Roma, il Ponte Molle o Ponte Mollo |
Dio ha maledetto Roma
Capitale? Il dubbio che una divina jettatura pendesse sull'Urbe
nacque appena due mesi dopo il fatidico 20 settembre 1870: le acque
giallastre del Tevere sfondarono gli argini a Ponte Molle e nella
città bassa, irruppero attraverso Porta del Popolo nel centro
storico, quasi a lavare l'onta inflitta dall'Italia laica al
millenario privilegio papale. Fiorì allora sui fogli "neri"
e sulla bocca di beghine, bigotti, semplici popolani, la leggenda
della "maledizione divina" su Roma italiana. Il governo di
Sua Maestà provvide poi - con una certa flemma - a bloccare il
flagello delle inondazioni, fortificando gli argini del Tevere.
Nondimeno una qualche sorta di malocchio continuò a incombere sulla
città, tanto da indurre già Ricasoli a chiedersi se vi fosse
"dunque in questa Roma una fatalità, che deve rendersi
maledetta per l'Italia".
Fatto è che l'idea di
Roma - suprema missione unitaria che appassionò i più diversi
esponenti del Risorgimento, da Cavour a Mazzini, da Garibaldi a
Gioberti - per l'Italia è restata un mito astratto. La crescita
della Capitale è una vicenda di continui fallimenti di Stato e
Comune nel tentativo di orientarla secondo un progetto. È ormai più
di un secolo che Achille - la mano pubblica - s'affanna sulle tracce
di un'inafferrabile tartaruga - la speculazione privata. Di questa
corsa a handicap cominciamo qui a tracciare una cronaca certo non
esaustiva, sperando di illuminare, attraverso alcune storie
esemplari, cause e meccanismi di una "fatalità"
nient'affatto "celeste".
Converrà anzitutto
tenere a mente che la Roma finalmente ricongiunta alla patria non ha
nulla delle grandi capitali europee. Non gli ampi boulevards e
i moderni palazzoni ministeriali, non le industrie con l'annesso
squallore degli slums. Roma sorge come una gigantesca fattoria
in una campagna malsana e paludosa. Scrive un testimone del tempo:
"Di notte il silenzio della Città Eterna è punteggiato di
continuo dal canto dei galli, da ragli di asini e belati di pecore.
Pare d'essere in una città d'agricoltori, e questa impressione è
largamente confermata di giorno, dai branchi di pecore e di capre che
lasciano chiari segni del loro passaggio anche nelle strade
principali". Ancora nella seconda metà del secolo la malaria
miete le sue vittime ben dentro la cinta d'Onorio, a piazza del
Popolo, al Colosseo, al Viminale.
Roma è rimasta, grosso
modo, quella del Seicento, divisa come ai tempi di Nerone in
quattordici rioni. Duecentomila abitanti s' accalcano a Borgo, a
Trastevere e nell'ansa del Tevere tra piazza del Popolo e il Circo
Massimo. Il viandante che s'avventura per le anguste strade cittadine
resta stordito dal contrasto fra il fascino dei monumenti e lo stato
di abbandono delle case e delle vie, meandro inestricabile e spesso
impraticabile. Il marciapiede è considerato un lusso transalpino;
quei pochi esistenti sono in verità trappole per pedoni distratti,
essendo sistemati su dislivelli di un metro e più che si aprono come
baratri davanti ai piedi dei passanti. L'esiguo traffico di carri,
botti o sgangheratissimi omnibus ippotrainati s'ingolfa
improvvisamente intorno al Corso, che le colonnette patrizie,
irrinunciabile simbolo di dignità araldica, riducono a un
accidentato percorso di slalom speciale. Il fondo stradale è evocato
dalle cronache come uno strumento di tortura che "storpia chi si
attenta a muovervi un passo, taglia il tomaio delle scarpe, graffia
ed iscorza le vernici delle ruote e, penetrando fra i quarti delle
unghie dei cavalli, azzoppa e fa barcollare le povere bestie".
La Gazzetta di Firenze annota malignamente che se i piedi potessero
votare per la Capitale d'Italia, certamente non eleggerebbero la
Città Eterna.
E le case? Se escludiamo
i palazzi in pietra degli aristocratici, esse offrono un colpo
d'occhio ben misero. Sembrano tante casupole di campagna addossate
l'una all'altra dalla mano di un architetto cieco o folle. Luride e
spesso fatiscenti, emanano un insopportabile lezzo di cavolo -
prodotto dall'abbondante uso di erbe cotte, tipico della dieta
romanesca - il quale a suo tempo ispirò a Stendhal appassionate
invettive contro le abitudini igieniche dei quiriti. In questa Roma
attardata convivono blandamente alto clero e plebe indigente, nobiltà
e piccolissima borghesia. La gran parte dei romani vive d'espedienti,
fra la certezza della broda elargita dagli ospizi di mendicità e la
chimera d'una vincita al lotto, la via più corta dalla miseria alla
ricchezza. Il solo ceto vagamente assimilabile alla borghesia
mitteleuropea è quello dei "mercanti di campagna", gli
affittuari del latifondo pontino. Tolta una manciata di botteghe di
fabbriferrai che in qualche statistica assurgono al rango di
industrie, e quei pochi lanifici che fino al 1870 vegetano dietro lo
scudo dei dazi pontifici, non v'è traccia d'industria. Roma sembra
dar ragione ai suoi più astiosi avversari, per i quali la città è
destinata a vivere alle spalle del mondo, "prima con la preda,
poscia con lo scrocco".
Per Roma l'arrivo degli
italiani è una rivoluzione. Un equilibrio secolare è stravolto.
Mentre Pio IX si esilia nei palazzi vaticani, donde scaglia anatemi
contro i "figli di Belial", "rappresentanti della più
velenosa bava d'inferno", in città si riversa un' orda di
"buzzurri", soprannome non benevolo (significa "venditori
di castagne") con cui i popolani designano i loro liberatori. Da
Firenze arrivano a migliaia gli impiegati dello Stato. Dall'alta
Italia accorrono commercianti, finanzieri, speculatori, attratti dal
miraggio di una nuova capitale da costruire. Dal Mezzogiorno ecco
premere un esercito di braccianti, accattoni, avventurieri, avvocati.
Roma è un sogno a buon mercato, una promettente California. L'ondata
d'immigrazione triplica in poche settimane il prezzo degli affitti.
Il Comune è costretto a requisire financo i fienili. Cantine e
sottoscala vengono disputati come alberghi di lusso. Un foglio locale
segnala che all'albergo della Ghiffa, a piazza Montanara, si spendono
pochi centesimi per dormire "con tutt'er comido", cioè
soli in un letto, e quasi nulla per un materasso sul quale nel corso
della notte possono adagiarsi altre due persone. I meno fortunati
s'accomodano a frotte sulla scalinata di Santa Maria Maggiore, in
aperta campagna, buscandovi le febbri.
Che ne sarà di questa
città arretrata e infida? Raggiunta infine la meta dei padri del
Risorgimento, l'"arca del nostro patto", l'"ara del
nostro dritto", gl'italiani s'accorgono di non saper bene che
farne. Un uomo solo - un "alpinista solitario", come ama
definirsi - sembra avere le idee chiare: Quintino Sella, industriale
di Biella, intellettuale e uomo di governo fra i maggiori della
Destra storica. La sua voce parla alto: "Non è soltanto per
portarvi dei travet, che noi siamo venuti in Roma!". Roma
è per Sella sinonimo di civiltà e di progresso; l'Italia ha
emancipato la sua capitale dal dominio clericale per farne il centro
della scienza. "La scienza per noi a Roma è un dovere supremo",
proclama lo statista piemontese. "Fuori i lumi! Fari elettrici
anzi devono essere, imperocchè abbiamo a che fare con gente che si
chiude gli occhi e si tappa le orecchie, abbiamo a che fare con gente
che vuol pigliare i giovani fin dall'infanzia, avviarli alle proprie
scuole secondarie e poi vuol dare a costoro i più alti uffici che si
possano affidare all'umanità". Dunque è chiaro: occorre
costruire ex novo "una Gran Roma italiana che faccia equilibrio
a Roma papale".
In termini urbanistici la
direttiva selliana significa edificazione di nuovi quartieri sui
colli, soprattutto Esquilino e Viminale (qui devono sorgere i grandi
centri di ricerca scientifica), e nell'area intorno a via Venti
Settembre, modernamente concepita come "asse attrezzato"
lungo il quale si scaglioneranno i ministeri. Simbolo della nuova
capitale è l'enorme palazzo del ministero delle Finanze, vero tempio
della burocrazia, innalzato per volere di Sella a pochi passi da
Porta Pia. A perenne monito contro le mire reazionarie del clero
temporalista, Sella suggerisce di erigere nel cortile del palazzo un
monumento al centurione romano, che piantando l' insegna esclami:
"Hic manebimus optime!".
L'utopia selliana di Roma
"cervello supremo della nazione", città della burocrazia e
della scienza, non inquinata da una "soverchia agglomerazione di
operai che considero pericolosa e sconveniente", è troppo
astratta per resistere all'assalto dell' immigrazione di massa e
della speculazione fondiaria. Il piano di Quintino Sella sarà
travolto, proprio quando cominciava a realizzarsi, dall'espansione
indiscriminata dell'edilizia privata, vera padrona di Roma. Ben prima
che il Comune possa varare nel 1873 il primo piano regolatore, la
febbre edilizia comincia a stravolgere il volto della città. La
grande finanza internazionale, piemontese, toscana, si getta alla
conquista dei terreni. Nascono nuovi imperi finanziari.
La Compagnia Fondiaria
Italiana diventa nel 1875 proprietaria di un terzo della superficie
compresa entro le mura urbane, estendendo i suoi possedimenti intorno
all' Esquilino e a Porta Pia. Qui sorgono i primi "casermoni",
mastodonti di cinque-sei piani destinati agli impiegati ministeriali.
La Italo-germanica si accaparra centomila metri quadrati al Castro
Pretorio e ai Prati di Castello, dove ha grossi interessi anche la
Banca di Credito romano. Non più di sei o sette gruppi capitalistici
monopolizzano in breve il mercato dei suoli e degli immobili. Il
Comune cerca di regolare la spinta all'urbanizzazione "selvaggia"
col sistema delle convenzioni, che in teoria dovrebbe basarsi sul
reciproco vantaggio: il municipio appalta terreni, concede incentivi,
provvede a costruire strade, fogne, condutture di acqua e gas, e ne
affida l'edificazione a imprese private, che costruiscono, secondo i
loro tempi e le loro necessità, case a reddito continuo.
Un'immagine del Porto di Ripetta nel 1887, poco prima della fine |
Quanto al piano
regolatore, vale poco più di un pezzo di carta. A che serve
accennarvi uno schema di sviluppo urbano monodirezionale, indirizzato
sui quartieri alti, quando la stessa giunta approva un ordine del
giorno in cui il piano regolatore è ridotto a "piano di
massima", mentre si avverte che "il Consiglio si riserva di
discutere partitamente ogni tratto di lavoro allorquando verrà
l'opportunità dell'esecuzione"?
Mentre il Campidoglio "si
riserva" o deve fare i conti con sedicenti architetti che,
fiutata la possibilità di guadagno offerta dalle necessità di una
nuova capitale, si lanciano in ardite proposte come quella di
impiantare la Camera dei Deputati al Colosseo, coprendolo con una
volta di cristallo, le imprese immobiliari spadroneggiano. Non è
ancora entrato in vigore il piano regolatore, e già il Comune ha
firmato sette convenzioni per quartieri localizzati al di là delle
mura cittadine. La partita decisiva tra gruppi privati e pubbliche
istituzioni si gioca sulla riva destra del Tevere, attorno a un
terreno melmoso invaso da ortaglie e vegetazione spontanea, incassato
fra Monte Mario e la fortezza di Castel Sant'Angelo: i Prati di
Castello. Un consorzio di finanzieri di Francoforte, Amsterdam,
Vienna, Torino, Napoli e Roma vi ha subito individuato il cuore della
futura città e ha acquistato a prezzi agricoli quell' area paludosa.
Nel 1872 l'architetto Cipolla presenta su incarico del consorzio il
progetto di un grande quartiere residenziale, solcato da un boulevard
che dovrà collegare Piazza del Popolo a Piazza San Pietro,
sventrando il Borgo. Due ponti collegheranno il nuovo quartiere al
centro storico. Stato e Comune si incaricheranno di rafforzare gli
argini del Tevere per impedire le inondazioni. Accogliere questo
progetto significherebbe stravolgere l'idea dello sviluppo
unidirezionale verso Est, sostenuta dai proprietari di quelle aree,
da Sella e dalla maggior parte dei pubblici amministratori. La
commissione tecnica del Comune si orienta perciò a riservare i Prati
di Castello per "grandi piazze, fiere di bestiame, ippodromi,
mercato di commestibili, locali di pubbliche esposizioni,
stabilimenti di bagni e cose simili". Sulle pendici di Monte
Mario si progetta addirittura un "Tivoli", un enorme Luna
park servito da una funicolare.
La contesa fra
"prataroli" e "monticiani" (i fautori dello
sviluppo sui colli) è anche l'occasione di un'aspra disputa
politico-ideologica. A favore di Prati si schierano i liberali
radicali, i mazziniani, gli anticlericali intransigenti, Garibaldi in
persona. Costoro vedono nel futuro quartiere borghese a ridosso di
San Pietro una sfida laica contro il "papa prigioniero".
Lì, a un passo dai sacri palazzi, l'Italia moderna costruirà un
Palazzo di Giustizia, emblema della civiltà liberale, monito contro
le velleità temporaliste del clero. Campione di questo partito è
dal 1872 il sindaco Luigi Pianciani, democratico mazziniano, che non
perde occasione per denunciare l'oppressione spirituale del "prete".
Per contro la stampa clericale e l'opinione pubblica moderata
considerano la riva destra del Tevere un "cuscinetto" fra
Italia e Vaticano, fra la Roma tuttora devota al papa re e i
"buzzurri" che si stanno installando nei quartieri alti. Lo
scontro resta impregiudicato per lunghi anni. Il piano regolatore del
1873 esclude in via di principio l'edificazione dei Prati, salvo
prevedere per essi un "piano speciale di ampliamento". Il
progetto Cipolla è respinto dal Consiglio comunale perché "astratto
e quasi speculativo", come con raffinata ambiguità s'esprime un
membro della giunta. È chiaro che la riva destra del Tevere non
potrà accogliere in eterno paludi malariche e piante selvatiche, ma
la prassi pilatesca del Comune facilita l'urbanizzazione "spontanea"
pilotata dai trust finanziari. Non scegliendo il Comune, scelgono
infine i privati, i quali non acquistarono certo 65 ettari di terreno
edificabile per coltivarvi broccoli o cavoli. E allora, siccome in
Prati non sarà possibile costruire nulla fintanto che non sarà
possibile un collegamento diretto con la sponda sinistra, i
proprietari delle aree perdono la pazienza: nel 1878 costituiscono
una società-ombra e affidano alle officine Cottrau di Napoli la
costruzione di un ponte di ferro a Ripetta.
Prima, i romani che
avessero voluto attraversare il Tevere a quell'altezza non
disponevano che della celebre barca di Toto, mitico fiumarolo che
deteneva il monopolio dei traghettamenti in quel tratto d'acqua. Da
tempo immemorabile Toto trasportava al di là della corrente i pochi
romani che s'avventuravano nella selva di Prati. Solo la domenica il
traffico s'infittiva: borghesi e ministri, aristocratici e popolani
s' imbarcavano su quel barcone a fondo piatto per guadagnare le
osterie suburbane e gustare le "fittuccine al pomidoro", il
pollo spezzato "alla padella" o l'abbacchio alla
cacciatora. Il ponte di ferro spazza via Toto e, quel che è più
grave, l'antico porto di Ripetta. La via ai Prati è aperta. In pochi
anni sorge dal nulla un quartiere residenziale per decine di migliaia
di abitanti. E' la fine dell'espansione orientata solo verso Est.
D'ora in avanti Roma crescerà sempre intorno al suo centro antico, a
macchia d' olio.
la Repubblica,18 novembre
1984
Nessun commento:
Posta un commento