Mariolino Corso |
«Participio passato del
verbo correre», perché in effetti non correva ma trottignava per
rientrare a momenti nel gioco con affondi impensati e letali; o anche
«il piede sinistro di Dio» come ebbe a definirlo sotto il sole di
un torrido pomeriggio 1961 a Tel Aviv un tecnico israeliano
abbacinato dalla maestria pittorica di quel mancino che sembrava
pennellasse; «Mandrake», perché nascondeva la palla e la faceva
riapparire come un coniglio dal cilindro o «Matto Birago» (così lo
chiamava Gianni Brera) in quanto lunatico, refrattario alla dinamica
del gioco e, finalmente, «Mariolino», vezzeggiativo con cui lo
apostrofavano i tifosi.
Nato nel veronese a San
Michele Extra il 25 agosto del 1941, cresciuto nell'Audace, ala
sinistra dell'Inter fra il 1959 e il '73, anzi della Grande Inter
guidata da Helenio Herrera, Mario Corso chiude l'ultimo endecasillabo
di una formazione («Sarti Burgnich Facchetti...» ne era l'incipit,
«Domenghini Suarez Corso» invece ì'explicit) che i ragazzi di
allora recitavano a memoria come fosse una poesia. Non gioca da
quarant'anni (chiuse la carriera con un biennio al Genoa, fra luci,
ombre e un grave infortunio proprio al piede sinistro), ha avuto
trascorsi non eccezionali da allenatore e da osservatore per la sua
Inter, eppure Corso nel ricordo degli appassionati rimane un classico
del nostro calcio, letteralmente un fuori-classe, cioè una figura di
atleta o persino di artista che l'attuale calcio formattato (lo
stesso che ha condotto sia la divisione del lavoro in campo sia
il principio di
prestazione atletica a livelli demenziali e in sostanza suicidi) oggi
arriva a ritenere un fastidioso enigma, un problema e in certi casi
un deprecabile inciampo. È noto peraltro come Helenio Herrera,
preparatore ossessivo e ligio alla dittatura degli schemi, ritenesse
Corso la più sfacciata e ondivaga smentita al credo tecnico-atletico
di cui si sentiva profeta e dunque pretendesse, ogni anno, dal
presidente Angelo Moratti la cacciata di un reprobo che, nel silenzio
glaciale dello spogliatoio, pare replicasse agli ispirati incitamenti
del Mago col sibilo della sua voce veneta e sardonica, insomma con un
Tasi mona...; è noto, altrettanto, come la cacciata del
reprobo fosse regolarmente impedita non solo dalla passione che
Moratti nutriva per il suo indocile pupillo ma anche, e soprattutto,
per la stima di un compagno di squadra che non avrebbe potuto
essergli più antipode, Luisito Suarez, un genio cartesiano che bene
intendeva la necessità, nell'automatismo degli schemi, di un simile
e sempre imprevedibile outsider.
(Non è un caso, nemmeno,
che l'idolo di Corso fosse Omar Sivori, se in una foto del '63,
scattata al Comunale di Torino prima di un acerrimo Juventus-Inter,
si vede il campione italoargentino stringere la mano a Corso mentre
con l'altra gli accarezza, con evidente affetto, il viso. Sembra un
passaggio di consegne. Intemperante, permaloso e narcisista com'era,
per Sivori non è affatto un gesto usuale: chi scrive può
testimoniare che il vecchio Omar, quasi in punto di morte, ormai
stemperate le vistose asperità del carattere, si riferiva a Corso
come a uno dei più grandi campioni con cui aveva avuto l'«onore» -
così disse precisamente - di giocare).
Ora, la parabola di Corso
è tracciata nel volume, redatto a quattro mani con Beppe Maseri, Io,
l’Inter e il mio calcio mancino (Limina, pp. 161, € 16,00).
Non si tratta di un libro-intervista e nemmeno di una biografia in
senso tecnico o storico ma, piuttosto, di un racconto autobiografico
che lo sparring sa tradurre e stilizzare nella voce della prima
persona. (Beppe Maseri, va qui rilevato, non è solo un vecchio amico
di Corso ma è un decano del giornalismo sportivo, avendo esordito
nel '73 sulle pagine del “Giorno” sotto l'egida di Gianni Brera e
- per restare alle firme calcistiche di una redazione eccezionale -,
di fianco a colleghi quali Mino Mulinacci, Gian Maria Gazzaniga,
Piero Dardanello, Gian Mario Maletto e Mario Pennacchia). La voce
narrante non tratta il decorso esterno della carriera di Corso né si
sofferma sui trionfi di una squadra leggendaria ma indugia,
viceversa, sul romanzo di formazione: la famiglia operaia, le scarpe
consumate all'oratorio e nei campetti di periferia, poi, da
minorenne, il gran salto a Milano, l'esordio fra calciatori acclamati
(per esempio Skoglund e Angelillo), il vedere la propria e
progressiva affermazione al cospetto del boom economico, mentre tutto
cambia vorticosamente all'intorno, dentro e fuori del campo da
calcio, con le luci di San Siro in notturna, le trasferte memorabili
(la prima Coppa dei Campioni a Vienna, nel '64, l'Intercontinentale
contro l'Independiente prima a Buenos Aires poi a Madrid per lo
spareggio), il riconoscimento di una classe sovrana, sia pure
prodigata a momenti e a ritmi, per così dire, ditirambici. E alcuni
paradossi lì per lì insondabili: l'ambiguo, difficile, rapporto con
la Nazionale (appena 23 presenze e 4 gol), forse spiegabile con
l'annoso dualismo tra Mazzola e Rivera che impediva la presenza di un
terzo atipico, ma resta che Corso, incredibile dictu, non ha
mai disputato un Mondiale; il fatto che lo scudetto più suo lo abbia
vinto al tramonto della Grande Inter, nel campionato 1970/71,
giocando da trascinatore e uomo squadra, correndo come non aveva
fatto mai in una irresistibile rimonta sul Milan di Rocco. D'altronde
il suo repertorio era di pochi colpi, essenziali e micidiali: il
dribbling portato da fermo, la rifinitura e talvolta la
conclusione in gol, più spesso la beffarda stoccata di un Cyrano del
football. Sua firma vera e propria era la punizione «a foglia
morta», calciata ovviamente di sinistro e preferibilmente dal
vertice destro dell'area, un colpo inferto con l'interno del piede e
capace di attivare una parabola all'apparenza molle, prevedibile, ma
di colpo spiovente e inabissata in rete. (Chi scrive ha potuto
ammirarne la bellezza plastica durante un'amichevole estiva, in
provincia, quando Corso indossava la maglia del Genoa: ancora più
stempiato e svagato del solito, leggermente appesantito, anche in
quella occasione tuttavia la foglia morta, il suo autentico coup
de theatre, non aveva mancato il bersaglio scatenando un applauso
plateale).
«Sono sempre stato una
persona timida e di poche parole», così comincia il racconto
autobiografico di Mario Corso. Nella sua svagatezza, e lo si scopre
via via , dal racconto, c'è una forte, mai esibita, emotività ed è
struggente per esempio venire a sapere come tre anni fa, la notte del
trionfo interista sul Bayern a Madrid, quest'uomo si fosse impedito
di vedere la partita in tv e si aggirasse invece nelle strade vuote
del centro di Milano, con il cuore in allarme, in attesa trepidante
di un sollievo e perciò di un boato. C'è una umanità sottaciuta,
una malinconia sottile che esce paradossalmente dalla immagine
estrosa del campione, il senso lancinante di un bene perduto
nell'Italia di oggi, quello che riesce ad associare in una stessa
persona un enorme talento e la perfetta normalità. A tutto ciò si
riferiva, fingendo di parlare dell'Italia di ieri, un analista
sociale troppo presto mancato, Edmondo Berselli, juventino di
Campogalliano, il quale aveva dedicato a Mario Corso Il più
mancino dei tiri ('96), un libro a futura memoria.
“la talpalibri alias il
manifesto”, 6 ottobre 2013
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