Un reportage magnifico,
vecchio16 anni, ma tale da aiutarci a capire ancora oggi cos'è
accaduto in America, e non soltanto in America. (S.L.L.)
Foto di Tano D'Amico |
Al confine dello stato di
New York col Canada, nella riserva di Saint Regis, il fiero popolo
pellerossa dei Mohawks si fa i suoi conti dopo due mesi di apertura
del nuovo casinò, il Akwesasne Mohawk Casino, col suo arredamento
Art Deco, a dominante rossa, stile Ruggenti anni ’20. I Mohawks
sono solo l’ultimo tra i Popoli degli Uomini ad aprire un locale da
gioco, ma non resteranno tali a lungo. La tendenza sembra infatti
inarrestabile da almeno undici anni, da quando la Corte suprema degli
Stati uniti ha dichiarato inapplicabili alle riserve indiane i
divieti che i vari stati opponevano al gioco d’azzardo e il
Congresso ha approvato nel 1988 il Federai Indian Gaming Regulatory
Act: di fatto veniva consentito aprire locali in ogni riserva. Ormai
ogni tribù s’inaugura il suo piccolo casinò.
Per esempio, sulle 22
tribù del New Mexico, 11 gestiscono ora casinos che rapportano loro
circa 350 milioni di dollari (600 miliardi di lire) l’anno. Nella
riserva Pueblo di Santa Ana, sulle rive del Rio Grande, oltre al
casinò, è in costruzione un albergo da 80 milioni di dollari (150
miliardi di lire), e intorno c’è un terreno da golf con 27 buche
che quest’anno ospita il campionato Usa donne dilettanti e il
torneo professionistico Pga Western Club.
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Nello stato di New York,
per il popolo degli Oneida ormai il vero sostentamento economico
viene dal casinò di Tuming Stane, con il suo albergo da 385 stanze e
il centro congressi. Per non parlare di Fox-woods, l’immenso e più
redditizio casinò di tutti gli States, gestito dagli indiani Pequot
in Connecticut e che fattura oltre 1 miliardo di dollari (1.850
miliardi di lire) l’anno.
Di fronte a questi
colossi, il locale di tre piani aperto dai Mohawks è un’inezia:
l’investimento è stato di appena 30 milioni di dollari, ha solo 90
tavoli da gioco (blackjack, dadi e roulette) e spera di fatturare 100
milioni di dollari l’anno, soprattutto per mezzo delle 1.100
slot-machines: queste ultime generano infatti (in media) l’80% dei
profitti di ogni casinò americano. Ma, nonostante le sue modeste
dimensioni, il casinò ha assunto dall’oggi all’indomani 1.000
dipendenti (di cui più della metà Mohawk), ed è così il maggiore
datore di lavoro dell’area, più importante dell’impianto della
General Motors a Massena, 8 chilometri a ovest, e delle stesse
dimensioni della fabbrica di alluminio Reynolds, qualche chilometro
più a ovest, sul fiume San Lorenzo. Non solo: sui 100 milioni di
dollari che i Mohawks sperano di fatturare, 40 saranno di profitto e
il 75% (30 milioni di dollari) andrà alla tribù. IL resto andrà a
Ivan Kaufman, un investitore di Long Island che ha messo i 30 milioni
di dollari iniziali e che ha un contratto di gestione di 5 anni, dopo
di che i Mohawks potranno decidere se gestire in proprio o no il
casinò. Con tanti soldi, ha detto al “New York Times” la grande
capo Hilda E. Smoke, le sorti di questa tribù di 10.000 persone
potranno finalmente girare per il verso giusto. «Abbiamo bisogno di
30 km di condutture d’acqua e almeno il doppio di fogne». E poi
forse potranno costruire un liceo.
Il problema è attirare
in un posto così fuori mano i 4.000 clienti giornalieri necessari a
generare il fatturato di 100 milioni di dollari. Da Montreal e da
Ottawa a St Regis si arriva in macchina; da New York e Albany in
aereo. O allora bisogna attraversare la sterminata, boscosa distesa
inabitata dei monti Adirondacks. Kaufman scommette perciò sugli
avventori canadesi, anche se a D’Amico Montreal esiste già un
casinò molto più grande, però troppo affollato d’estate. Per
convincerli ad affrontare il viaggio, il casinò è aperto 24 ore su
24 e accetta sia dollari canadesi che Usa.
Anche nel caso dei
Mohawks, la stampa americana s’interroga sul rapporto tra nuovi
casinò e antiche tradizioni, religione ancestrale: sono 11 anni che
questo tipo di articoli si ripete quattro o cinque volte l’anno su
ognuno dei grandi organi americani, Los
Angels Times, New York Times, Chicago Tribune, Washington Post,
e ormai la cartelletta dei ritagli è ipergonfia.
La domanda è sempre del
tipo: può il Grande Manitù recitare rien ne va plus? Nella
loro riserva di 250 kmq, i Pueblo di Santa Ana, avevano concordato
con il gigante alberghiero Hyatt la costruzione del grande hotel da
80 milioni di dollari (e 350 stanze), con annesso ristorante di
lusso. Gli stregoni della tribù della tribù si erano opposti perché
il sito scelto era a meno di un chilometro dalla «Testa di serpente»
, un luogo sacro dei Pueblo. Ma i tecnici dell’Hyatt hanno
insistito
perché volevano un luogo
vicino al fiume Rio Grande, con vista panoramica sulle montagne.
Naturalmente l’hanno avuta vinta loro, offrendo un contentino:
l’albergo metterà su un piccolo museo che esporrà oggetti per
descrivere la storia della tribù.
La morale dunque che la
stampa americana trae è che sì, è vero, un po’ di tradizioni si
perdono, ma gli indiani stanno molto meglio di prima. È probabile
però che anche quello dei casinò, come tanti altri, si riveli un
miraggio transitorio. Intanto la gestione reale sta passando mano
mano nelle mani dei professionisti, dei signori di Las Vegas, di
Atlantic City e di Chigago, cioè della mala, di Cosa Nostra, delle
Triadi cinesi e così via. E poi i vari stati si sono accorti che un
flusso crescente di denaro gli sta scappando di mano, proprio quando
ne hanno un bisogno sempre più disperato, visto che, nella tendenza
politica reaganiana dominante, ogni politico - se vuole sperare di
vincere le elezioni - è costretto a promettere 1) un bilancio in
dello stato in pareggio e, contraddittoriamente, 2) una riduzione
delle tasse. D’altra parte, il puritanesimo imperante rende
indecenti le cosiddette «tasse del peccato» [sin taxes).
Soluzione: tutti gli stati si lanciano nella costruzione di casinos,
ma con un’ipocrisia: li fanno «galleggianti», sui fiumi di
confine tra stato e stato, in modo che non stiano sul loro
territorio. Inutile dire che questi casinos sono fatti di
cemento e stanno a un metro dalla riva: quel che importa è il ponte
simbolico. Risultato: i casinos si moltiplicano come funghi in tutti
i 50 stati, diminuendo così la redditività pro capite (prima Las
Vegas e Atlantic City godevano di una rendita di posizione, in quanto
i quasi unici luoghi dove i giocatori potevano rovinarsi). E così
anche i casinos indiani stano per essere sommersi da una
valanga di altre case da gioco. La febbre dei casinos rischia
cioè di essere altrettanto fugace della febbre dell’oro, e
altrettanto aleatoria.
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Senza contare che tutto
il benessere, tutto il miraggio che viene fatto sbriluccicare davanti
agli occhi di Mohawks, Pueblo, Navajo, Oneida, Pequot, consiste in un
lavoro di camerieri, tutt’al più di biscazzieri: e tutta la
vicenda acquista il sapore acidulo dell’ultima beffa giocata
dall’uomo bianco ai valorosi guerrieri di un tempo. Viene un
sorriso amaro a guardare questi casinos, le slot-machines e i
loro inservienti che portano nomi di popoli gloriosi e riecheggiano
eroiche vicende. La guerra dei Pequot (1637) fu uno dei primi
massacri compiuti contro gli indiani, quando questa tribù degli
Algonchini, che aveva dominato il Connecticut meridionale, fu
attaccata dai coloni inglesi per ritorsione all’omicidio di alcuni
commercianti di frontiera. La loro roccaforte vicino a New Haven fu
bruciata. Più di 500 Pequots furono uccisi, donne e bambini
compresi. Anche i Mohawks erano un popolo assai potente, alleato
dagli olandesi, talmente forte da cacciare i fieri Mohicani dalle
loro terre e da respingerli a sud nel Connecticut, accanto ai Pequot.
Fennimore Cooper (1789-1851) difficilmente avrebbe potuto descrivere
l’ultimo dei Mohicam in grembiulino bianco, a lanciare dadi sul
tappeto verde di un tavolo, attorno a cui si affollano i giocatori
che con le scarpe fanno scricchiolare senza sosta il tappeto di bucce
di noccioline americane che ricopre il pavimento.
il manifesto, venerdì 2
luglio 1999
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