Su “La Stampa” per il
venticinquennale dalla morte di Italo Calvino, Ernesto Ferrero
tracciò nel 1910 un sintetico bilancio sull'eredità dello
scrittore. Val la pena di riprenderlo e aggiornarlo, ora che gli anni
si sono fatti 30. (S.L.L.)
L’enfasi celebrativa
con cui di solito ci occupiamo di ricorrenze e anniversari sta a
significare il suo contrario: celebriamo rumorosamente i grandi
scomparsi per meglio auto-esentarci dal dovere di rileggerli. Con
Italo Calvino questi rischi non si corrono. I venticinque anni che
sono passati dalla sua prematura scomparsa (aveva da poco passato i
sessanta) servono a capire ancor meglio quanto ci sia (sempre più)
necessario, addirittura indispensabile. E cade opportuna la dedica di
«Portici di Carta» anche perché il sardo-ligure Calvino qui aveva
trovato il suo habitat naturale. Di Torino, scrisse, gli piaceva
«l’assenza di schiume romantiche, il far affidamento soprattutto
sul proprio lavoro, una schiva diffidenza nativa, e in più il senso
sicuro di partecipare al vasto mondo che si muove e non alla chiusa
provincia, il piacere di vivere temperato di ironia, l’intelligenza
chiarificatrice e razionale». Lo aveva attratto «un’immagine
sociale e civile» più che «letteraria».
Qui ha messo a punto la
sua strategia cognitiva. Figlio di scienziati, e scienziato per abito
mentale egli stesso, Calvino elabora nientemeno che un nuovo modo di
vedere il mondo al di là delle vecchie convenzioni
neo-impressioniste o neo-espressioniste. Gli interessa definire le
complicate reti di relazioni che si danno tra le persone, le cose,
gli eventi: simile in questo a Gadda, ma con tutt’altri registri di
scrittura. È un cartografo, un costruttore di sestanti e astrolabi,
un maestro del calcolo combinatorio, un architetto-urbanista di
palazzi e città letterarie, un inventore di apparecchi radiografici
e tomografie assiali computerizzate. Nulla lo appassiona quanto fare
continuamente il punto, fissare la posizione propria e degli altri,
cercare nessi, indagare il rovescio, la trama segreta di quell’arazzo
di inganni e di apparenze che è la vita.
Tutto questo, si badi,
partendo più o mena dall’Ariosto, cioè da un’apparenza di
leggerezza fantastica, quasi d’evasione fiabesca. Che invece è un
modo di giocare di sponda, di sottrarsi alle servitù della cronaca e
del realismo, ai gonfiori e alle complicazioni dell’Io e dello
psicologismo, alle pretese dello storicismo, ai lenocini
dell’intrattenimento. Scegliendo la posizione defilata e lievemente
rialzata del Barone Rampante,
Calvino è quello che ha visto meglio di tutti. Ci voleva una grande
intelligenza e un grande coraggio per esordire raccontando la guerra
partigiana nei modi del Sentiero dei nidi di ragno e
proseguire in piena età dell’impegno con la trilogia degli
antenati (ma già i raccontini giovanili hanno un’impronta di
apologo filosofico incredibile per quei tempi). E poi andare avanti a
sperimentare, senza mai ripetersi, senza mai campare di rendita, fino
alla fine, sempre contando su una qualità di scrittura che rende
ogni pagina, anche la più estemporanea, semplicemente perfetta.
Per via della stessa
lucidità del suo talento d'indagatore Calvino ha conosciuto il
disincanto sin dalla metà degli Anni 50, ma non si è lasciato
travolgere dallo sgomento e dall’angoscia, non ha alterato la sua
fisionomia illuministica con sogghigni nichilisti alla Cioran o
voluttà apocalittiche. Fedele al diritto-dovere della laconicità,
ha tenuto la postazione senza arretrare, ha continuato a esercitare
il pragmatismo stoico definito in una celebre pagina delle Città
invisibili: l’inferno esiste, è il qui e ora che abbiamo
costruito insieme, ma se non vogliamo lasciarcene inghiottire o
diventare parte integrante di esso, dobbiamo «cercare e saper
riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e
farlo durare, e dargli spazio».
In questi anni di basso
impero è un invito che costituisce una bussola sicura. Leggendo alla
radio il poema ariostesco, Calvino aveva osservato a proposito del
destino già scritto a cui Ruggiero è condannato: «Tra il punto in
cui egli si trova ora e l’adempiersi del destino possono succedere
tante mai vicende, tanti ostacoli frapporsi, tante volontà entrare
in campo a contrastare il volere degli astri: la strada che il
predestinato deve percorrere può essere non una linea retta ma un
interminabile labirinto. Sappiamo bene che tutti gli ostacoli saranno
vani, che tutte le volontà estranee saranno sconfitte, ma ci resta
il dubbio se ciò che veramente conta sia il lontano punto d’arrivo,
il traguardo finale fissato dalle stelle, oppure siano il labirinto
interminabile, gli ostacoli, gli errori, le peripezie che dàn-no
forma all’esistenza».
Antieroe della
«perplessità sistematica», anti-presenzialista che cercava di far
perdere le proprie tracce tra le moltitudini delle metropoli, Calvino
non si è mai sottratto alla sfida, fino a schiattare letteralmente
di fatica, come un contadino dei poderi patemi, durante la stesura
delle Lezioni americane, un libro che da solo può dare la
misura di una civiltà letteraria. Perfettamente consapevole
dell’inevitabile scacco finale, ha continuato a disegnare mappe
sempre più esatte del labirinto che ci tiene prigionieri. Per questo
continueremo ad avere bisogno di lui. Per questo continuano a
leggerlo in tutto il mondo.
Tuttolibri La Stampa, 18
settembre 2010
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