20.6.15

Sylvia Plath. La fatidica estate del 53 (Elisabetta Rasy)

Sylvia Plath (1932-1963)
L'autrice, la saggista e poetessa americana Elizabeth Winder, mette subito le mani avanti: «Questo libro è un tentativo di smontare il cliché della Plath artista maledetta». Per lei, la giovane Sylvia Plath, di cui vuole fare il ritratto, era «una persona vulnerabile e giocosa, che amava lo shopping quanto la lettura», una ragazza pazza per l’abbronzatura, i tubini neri e le scarpe décolleté di tutti i colori. Ma il suo interessante racconto-inchiesta La grande estate. Sylvia Plath a New York, 1953 raggiunge davvero questo obiettivo? Era proprio così giocosa quella ragazza con i capelli biondi alla June Allyson e il rossetto Revlon Cherries on th snow, cioè ciliegie sulla neve?
Tornare a indagare, dopo fiumi di pagine scritte, sull’icona della poetessa americana suicida a 31 anni in un buio appartamento londinese, con due figli piccoli nella stanza accanto, consegnata al mito da questo gesto forse ancora di più che dai suoi meravigliosi versi, non è un’impresa facile. Winder però ha trovato una strada inedita e interessante: è andata a ripescare le ragazze che hanno condiviso con Sylvia l’avventura newyorkese che fu sicuramente uno degli eventi memorabili della sua vita e alla quale otto anni dopo consacrò buona parte del suo unico romanzo, La campana di vetro, pubblicato all’inizio del 1963, solo un mese prima della sua morte volontaria. Le ha intervistate, ha frugato nei loro ricordi, li ha collegati alle lettere familiari di Sylvia, (ora Guanda ripubblica quelle destinate alla madre: Quanto lontano siamo giunti) e ai suoi diari, poi ha miscelato questo materiale con l’atmosfera, la cultura, la vita materiale del periodo e ha realizzato una sorta di backstage, un appassionato dietro le quinte del romanzo, ma soprattutto un affresco interessante e animato della New York al femminile degli anni Cinquanta, quegli anni in cui tutto stava cambiando ma ancora non cambiava. Tutto sarebbe successo un attimo dopo, nei Sessanta: il movimento per i diritti civili, il femminismo, la pubblicazione di quel rivoluzionario saggio di Betty Friedan, La mistica della femminilità, che spiegava alle casalinghe disperate dell’epoca le ragioni della loro disperazione e offriva un’arma per una vita migliore alle ragazze che si affacciavano alla società.
Il cambiamento dunque è nell’aria, ma non c’è ancora quando comincia per la ragazza Plath l’avventura o il sogno (tale lo considerava lei stessa : «Ho sognato New York e sto per andarci») dell’estate newyorkese. La mattina del primo giugno 1953 Sylvia e le altre diciannove ragazze presero alloggio nell’elegante hotel Barbizon, all’angolo tra Lexington Avenue e la Sessantatreesesima Strada, il cuore della city che conta. Erano state scelte per tre settimane di praticantato dalla rivista «Mademoiselle» che ogni anno ad agosto dedicava un numero alla vita nel college. «Mademoiselle non era una rivista come le altre e Winder» lo spiega molto bene: ammirata per il suo stile e famosa per aver pubblicato inediti di Truman Capote, William Faulkner, Tennessy Williams e Flannery O’Connor, era rivolta a una lettrice «perfettamente adatta al college, alla carriera o ai cocktail» - anche se quanto alla carriera, racconta una delle ex praticanti di quel ’53, per una ragazza che volesse lavorare a quel tempo la strada era ancora soprattutto quella della segretaria o della stenografa. «Mademoiselle» aveva un taglio diverso dal rigoroso e raffinato «Vogue» o dal sofisticato e filoparigino «Harper’s Bazaar»: sulle sue pagine si vedevano ragazze che rispondevano al telefono, andavano in bicicletta, consultavano libri, non solo bellezze in posa. Anzi, le modelle erano di due tipi, le inarrivabili statuarie professioniste delle passerelle e qualche indossatrice per caso, la tipica ragazza carina della porta accanto, un nuovo tipo di beauty che un’intellettuale come Mary McCarthy si affrettò a definire “immatura in modo quasi doloroso”.
Le praticanti selezionate dovevano attenersi auna disciplina mondano-professionale molto rigida: dovevano sempre «portare guanti, orecchini accettabili, cappello elegante e, mai e poi mai, scarpe bianche». Quanto alla loro giornata, era una frenetica alternanza di sfilate, interviste ad autori (Sylvia sperava in Dylan Thomas, le capitò Elizabeth Bowen), sessioni fotografiche, giri in città, lavoro redazionale, e parties, un mare di parties (il titolo originale del libro è: Pain, Parties, Work), oltre, naturalmente, molti corteggiamenti invariabilmente inconcludenti. Proprio in quell’inizio dei Cinquanta a New York c’era un fenomeno nuovo: la città si stava riempiendo di ragazze giovani che sognavano una vita diversa da quella della casalinga. Diversa? Fino a un certo punto. Dichiara all’epoca una praticante della rivista: «Come gruppo ci auguriamo di conciliare il matrimonio (e almeno tre bambini) con la carriera».

E Sylvia, come se la cavava Sylvia in quella euforica estate? Malgrado la passione per lo shopping e per i rossetti scarlatti non troppo bene, si direbbe proprio a leggere il libro di Winder, e non solo perché poco tempo dopo il ritorno a casa da New York, il 24 agosto di quello stesso 1953, tentò il suicidio. In quel giugno lei, che fin da piccola non aveva mai tralasciato di tenere un accurato diario, scrisse solo una nota, e la dedicò non alla vivace vita sociale della città ma alla esecuzione dei coniugi Rosenberg considerati spie comuniste: «Nessun grido, nessun orrore, nessuna grande rivolta. (...) Il massimo di reazione emotiva degli Stati Uniti sarà un ampio sbadiglio democratico, superannoiato, noncurante e soddisfatto». Le sue colleghe di «Mademoiselle» hanno confessato a Winder che all’epoca non sapevano neppure chi fossero i Rosenberg. A sua madre Plath aveva scritto: «La vita si svolge così intensamente e in fretta che qualche volta mi domando chi sono io». Ma lo sapeva benissimo: lei era una poetessa, e benché fosse giovane e seducente e amasse le gonne aderenti e i tacchi a spillo, i parties e tutto il glamour di New York non potevano allontanarla dalla sua strada, con tutto il suo fulgore e il suo dolore.

"Il Sole 24 ore - Domenica", 22 marzo 2015

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