Il fisico Marcello Cini
fu tra i fondatori del “manifesto” e, poi, tra gli autori de
L'ape e l'architetto (Feltrinelli,
1976) un
libro sui paradigmi scientifici, che fece parlare di una “scuola
italiana” di epistemologia. Negli ultimi anni della sua vita (è
morto nel 2013) lo scienziato si applicò spesso al “rossoverde”,
al tentativo cioè di connettere la tradizione classista del
socialcomunismo e le grandi, inquietanti domande dell'ambientalismo.
L'orizzonte in cui la sua ricerca si collocava potrebbe definirsi
“riformista”, se la parola non fosse usurata dall'uso perverso
che ne hanno fatto i restauratori del dominio assoluto del capitale.
Alcune cose, in questo articolo, mi sembrano discutibili in quanto
degne di critica, ma molte altre sono discutibili in quanto
stimolanti, in quanto degne di verifiche, di approfondimenti, di
sviluppi critici. (S.L.L.)
Con il passaggio dal XX
al XXI secolo il capitalismo ha ancora una volta cambiato forma. La
conoscenza è diventata capitale
intellettuale. Ce la spiega Thomas A.
Stewart, editor della più importante rivista americana di economia
Fortune, che è
stato uno dei primi al mondo a occuparsi di come individuare,
dispiegare in modo efficace, e sfruttare quella straordinaria risorsa
costituita dal «brainpower
collettivo», cioè da «tutto quel materiale intellettuale - sapere,
informazione, proprietà intellettuale, esperienza - che può essere
messo a frutto per creare ricchezza». «Chi lo trova e lo sfrutta -
afferma categoricamente - vince». E continua: «Vince perché
l'economia di oggi differisce radicalmente da quella di ieri. Noi
siamo cresciuti nell'Era industriale. Ma questa è tramontata,
soppiantata dall'Era dell'informazione. Il mondo economico da cui
stiamo uscendo era un mondo in cui le principali forme di ricchezza
erano concrete. Le cose che compravamo e vendevamo erano, appunto,
cose: si potevano toccare, odorare, si potevano prendere a calci le
gomme e quando si sbattevano le portiere si sentiva un piacevole
tonfo. Gli ingredienti a partire dai quali si creava ricchezza erano
la terra, le risorse naturali come il petrolio, il minerale di ferro
o l'energia, e il lavoro fisico umano e le macchine. Le
organizzazioni economiche concepite per attrarre capitali - capitali
finanziari - al fine di sviluppare e gestire quelle fonti di
ricchezza ed erano bravissime nel farlo.
Si
compra e si vende il sapere
In
questa nuova era, la ricchezza è il prodotto del sapere. Sapere e
informazione - e non soltanto sapere scientifico, ma le notizie, i
consigli, l'intrattenimento, la comunicazione, i servizi - sono
diventati le principali materie prime dell'economia e i suoi prodotti
più importanti. Il sapere è quel che compriamo e vendiamo. Non si
può né odorarlo né toccarlo; persino il piacevole tonfo che fa la
portiera di un'auto quando viene sbattuta è probabilmente il
risultato di un'abile progettazione acustica. Il capitale fisso oggi
necessario per creare ricchezza non è oggi la terra, né il lavoro
fisico né le macchine utensili né gli stabilimenti: è un capitale
fatto di conoscenza».
I problemi sollevati dal passaggio
dall'economia degli oggetti materiali all'economia della conoscenza
si intrecciano con quelli che derivano dalla insostenibilità
dell'attuale processo produttivo di merci sia dal punto di vista dei
limiti della carrying capacity
dell'ecosistema terrestre (persino Bush è arrivato ad ammettere che
i mutamenti climatici possono essere conseguenza dell'uso eccessivo
delle fonti di energia non rinnovabili), sia dal punto di vista
dell'innegabile aumento delle disuguaglianze tra ricchi e poveri,
tanto a livello planetario quanto all'interno degli stessi paesi
economicamente sviluppati. Questi fenomeni hanno conseguenze sociali
dirompenti: dalle guerre per il possesso delle fonti di energia non
rinnovabili alle inarrestabili ondate migratorie, dalle crisi
finanziarie imprevedibili che mettono in ginocchio interi paesi alla
crisi dei sistemi di welfare
faticosamente costruiti nei paesi industrializzati nel corso del XX
secolo.
Il nostro paese si trova in una situazione assai
difficile. La produzione di beni di consumo individuali nei settori
industriali tradizionali è sottoposta a una concorrenza
insostenibile da parte dei paesi di nuova industrializzazione con
manodopera a costi abissalmente inferiori a quelli richiesti dal
nostro sistema produttivo per il mantenimento di un dignitoso livello
di vita dei nostri lavoratori, e una adeguata protezione sociale dei
nostri cittadini. D'altro canto, la scelta di competere sul terreno
della produzione di beni a contenuto scientifico e tecnologico
all'altezza della ricerca mondiale di punta - ammesso e non concesso
che fosse auspicabile, e mi riferisco con questo inciso alle ragioni
che sono alla base delle contestazioni dei movimenti newglobal
- è manifestamente impossibile, salvo qualche rara eccezione, per le
ridotte dimensioni del nostro sistema produttivo, soprattutto nelle
condizioni di crescente degrado del sistema della ricerca pubblica e
privata italiana.
Dalle ricette
ai contenuti
Il problema è dunque
di scendere dal piano delle ricette puramente economiche a quello dei
contenuti: cioè della discussione dei settori su cui investire le
risorse pubbliche e private necessarie per sfuggire alla tenaglia che
ci stringe. Non si può più affermare che esista una economia in
astratto che non dipende da quello che si produce e si consuma.
Politica economica, politica fiscale, politica industriale e politica
della ricerca diventano un intreccio non separabile in campi distinti
gestiti dai rispettivi specialisti. Credo che sia arrivato il momento
di riconoscere che questo è un punto fondamentale da affrontare e
discutere all'interno della sinistra, per riuscire a dare risposte
credibili ed efficaci al compito di restituire fiducia al paese e
aprire una prospettiva di sviluppo fondata su un miglioramento della
qualità della vita per tutti i cittadini.
Lo
sviluppo sostenibile
La scelta di
uno sviluppo sostenibile
non è una fissazione di ambientalisti maniaci o di moralisti con la
testa tra le nuvole da tacitare con qualche elargizione soltanto in
tempi di vacche grasse, ma è la scelta di una strada non solo
compatibile con le «leggi dell'economia», ma una via essenziale
realisticamente percorribile per uscire dal pantano in cui stiamo
affondando.
I problemi della
riqualificazione urbana e della difesa del suolo (centri urbani
degradati e alluvioni), con quelli connessi della mobilità delle
merci e dei viaggiatori (traffico in tilt, reti ferroviarie insicure
e imprevedibili), sono anche intrecciati con quelli dello
sfruttamento delle fonti energetiche rinnovabili e dell'efficienza
dei consumi energetici (lo sviluppo del solare e dell'eolico è un
decimo rispetto alla Germania), e con quelli dello smaltimento e del
riciclaggio dei rifiuti (ecomafia e industriali alleati in stretto
connubio).
I problemi di una
sanità efficiente per tutti, della prevenzione delle malattie, di
una agricoltura di qualità e di una alimentazione non
macdonaldizzata - connessi questi ultimi con la questione della
tutela della biodiversità dell'ecosistema terrestre - sono anch'essi
aspetti strettamente legati alla qualità della vita quotidiana della
gran parte dei cittadini. Soprattutto, sono problemi che hanno il
pregio di investire interessi diffusi e locali che non possono essere
affrontati importando merci a basso costo dalla Cina o tecnologie
raffinatissime dagli Stati uniti. Sono anche tutti - questo è il
punto più importante - problemi la cui soluzione apre la possibilità
di impiegare una grande quantità di lavoro qualificato, promette ai
giovani dotati di creatività e di capacità organizzative di potersi
costruire un futuro migliore di quello della fuga all'estero, e
attraverso l'investimento iniziale di ingenti risorse mirate e
selezionate, di innescare un circolo virtuoso di crescita economica
di nuove imprese competitive su un mercato internazionale che in
questi settori non è ancora dominato dalle multinazionali.
Il
mercato non giova alla ricerca
La
produzione della nuova conoscenza
necessaria ad affrontare i problemi di un'economia sostenibile non
può, in generale, essere lasciata interamente al mercato. E' George
Soros, un capitalista doc, che ce lo spiega: «Il mercato è amorale:
permette di agire secondo il proprio interesse, ma non esprime un
giudizio morale sull'interesse medesimo... Ma la società non può
funzionare senza qualche distinzione tra giusto e sbagliato. Prendere
decisioni collettive su cosa vada permesso e cosa vietato è compito
della politica».
In particolare, nel nostro paese la produzione
di nuova conoscenza non può essere lasciata al mercato anche a causa
della debole struttura della sua economia. Il capitale privato
italiano abbandona la grande industria ed è ormai da un lato
dominato da palazzinari, assicuratori e pubblicitari, dei quali
Berlusconi rappresenta il dominus
in tutti i sensi, e dall'altro è spezzettato in una molteplice
varietà di piccole e medie industrie. Nessuno investe in ricerca per
ragioni evidenti. Le privatizzazioni delle industrie di stato hanno
soltanto privatizzato i profitti e socializzato le perdite,
sostituendo le tasche nelle quali entrano le rendite di monopolio. La
ricerca necessaria per aprire la via a un'economia sostenibile deve
essere, per lo meno in Italia, prevalentemente pubblica. Cosa
significa pubblica? Significa in primo luogo che deve anteporre gli
interessi pubblici a quelli privati. Per quanto riguarda i
ricercatori, per esempio, occorre per prima cosa riconoscere la
differenza profonda esistente fra i dipendenti (o i consulenti) di
imprese private legati al segreto industriale e gli operatori degli
enti pubblici di ricerca che dovrebbero rispondere dei loro programmi
alla collettività che li finanzia, o per lo meno concordare con i
suoi rappresentanti le scale di priorità da rispettare.
Le
evidenze di rischio
I primi hanno
come dovere contrattuale quello di massimizzare i dividendi dei
propri azionisti mentre i secondi, per esempio, dovrebbero in primo
luogo esplorare a fondo le evidenze
di rischio, non ancora divenute certezze,
ma già più solide delle congetture,
che giustificherebbero l'adozione di una sospensione precauzionale
dell'immissione sul mercato dei prodotti che sono frutto delle
ricerche dei primi. Come si fa a non stupirsi nel constatare che la
elementare norma di correttezza civile, oltre che giuridica, secondo
la quale controllori e controllati non possono essere le stesse
persone, non vige all'interno della scienza? Oggi molti scienziati di
grido sono al tempo stesso consulenti delle multinazionali o
addirittura azionisti delle industrie di punta e al tempo stesso
membri delle commissioni governative che dovrebbero certificarne i
prodotti dal punto di vista dell'efficacia e della sicurezza. In
secondo luogo, ricerca pubblica significa ricerca che deve mettere i
risultati ottenuti a disposizione di tutti i privati che intendono
investire capitali nella trasformazione di questi risultati in
prodotti vendibili sul mercato.
La
conoscenza fruibile
Le modalità di
questa messa a disposizione possono essere diverse, ma l'importante è
che scopo della ricerca pubblica non può essere quello di competere
sullo stesso terreno di quella privata per il conseguimento di
brevetti di conoscenza confezionata in forma di merce da immettere
sul mercato. La conoscenza ottenuta con fondi pubblici deve essere
fruibile da tutti. E' ancora George Soros che scrive a questo
proposito: «L'espressione "proprietà intellettuale" è
fuorviante, perché si basa su una falsa analogia con la proprietà
tangibile. Una caratteristica essenziale della proprietà tangibile è
che il suo valore deriva dall'uso che ne fa chi la possiede, ma la
proprietà intellettuale trae il suo valore dall'uso che ne fanno gli
altri: gli scrittori vogliono che il loro lavoro sia letto e gli
inventori che sia utilizzato.... L'istituzione di brevetti e diritti
di proprietà intellettuale ha contribuito a trasformare l'attività
dell'ingegno in un affare, e naturalmente gli affari sono mossi dalla
prospettiva del profitto. E' lecito affermare che ci si è spinti
troppo oltre. I brevetti servono a incoraggiare gli investimenti
nella ricerca, ma quando scienza, cultura e arte sono dominate dalla
ricerca del profitto, qualcosa va perduto».
il manifesto 2005.08.24
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