Salvatore Di Giacomo |
È possibile leggere
trecento pagine di Salvatore Di Giacomo in cui non si parla quasi mai
del mare di Napoli, delle bellezze della città, del suo fascino
sottile e delle sue cattivanti armonie? Chi voglia entrare in
contatto con questo secondo Di Giacomo e con questa Napoli inattesa,
così diversa dalla convenzione di maniera che accompagna il nome del
suo maggiore poeta, ha a disposizione un'antologia dell'attività
giornalistica che lo scrittore svolse in gioventù, fra il 1886 e il
1902, prima come corrispondente di un quotidiano della Capitale, il
“Corriere di Roma”, poi come cronista ed elzevirista del
“Corriere di Napoli”. Il volume s' intitola La vita a Napoli,
ed è edito a cura di Arturo Fratta e Manuela Piancastelli per
iniziativa dell' Istituto di Studi Filosofici (Bibliopolis, pagg.
337, lire 30.000).
Quella che qui emerge,
sotto lo sguardo di un cronista petulante come lo stesso scrittore si
definisce, è una città in penombra o al buio, piena di miasmi e di
umidità. E' la Napoli dei bassi, delle tane, delle caverne
asfittiche, con i suoi balconcini angusti e cadenti, le scalette in
bilico, i gradoni consunti, i selciati sconnessi e lubrichi, solcati
da sudici rigagnoli: l' enorme città notturna, nella quale qua e là
dei fanali cercano di illuminare le strade e combattono con la grande
oscurità che tenta di seppellirle. I personaggi di questa metropoli
fine secolo, illusa e sconvolta dal Risanamento che vuole sventrarla,
hanno poco di pittoresco a buon mercato: sono giovani pregiudicati
(ammoniti è il termine tecnico in uso), facili allo sfregio e
avvezzi al carcere, vecchi mendicanti rotti ad ogni vizio, prostitute
sformate e mastodontiche (nei vicoli napoletani, annota Di Giacomo,
l' estetica femminile, come in certi paesi d' Africa, si valuta a
peso), capère (pettinatrici) vogliose e rassegnate, contadini
affluiti in città per scontare debiti giudiziari e sconvolti da
questa inopinata necessità che li mette in relazione con lo Stato.
Per Di Giacomo redattore
di nera, gli spunti sono quelli offerti dalla casistica giudiziaria:
un delitto di quartiere, uno scippo, qualche idillio che ha bisogno
dell'oscurità e si conclude nel sangue, è il momentaneo
annebbiamento d'un cervello, dovuto anch'esso a motivi di cronaca
locale. Il lettore troverà infatti, tra gli eroi più espressivi del
libro, un giovane acquaiuolo che impazzisce a causa della concorrenza
professionale che gli fa l'Acquedotto del Serino, entrato in funzione
nel maggio 1885. Ecco dunque lo scrittore intento ad esplorare tutti
i quartieri bassi di quella che è ancora la città più popolosa e
più caratteristica d'Italia: le aule sbrecciate e brulicanti di
Castel Capuano (il palazzo di Giustizia), le corsie dell'ospedale
degli Incurabili, il lurido pancone di marmo dell'obitorio, i
dormitori dell'Albergo dei Poveri, le strade e i fondaci condannati a
sparire per ordine del Comune.
Dal Porto alla Marina,
dalla Vicaria al Pendino, dal Carmine a San Giovanni a Carbonara, dal
Vasto a Porta Capuana, dagli Orefici al Borgo Sant' Antonio Abate, il
cuore storico della città è il teatro di gesta umili e oscure di
cui è protagonista quella folla ignorante, sterminata, negletta alla
quale, a giudicare da pudichi accenni che affiorano tra le righe, Di
Giacomo rivolge la sua disarmata simpatia. I colori adoperati dallo
scrittore non appartengono alla ricca tavolozza che subito s'immagina
quando si parla di Napoli. Comprendono invece tutte le tonalità del
grigio, il più adatto a riprodurre la malinconica pace delle
stradicciole napoletane, dove ogni cosa nasconde e cova un dolore.
Il dialetto, che domina
nel parlato di queste scene digiacomiane, è sobrio e preciso; più
moderno, comunque, della stessa prosa italiana dello scrittore, che
appare invecchiata, specie in qualche reportage di cronaca bianca in
cui si racconta della dignità senatoriale concessa da Umberto I al
pittore Domenico Morelli, o della vita dei teatri napoletani prima
dell' Unità, o di una visita (1894) fatta dall' autore allo scoglio
di Marechiaro, già oggetto di una sua celeberrima canzone. Uomo di
mondo o erudito, Di Giacomo può piacere agli intenditori o agli
appassionati di remote cronache cultural-mondane; ma dove si rivela
giornalista efficace è in quel suo modo di descrivere, senza carità
di patria, la capitale del Sud, la quale aspetta, come aspettano
tutte le città del Regno (si legge in una nota del 1898) delle vere
e serie riforme, de' provvedimenti che assicurino a' suoi
cinquecentomila abitanti una vita men disagiata, meno aspra, men
combattuta dalle necessità più immediate. Che Di Giacomo sia stato
un indagatore pacato e antiretorico della sua Napoli, non è noto a
sufficienza. Molti privilegiano, nella sua produzione, il canto
spiegato di Ariette e sunette alle dolenti atmosfere di 'O
funneco verde o di A San Francisco.
Negli anni del
neorealismo era anzi diventato consuetudine il contrapporre il
superiore distacco di Di Giacomo, olimpico poeta alto-borghese, ai
bardi della vera Napoli popolare, con alla testa Raffaele Viviani. La
pensosa consapevolezza che anima questi pezzi di giornale servirà,
per quel che conta, a confutare l'addebito. In più di un'occasione
il realismo di questo Di Giacomo giornalista militante è tale da
sorprendere. Lo vediamo difendere quel povero Francesco Mastriani,
romanziere napoletano alquanto discusso per la crudezza con la quale
descriveva gli ambienti cittadini, dall'accusa di essere un
esageratore antipatriottico di certi costumi e di certi delitti. E
ancora: chi riconoscerebbe la mano di Di Giacomo laddove si parla
delle donne di Napoli da lui tante volte angelicate in versi
memorabili come di esseri che spesso, per colpa degli uomini, perdono
il tesoro della loro femminilità e il loro pudore e paiono allora
più feroci, più triste dei lor uomini? Chi si aspetterebbe di
sentire definire gli scugnizzi ragazzaglia plebea che non rispetta
alcuna sventura peripatetica? E chi non resterebbe stupito, per la
loro attualità, di fronte a certe denunzie, come quella in cui Di
Giacomo descrive le abbandonate vie napoletane che raccolgono e
serbano le immondizie fino a settimane, mentre il sindaco e gli
assessori mostrano di non vedere questo continuo seppellimento dell'
uomo sotto la spazzatura?
Il Di Giacomo vero è
anche qui. Come documenta Arturo Fratta nel saggio Di Giacomo
giornalista con cui si apre il volume, egli ebbe della sua città
una visione poetica ma non edulcorata: che non è la stessa cosa. A
ripensarci, i suoi articoli e le sue poesie migliori spesso si
somigliano. Li accomuna un modo di guardare alle cose di questo
mondo, e di Napoli in particolare (così scrive), con un sentimento
commisto di studio e di pietà.
“la Repubblica”, 7
gennaio 1987
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