20.6.15

L’ultimo dei Mohicani è un biscazziere (Marco D'Eramo)

Un reportage magnifico, vecchio16 anni, ma tale da aiutarci a capire ancora oggi cos'è accaduto in America, e non soltanto in America. (S.L.L.)
Foto di Tano D'Amico
Al confine dello stato di New York col Canada, nella riserva di Saint Regis, il fiero popolo pellerossa dei Mohawks si fa i suoi conti dopo due mesi di apertura del nuovo casinò, il Akwesasne Mohawk Casino, col suo arredamento Art Deco, a dominante rossa, stile Ruggenti anni ’20. I Mohawks sono solo l’ultimo tra i Popoli degli Uomini ad aprire un locale da gioco, ma non resteranno tali a lungo. La tendenza sembra infatti inarrestabile da almeno undici anni, da quando la Corte suprema degli Stati uniti ha dichiarato inapplicabili alle riserve indiane i divieti che i vari stati opponevano al gioco d’azzardo e il Congresso ha approvato nel 1988 il Federai Indian Gaming Regulatory Act: di fatto veniva consentito aprire locali in ogni riserva. Ormai ogni tribù s’inaugura il suo piccolo casinò.
Per esempio, sulle 22 tribù del New Mexico, 11 gestiscono ora casinos che rapportano loro circa 350 milioni di dollari (600 miliardi di lire) l’anno. Nella riserva Pueblo di Santa Ana, sulle rive del Rio Grande, oltre al casinò, è in costruzione un albergo da 80 milioni di dollari (150 miliardi di lire), e intorno c’è un terreno da golf con 27 buche che quest’anno ospita il campionato Usa donne dilettanti e il torneo professionistico Pga Western Club.
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Nello stato di New York, per il popolo degli Oneida ormai il vero sostentamento economico viene dal casinò di Tuming Stane, con il suo albergo da 385 stanze e il centro congressi. Per non parlare di Fox-woods, l’immenso e più redditizio casinò di tutti gli States, gestito dagli indiani Pequot in Connecticut e che fattura oltre 1 miliardo di dollari (1.850 miliardi di lire) l’anno.
Di fronte a questi colossi, il locale di tre piani aperto dai Mohawks è un’inezia: l’investimento è stato di appena 30 milioni di dollari, ha solo 90 tavoli da gioco (blackjack, dadi e roulette) e spera di fatturare 100 milioni di dollari l’anno, soprattutto per mezzo delle 1.100 slot-machines: queste ultime generano infatti (in media) l’80% dei profitti di ogni casinò americano. Ma, nonostante le sue modeste dimensioni, il casinò ha assunto dall’oggi all’indomani 1.000 dipendenti (di cui più della metà Mohawk), ed è così il maggiore datore di lavoro dell’area, più importante dell’impianto della General Motors a Massena, 8 chilometri a ovest, e delle stesse dimensioni della fabbrica di alluminio Reynolds, qualche chilometro più a ovest, sul fiume San Lorenzo. Non solo: sui 100 milioni di dollari che i Mohawks sperano di fatturare, 40 saranno di profitto e il 75% (30 milioni di dollari) andrà alla tribù. IL resto andrà a Ivan Kaufman, un investitore di Long Island che ha messo i 30 milioni di dollari iniziali e che ha un contratto di gestione di 5 anni, dopo di che i Mohawks potranno decidere se gestire in proprio o no il casinò. Con tanti soldi, ha detto al “New York Times” la grande capo Hilda E. Smoke, le sorti di questa tribù di 10.000 persone potranno finalmente girare per il verso giusto. «Abbiamo bisogno di 30 km di condutture d’acqua e almeno il doppio di fogne». E poi forse potranno costruire un liceo.
Il problema è attirare in un posto così fuori mano i 4.000 clienti giornalieri necessari a generare il fatturato di 100 milioni di dollari. Da Montreal e da Ottawa a St Regis si arriva in macchina; da New York e Albany in aereo. O allora bisogna attraversare la sterminata, boscosa distesa inabitata dei monti Adirondacks. Kaufman scommette perciò sugli avventori canadesi, anche se a D’Amico Montreal esiste già un casinò molto più grande, però troppo affollato d’estate. Per convincerli ad affrontare il viaggio, il casinò è aperto 24 ore su 24 e accetta sia dollari canadesi che Usa.
Anche nel caso dei Mohawks, la stampa americana s’interroga sul rapporto tra nuovi casinò e antiche tradizioni, religione ancestrale: sono 11 anni che questo tipo di articoli si ripete quattro o cinque volte l’anno su ognuno dei grandi organi americani, Los Angels Times, New York Times, Chicago Tribune, Washington Post, e ormai la cartelletta dei ritagli è ipergonfia.
La domanda è sempre del tipo: può il Grande Manitù recitare rien ne va plus? Nella loro riserva di 250 kmq, i Pueblo di Santa Ana, avevano concordato con il gigante alberghiero Hyatt la costruzione del grande hotel da 80 milioni di dollari (e 350 stanze), con annesso ristorante di lusso. Gli stregoni della tribù della tribù si erano opposti perché il sito scelto era a meno di un chilometro dalla «Testa di serpente» , un luogo sacro dei Pueblo. Ma i tecnici dell’Hyatt hanno insistito

perché volevano un luogo vicino al fiume Rio Grande, con vista panoramica sulle montagne. Naturalmente l’hanno avuta vinta loro, offrendo un contentino: l’albergo metterà su un piccolo museo che esporrà oggetti per descrivere la storia della tribù.
La morale dunque che la stampa americana trae è che sì, è vero, un po’ di tradizioni si perdono, ma gli indiani stanno molto meglio di prima. È probabile però che anche quello dei casinò, come tanti altri, si riveli un miraggio transitorio. Intanto la gestione reale sta passando mano mano nelle mani dei professionisti, dei signori di Las Vegas, di Atlantic City e di Chigago, cioè della mala, di Cosa Nostra, delle Triadi cinesi e così via. E poi i vari stati si sono accorti che un flusso crescente di denaro gli sta scappando di mano, proprio quando ne hanno un bisogno sempre più disperato, visto che, nella tendenza politica reaganiana dominante, ogni politico - se vuole sperare di vincere le elezioni - è costretto a promettere 1) un bilancio in dello stato in pareggio e, contraddittoriamente, 2) una riduzione delle tasse. D’altra parte, il puritanesimo imperante rende indecenti le cosiddette «tasse del peccato» [sin taxes). Soluzione: tutti gli stati si lanciano nella costruzione di casinos, ma con un’ipocrisia: li fanno «galleggianti», sui fiumi di confine tra stato e stato, in modo che non stiano sul loro territorio. Inutile dire che questi casinos sono fatti di cemento e stanno a un metro dalla riva: quel che importa è il ponte simbolico. Risultato: i casinos si moltiplicano come funghi in tutti i 50 stati, diminuendo così la redditività pro capite (prima Las Vegas e Atlantic City godevano di una rendita di posizione, in quanto i quasi unici luoghi dove i giocatori potevano rovinarsi). E così anche i casinos indiani stano per essere sommersi da una valanga di altre case da gioco. La febbre dei casinos rischia cioè di essere altrettanto fugace della febbre dell’oro, e altrettanto aleatoria.
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Senza contare che tutto il benessere, tutto il miraggio che viene fatto sbriluccicare davanti agli occhi di Mohawks, Pueblo, Navajo, Oneida, Pequot, consiste in un lavoro di camerieri, tutt’al più di biscazzieri: e tutta la vicenda acquista il sapore acidulo dell’ultima beffa giocata dall’uomo bianco ai valorosi guerrieri di un tempo. Viene un sorriso amaro a guardare questi casinos, le slot-machines e i loro inservienti che portano nomi di popoli gloriosi e riecheggiano eroiche vicende. La guerra dei Pequot (1637) fu uno dei primi massacri compiuti contro gli indiani, quando questa tribù degli Algonchini, che aveva dominato il Connecticut meridionale, fu attaccata dai coloni inglesi per ritorsione all’omicidio di alcuni commercianti di frontiera. La loro roccaforte vicino a New Haven fu bruciata. Più di 500 Pequots furono uccisi, donne e bambini compresi. Anche i Mohawks erano un popolo assai potente, alleato dagli olandesi, talmente forte da cacciare i fieri Mohicani dalle loro terre e da respingerli a sud nel Connecticut, accanto ai Pequot. Fennimore Cooper (1789-1851) difficilmente avrebbe potuto descrivere l’ultimo dei Mohicam in grembiulino bianco, a lanciare dadi sul tappeto verde di un tavolo, attorno a cui si affollano i giocatori che con le scarpe fanno scricchiolare senza sosta il tappeto di bucce di noccioline americane che ricopre il pavimento.

il manifesto, venerdì 2 luglio 1999

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