare la precedente amata (ché sarebbe contrario alle regole
della cortesia), di esporla al dileggio. Peire Cardenal: «la m’amia
no mi tenra / si ieu lieys non tenia, / ni ia de mi non iauzira /
s’ieu de lieys non iauzia» («la mia amica non mi avrà mai se io
non la posseggo, né di me godrà se io non godo di lei»).
Arguto, certo, anche se
in fondo poco originale (di rado lo è la poesia medievale, nel senso
che intendiamo oggi). Quel che forse è davvero suggestivo per il
pubblico italiano - proprio perché familiare, ma altrove introvabile
- è ciò cui il lettore di traduzioni non fa caso. Ottima la scelta
delle curatrici di mettere una versione a fronte, ma di ridurla
all’osso e di scioglierla in prosa, quasi per ricacciare
continuamente l’occhio verso il testo originale scritto in una
lingua da cui italiani, francesi, spagnoli d’oggi si sentono allo
stesso grado lontani e vicini. Si capisce perché i pionieri degli
studi trobadorici credettero (a torto, si chiarì poi) di vedere in
questa lingua la madre comune di tutte quelle neolatine di oggi.
Ecco: è forse la lingua dei trovatori - di fatto dimenticata o
trascurata per secoli - a regalare il piacere maggiore a chi oggi la
legge con occhi diversi da quelli dello studioso: una lingua
difficile ma non impenetrabile, straniante e divertente, in cui si
sperimenta nel modo più concreto la distanza, e insieme la mirabile
familiarità di questi amorosi disamorati.
“Il Sole 24 ore
Domenica”, 19 gennaio 2014
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