Arrigo Benedetti, nato a
Lucca nel 1910 e cresciuto alla scuola del Longanesi di “Omnibus”
e tempratosi nell'antifascismo della lotta partigiana, fu inventore e
primo direttore di due grandi periodici dell'Italia Repubblicana:
“L'Europeo” e “L'Espresso”. Lavorò in grandi giornali come
“La Stampa” e il “Corriere della Sera”, con altri collaborò
e diresse “Il Mondo” settimanale negli anni Settanta. Morì nel
1976 direttore di “Paese Sera”. Cultore di letteratura e
scrittore in proprio di discreti romanzi, pubblicò il saggio che
segue nel 1975, centenario della morte di Boccaccio su “Il Mondo”.
(S.L.L.)
Giovanni Boccaccio nel ritratto di Andrea del Castagno |
Nel primo giorno
d’inverno di quel 1375 quando era già cominciata la guerra tra i
fiorentini aiutati dai Visconti e papa Gregorio XI, Giovanni
Boccaccio s’avvide, meravigliandosene, d’essere indifferente a
tante cose che l’avevano un tempo emozionato. Neanche gli premeva
più prevedere l’esito d’un conflitto al quale nell'estate scorsa
aveva pensato così spesso.
Firenze aveva già scelto
gli «Otto di guerra e di balia» che, tutti insieme, alla guerra,
avrebbero dato un soprannome, come se alle arti militari e
diplomatiche aggiungessero la virtù della santità. Le notizie della
«guerra degli otto santi», da luglio in poi, erano giunte a
Certaldo sempre più ambigue. Il fratello e i nipoti non ne parlavano
quasi mai con lui infermo. Lo spiavano; i suoi sessantatré anni
erano considerati tanti, a quei tempi. I parenti si stupivano che
sopravvivesse un uomo sul quale gli acciacchi avevano lasciato il
segno. Non desideravano la sua morte; la consideravano ovvia.
Nei mesi precedenti
quella penosa estate e quel doloroso autunno, ogni tanto lui aveva
lasciato che la speranza l’invadesse di nuovo. L’immaginazione
cancellava la vecchiezza e il ricordo della malattia che gli aveva
dato le maggiori sofferenze: l’obbrobriosa scabbia. Anche quando la
schifosa malattia l’aveva umiliato, i medici tante volte irrisi
dalla sua penna, e dei quali davvero non si fidava, gli avevano dato
qualche sollievo. Forse avevano esorcizzato l’immagine della morte
da cui la notte nelle lunghe veglie era stato atterrito. Ora, invece,
quella che s’accorgeva essere stata la compagna invisibile della
sua vita gli sembrava personificarsi in immagini sempre meno
sfuggenti. Da quando, al principio del ’75 aveva interrotto la
«lectura Dantis» e aveva lasciato Firenze per andare a nascondersi
a Certaldo l’avversaria della vita diventava sempre più visibile
ai suoi occhi stanchi.
Il viaggio di ritorno era
stato triste a confrontarlo — e il paragone era inevitabile — con
quelli fatti per recarsi ad Arquà. La trepidazione di allora era per
sempre svanita. Ora Francesco lo guardava dall’aldilà, dove
l'aveva preceduto. La morte d’un amico ammirato fino al parossismo
può, pur se non si ha il coraggio d’esserne coscienti, dare un
sollievo. Invece, il Petrarca seguitava a essere presente e a
leggergli negli occhi i segreti pensieri, come gli pareva avesse
fatto sempre, quando era vivo.
Un tempo, viaggiare era
stata una felicità, come quando partiva da Firenze per le sue
ambascerie ad Avignone, a Venezia; o come quando correva verso
Napoli, convinto di trovarci il calore perduto della sua giovinezza,
trascorsa laggiù non per impratichirsi nella succursale che vi
avevano i Bardi, un centro finanziario da cui gli era venuta un' idea
esaltante dell’Oriente, ma per scoprire fino a quale punto la vita
possa essere gradevole, specie a confrontarla a quella conosciuta
sull’Arno. Ora che, per ragioni di salute, aveva deciso di
soggiornare a Certaldo, non provava la commozione affettuosa delle
altre volte.
Era innegabile che gli
paresse d’avere fatto un viaggio senza ritorno. Si sentiva uguale
al lavoratore della campagna che, dopo una giornata faticosa, si
corica. Distendersi nel letto, lasciare che immagini del passato
fluissero, era un piacere attenuato da quella presenza inevitabile.
La compagna crudele della sua esistenza ormai non aveva più il volto
velato. Era stato un errore raccontare casi galanti, comici,
cavallereschi, perfino tragici. Nel giorno in cui, d’inverno, quasi
un anno prima, aveva iniziato il viaggio nel Valdarno, con l’idea
futile di tornare a casa a ritemprarsi, mentre le ruote frangevano il
fango gelato, il ricordo musicale di una prosa in cui aveva nascosto
tutto se stesso, lo aveva ristorato più del mantello nel quale era
avvolto. I periodi gli risuonavano armoniosi nelle orecchie; a
ripensarci, era stato straordinario abbandonarsi all’empito che
trasformava la narrazione, e gli aneddoti di cui era materiata, in
un’onda musicale. Poi, deluso dal tepore della primavera, dal caldo
dell’estate, il gelo dell’inverno l’aveva aggredito. Non
fingeva più; sapeva che il male non avrebbe potuto più essere
vinto; le sue labbra borbottavano preghiere.
Il ricordo del testamento
fatto già nel ’72 e nel '74, un atto che più dei medici gli era
parso esorcizzare la morte, fino a impedirle d’entrare nel cerchio
di luce che l’avrebbe resa definitivamente visibile, a tratti lo
consolava. Riandava con la mente a quando negli anni scorsi, il
consiglio del comune di Firenze aveva confermato l’obbligo doveroso
d’onorare Dante. Tanti i voti favorevoli, e l’onore sembrava
rivolto più a lui che al maestro, salito nel frattempo così in
alto. In occasione della prima solenne lettura, un 23 ottobre,
domenica, nella chiesa di Santo Stefano, si era quasi sentito impari
all’impegno conferitogli. Il denaro che gliene veniva era stato
tuttavia rassicurante. Non c’era stata grettezza in quel suo intimo
compiacimento. D’ora in poi, non avrebbe più venduto campi nella
pianura che divide il colle turrito di Certaldo, dall’altro, ancora
più irto di torri, di San Gemignano. Eppoi, diventava possibile un
nuovo viaggio a Napoli, dove gli sarebbe stato facile ristabilirsi in
salute.
A tratti pensava, non con
orrore ma con tristezza, all’opera che di là dalle previsioni gli
aveva dato una popolarità, attesa invece da composizioni letterarie
e poetiche più nobili. A tratti, sorrideva ripensando agli scrupoli
di Pietro Petroni che morendo in odore di santità gli aveva chiesto
di distruggere il Decameron, l’opera da cui, come era
successo a decine di migliaia di lettori, ora gli venivano immagini,
simili a ricordi di un'esistenza davvero vissuta. Tutto si chiariva.
Lui non era stata persona adatta agli uffici, come quando l’avevano
messo a capo di quello per il reclutamento militare, certo in vista
delle novità possibili, ora che Carlo IV scendeva dalle Alpi.
La sua stessa condizione
di chierico, da quando Innocenzo VI aveva concesso a lui bastardo
(che per casato aveva il patronimico invece d’esumare quello della
famiglia, 1’antico Ardovini dei Bertaldi), la dispensa per prendere
almeno gli ordini minori, certe volte gli pareva assurda.
In quella debilitazione
che aveva un che di molle, il ricordo di Napoli era una dolce
consolazione. Vi aveva passato la gioventù prima dei grandi
fallimenti. Gli splendori francesi l’avevano incantato. Le donne
bellissime, dalle quali aveva tratto il volto di Fiammetta, e forse
addirittura quello di Maria d’Aquino, la sua Beatrice, l’avevano
fatto tremare. Mai come allora si era sentito socialmente infimo.
Occorreva ricostruirsi; l’incertezza delle sue origini gli eccitava
l’immaginazione. Anche Maria era una bastarda ma di sangue reale, e
gli era facile supporre che il babbo, nel suo soggiorno parigino,
avesse avuto relazioni altrettanto nobili. C’era di che compatirsi
ripensando al modo con cui aveva tentato di cancellare la maternità
toscana.
La realtà si sfaceva. La
grandezza mondana dell'amico Nicola Acciaiuoli, che tante porte gli
aveva schiuso a Napoli, l’ingiusto lauro toccato a Zenobi da
Strada, la stessa supremazia di Francesco, da cui s’era sentito
schiacciare più volte, anche quando aveva fatto un viaggio per
vantarsi di sapere il greco, svanivano. Sorrideva dei suoi tormenti
immaginari; del suo innalzarsi con la menzogna; del suo avere
supposto di conquistarsi onore con le opere che avevano un accento
alto.
I tempi diventavano
tristi. Coluccio Salutati, il cancelliere, quando era venuto a
trovarlo fino a Certaldo gli era parso portare con sé un’onda di
gelo. L’ospite gli aveva descritto il mondo come una valle di
mestizia. L’aveva convinto della supremazia del latino, e non di
quello classico da lui rinvenuto con ostinazione in testi rari, ma
dell’altro così com'era andato trasformandosi nelle cancellerie
laiche ed ecclesiastiche. Una nuova letteratura latina s’affermava.
Impossibile confidarsi con l’amico più giovane, dirgli quale
musica aveva sentito uscirgli dalla penna nel raccontare in volgare
casi che avevano come teatro Firenze, Napoli, la Sicilia, le isole
del Mediterraneo, il Levante; insomma, il mondo.
Per fortuna, il discorso
era caduto sul Corbaccio, e non avrebbe sperato che il dotto
cancelliere avesse capito il senso del romanzo, nel quale a volte gli
pareva avere messo tutta la sua rabbia e tutta la sua tristezza.
Avevano parlato del posto che la religione deve aver nella società.
Quando lui gli aveva chiesto qualcosa del suo De vita associabili
et operativa, l’ospite era parso turbato.
Quel giorno di dicembre,
Giovanni della Tranquillità è possibile che a tratti sia stato
consolato da ricordi, a tratti depresso fino alla disperazione. «Così
dunque visse ser Ciappelletto di Prato e santo divenne, come avrete
udito...». Il terrore nel risentire la forza della sua arte lo
vinse; qualcosa doveva pur esserci in lui della doppiezza di ser
Ciappelletto, della sua empietà. Dov’era il senso di libertà che
gli dava cogliere la malizia, la magnanimità, la comicità del
prossimo? Poi si consolò pensando che era stato umano non negare a
ser Ciappelletto la possibilità d’essere « beato nella presenza
di Dio... » il quale poteva avere avuto misericordia d’un così
nero peccatore. A lui, nelle sue ultime ore, gli pareva di
assomigliare.
A sei secoli dalla sua
morte, si è incuriositi dalla contraddizione del Boccaccio. Si vide
in lui l’uomo che liquida il passato nella beffa. Ma il Medioevo
non fu un castello che i fiorentini potessero assalire nelle valli
appenniniche, per stare all’immagine di Carducci. E’ qualcosa che
coesiste con noi. Anche De Sanctis definisce il Boccaccio uomo nuovo
che supera un’epoca; definizione che non persuade, anche se
sappiamo quali fermenti vi fossero nel secolo XIV. Vorremmo capire di
più, difenderci dalle illusioni, violare il segreto d’un grande
scrittore che in un’ora felice seppe guardare la realtà senza
pregiudizi, rivelandocene la sostanza magari senza accorgersene. La
massa dei suoi lettori — e per quei tempi erano davvero tanti —
si sentì riflessa nel Decameron e gli parve d’essere
liberata da un intrico di certezze che smettevano d’ essere tali.
E’ in questo senso che
semmai il Boccaccio usciva dal Medioevo, cioè nell’esprimere
l’insofferenza della società civile per qualcosa che non appariva
più vitale. I rapporti tra gli uomini cambiavano e anche quelli tra
l’umanità e il cielo. Il Boccaccio fu moderno anche nelle opere
che non si leggono più. Nell’ Elegia di Madonna Fiammetta
raffigura, lo volesse o no, una donna diversa da quella dataci dagli
stilnovisti. Tuttavia lo scrittore non s’è ancora accorto del
mondo diverso che ha intorno. Nella maturità, cioè superati i
quarant’anni, lo scopre e accompagna la descrizione d’una società
nuova e dei residui di quella ormai trasfigurata dalla memoria,
valendosi di un forte senso d’insofferenza e quindi d’una certa
libertà.
Beatrice non è più
sacra; nella realtà politica c’è Caterina da Siena; in quella di
tutti i giorni, ci sono donne non più angelicate, piccole borghesi
adultere, monache peccatrici, dame superbe, disumane, desunte dalla
letteratura cavalleresca. La sposa del marchese di Saluzzo —
centesima novella — sostiene prove a cui nessuna donna vera si
sottoporrebbe: è più moglie che madre. Le donne hanno fatto
soffrire colui che gli amici chiamavano Giovanni della Tranquillità,
e si potrebbe supporre che le dipinga con cattiveria. No, le ritraeva
quasi sempre senza veli, come sono, e avverrà più tardi, nella
vecchiaia precoce che le diffamerà nelle pagine, per altro
grottesche, e in questo senso vicine alla nostra sensibilità, del
Corbaccio.
Quando il Boccaccio ci dà
il « Decameron », Dante è morto da trent’ anni. Ormai la natura
vince e un mutamento si produce perfino nei rapporti tra la gente,
per cui sembra diventare lecita la semplificazione dei nostri grandi
letterati dello scorso secolo e ripetere che il Medioevo è
sconfitto. Invece parte di quella che era la sua cultura resiste e ne
deriva quanto di drammatico è sottinteso nelle novelle. In seguito
gli scrupoli tormenteranno di nuovo i fiorentini, il Passavanti porrà
sotto i loro occhi lo specchio dell’autentica penitenza: Coluccio
Salutati e altri anticipatori dell’umanesimo affermeranno la
legittimità del privilegio derivante dalle condizioni economiche,
dalla nascita, e insieme il bisogno d’una severa moralità.
Eppure nella prima metà
del secolo la liberazione era parsa definitiva. C’è
nell’introduzione alla quarta giornata un aneddoto, quasi una
novella che fa da prefazione, e mi pare che in quel racconto dal vero
si debbano cercare il pensiero o almeno il sentimento di uno
scrittore realistico maldisposto verso le idee generali. Si narra un
caso avvenuto a Firenze come tanti altri che il narratore già
trasfigurava con la mistura di elementi disparati, propria dei veri
romanzieri. Qui il Boccaccio ciò è solo narratore. Un bigotto,
Filippo Balducci, uomo di mediocre condizione, per fuggire le
tentazioni del mondo, va a stare sul monte Senario che allora il
popolo denominava Asinaio. Porta con sé un bambino. Vuole salvargli
l’anima, ma il figlio cresce, e quando ha compiuto i diciotto anni
chiede al babbo di portarlo con sé nei suoi viaggi a Firenze per
rifornirsi. Vanno per la strada, quasi ormai in città, padre e
figlio s'imbattono in un gruppo di belle ragazze.
«Come si chiamano?»
domanda il giovane inselvatichito dalla solitudine.
«Si chiamano papere»
risponde il bacchettone dopo un attimo d’ incertezza. E il figlio
gliene chiede qualcuna, di quelle papere. La realtà prorompe, non
c’è scampo, siamo in un tempo nuovo, gli istinti non sono più
compressi dalla fede religiosa, ma se qualcosa avviene nei rapporti
con la natura, diverso è il modo di comportarsi nella società
civile.
Il Boccaccio non è un
castigatore di costumi, non è un narratore galante che rasenti il
lenocinio; anzi un aggettivo derivato dalla sua opera e dal suo nome,
«boccaccesco», è stata la causa di tanti errori critici. Non
scrive per fare ridere; la comicità è accidentale, come l’eleganza
di Nastagio degli Onesti, la melodrammaticità di Sofronia. A Napoli
aveva respirato un’atmosfera cosmopolita e così è l’iniziatore
d’una letteratura, come l’italiana dei grandi secoli, nazionale e
popolare, e, insieme, internazionale e aristocratica. Il suo mondo è
vasto geograficamente e storicamente. Si pensi fino a quale punto si
dilata il Mediterraneo nelle novelle; diventa un oceano pieno di
isole, alcune fiorenti, altre deserte, se non selvagge.
Eppure ciò che pareva
sepolto torna sempre. All’inizio, abbiamo cercato d’immaginare
che cosa si siano detto il Boccaccio e Coluccio Salutati il quale
forse già pensava al suo De saeculo et religione, in cui si
descriveva la durezza della vita, con una classificazione ferrea
delle varie condizioni sociali. Certo, il Boccaccio era diverso, ma a
noi non interessa il fatto che, avvicinandosi alla vecchiezza, abbia
preso non si sa bene quali ordini minori e abbia portato, lui che
aveva deriso la superstizione di frate Cipolla, certe reliquie a
Certaldo per conciliarsi la simpatia dei concittadini che
presumibilmente l’avevano in sospetto d’empietà. Importa
piuttosto vedere che c’è dietro la sua opera più ispirata, dov’è
meno letterato, meno umanista e più poeta.
Il Boccaccio accoglie in
sé la natura, e non sublimandola come seppe il Petrarca, ma
comprendendo in essa anche il momento economico della vita sociale.
Ed è qui che s’apre lo spiraglio, attraverso il quale s’intende
in che modo egli sentiva le relazioni tra gli uomini.
Tancredi nella prima
novella della IV giornata è un padre contro natura. Quando scopre la
relazione della figlia col giovane Guiscardo, di condizione modesta e
tuttavia così brillante, non si ferma davanti all’omicidio. Quando
poi Gioselda riceve il cuore dell’amante, rivolge al padre un
discorso che non si riferisce al suo dolore ma ai diritti che ogni
uomo ha nascendo. Parla come Figaro di Beaumarchais. Siamo tutti
uguali, e in più sono affermati i diritti della carne; ma
impressiona una frase sull’uguaglianza di ogni persona creata. Ogni
uomo vale per la sua virtù e non per la nascita. Non dirò che sia
il segno d’una nuova sensibilità politica; s’avverte semmai
l’orgoglio del popolo minuto e minutissimo; di coloro, si ripete,
che nelle valli avevano sconfitto 1’aristocrazia d’origine
feudale, come disse Carducci commemorando il Boccaccio il 21 dicembre
del 1875, a Certaldo.
In politica però non ci
sono ultime rocche, il giovane fiorentino inviato a Napoli dal padre
che si riammogliava alla ricerca d’una posizione sociale, presso la
sede del banco dei Bardi, intuisce che i comuni volgono al termine,
che s’affermano grandi complessi territoriali; che la vita di corte
è raffinata, dolce, nuova. E' un democratico che a Firenze ha capito
come tutti gli uomini siano uguali; è un patriota che una patria
italiana sente non nelle istituzioni ma nell’arte bisognosa di
protezione e la cui durata storica sarà più lunga di quella dei
protettori.
E’ un protagonista d'un
risorgimento che nell'Italia centro-settentrionale ha al centro il
borghese arricchitosi nella banca, negli appalti, nei commerci.
Boccaccio avverte però che la dignità del cittadino, come già è
successo nella capitale del regno angioino, è un effimero vantaggio
d’una momentanea trasformazione sociale. Un ceto d'origine popolare
si sta convincendo di poter trovare nell’antichità i titoli d’un
nuovo genere d’aristocrazia. Non basta avere sconfitto i nobili del
sangue, d’averli confinati nelle valli impervie, d’averli
trasformati in brutali agenti d’una polizia d'un nuovo genere.
L’antichità diventa l’ideologia d’una patria mercantile che
cerca d’innalzarsi con l’illusione di tornare all'antico, prima
di confondersi, come poi avverrà, coi resti delle grandi famiglie
d’origine longobarda e franca.
Così, appena la
borghesia toscana perde il senso delle proprie origini, sarà vinta
con facilità nell’indifferenza generale, compresa quella d’una
letteratura che aveva liberalizzato i costumi e che accetta già la
protezione delle signorie non ancora istituzionalizzate.
Abbiamo cercato di
rinvenire i lineamenti d’una società in un grande scrittore; forse
ne abbiamo violato il testo, siamo corsi di là dalle sue intenzioni.
Eppure non si può rinunciare a vederci l’italiano medio di allora,
che irride i preti, i frati, le monache, e che tuttavia seguita ad
andare in chiesa; un motivo che si può trovare sempre nella nostra
storia, quasi che l’irrisione moralistica sia un sufficiente sfogo
e respinge nell’eresia e al margine della vita sociale gli uomini
che invece volevano conciliare la fede religiosa col senso critico
applicato alla società in cui vivevano.
Boccaccio è
l’incarnazione dello spirito medio italiano, rappresenta il suo
divenire. Non ha distrutto dentro di sé il passato come sogna il
Machiavelli. Eppoi se il Medioevo fosse davvero il male, questo male
dobbiamo prima di tutto cercarlo in noi, in ciò che accettiamo senza
averlo prima spregiudicatamente esaminato.
Ma lasciamo la politica
che pure affascina. Boccaccio è un grande scrittore che appunto
rinviene nella letteratura una dignità regale, come ce l’aveva
trovata Francesco Petrarca. A Napoli, quando non era ancora il
riconosciuto scrittore destinato a una fama europea aveva guardato
gli angioini come Proust guarderà i Guermantes. Nazionale e
cosmopolita, è stato detto; ma il suo internazionalismo deriva dai
temi stessi del Decameron, un insieme di situazioni popolari,
borghesi, cavalleresche, le cui fonti vanno cercate nel Levante, in
Italia, nella mitica Francia di una già importante letteratura. La
sua italianità dobbiamo invece vederla nel modo con cui scrive. Non
ci si deve lasciare impressionare, oggi che abbiamo una sintassi così
semplice, un lessico così numeroso e tuttavia quasi sempre generico,
dal suo periodare lento, fluente. Boccaccio non imbalsama la realtà
nella sintassi. Come accadrà in Machiavelli; elabora un linguaggio
complesso per arrivare al fondo delle cose e per aderire a una
società articolata come la nostra. Non è la realtà di Plauto
descritta da un nuovo Cicerone. In lui, c'è già la sintassi moderna
che arriverà fino a noi e che noi, pur semplificandola e talvolta
impoverendola, accettiamo.
Illustrazione francese di una celebre novella del Boccaccio |
Anche nel gusto che lo
porta a prediligere certi temi apre la strada del futuro. Per
esempio, le tante adultere del «Decameron» sono l’indizio d’una
particolarità sociale durata a lungo nei secoli, e che non si
vorrebbe ristretta ai tempi di Giovanni Boccaccio, e tanto meno alla
società fiorentina di allora. I ricchi mercanti, i magistrati
influenti, gli uni e gli altri in su con gli anni simili ai rusteghi
di Carlo Goldoni, si godono nel segreto delle pareti domestiche
un «tocco di donna», condotta al matrimonio dopo trattative coi
padri delle ignare candidate a nozze impari spesso loro coetanei.
Gongolano gli anziani d’un privilegio che sperano smuova la loro
decaduta sessualità, e tuttavia conoscono il rischio a cui spediti
vanno incontro, accecati dall’orgoglio del loro stato e da un
ritorno d’appetito sensuale. Saranno per lo più ingannati, e
dall’inganno deriva una commedia «drólatique» borghese
che avrà la sua sublimazione nella Comédie humaine di Honoré
de Balzac.
Lidia, moglie del ricco
Nicostrato, non potendone più delle rare soddisfazioni coniugali,
quasi a freddo decide di prendersi come amante Pirro, e il caso si
sviluppa sullo sfondo d’una improbabile Atene, parte tuttavia di
quel dilatato panorama mediterraneo caro al Boccaccio. E Lidia fa
venire in mente altre donne, di là da secoli, che nelle camere
matrimoniali non sono cambiate gran che. Il maschio, si direbbe oggi,
domina sovrano, prepotente, incombe sulle vergini fanciulle,
negoziate da genitori che a loro volta godettero i vantaggi d’un
simile mercato, e magari si scopre poi come il padre tiranno sia un
vecchio debilitato. Lidia cioè è apparentata alla figlia di Papà
Goriot, genitore disposto a togliersi il pane di bocca per le sue
creature, e che però non sospetta che esse abbiano una capacità
d’innamoramento, a meno che in una zona recondita della sua
coscienza non ammetta che, alla violenza paterna, esiste il compenso
dell’adulterio, accettato dalla società francese della
restaurazione. Non c’è grande differenza tra il vecchio Nicostrato
e il barone di Nucingen; di più, semmai, ne esiste in Rastignac che,
a differenza di Pirro, è un superuomo borghese, non ancora sostenuto
dalla cultura che l’avrebbe giustificato verso la fine del XIX
secolo. E il tema comunque è lo stesso; la violenza d’una società
fatta contro la natura di cui le donne sono parte.
Ma il Boccaccio non è
soltanto un narratore di storie; è il grande prosatore che le
amalgama, e che rende unitario un mondo ora comico e ora tragico. La
sua sintassi coinvolge un insieme sociale eterogeneo. E’ una prosa
che ha dentro di sé un empito epico, che sta per diventare verso
(Benedetto Croce), e che quasi si direbbe un’anticipo dell'ottava
cavalleresca; anzi questo metro si confà al Boccaccio della Teseida,
a cui la prosa del Decameron è legata più di quanto lo sia
all’altra del romanzo di Fiammetta, del Filocolo.
Altrove, l’autore è
gentile, quasi dolciastro; per esempio, nelle rime, dove vi sono le
angiolette stilnovistiche; o è mordace tristemente come nel
Corbaccio, romanzo che anticipa gli umori dei decenni
successivi alla compilazione del Decameron. C’è, in quel
romanzo tardo, un vigore, se vogliamo, senile; una rabbia che dà
effetti inattesi, che insiste nel dire, con una parola moderna,
grotteschi, come quando un innamorato viene ammonito con sarcasmo a
non accontentarsi delle apparenze. Non guardarla, la donna amata,
socchiudendo gli occhi — gli si dice — ma fissala, scrutala, non
avere paura a vederla com’è senza il trucco del «fattibello»,
come si chiamava il belletto. Altro che vendetta; è lo stile che
prevale; nasce un genere nuovo, ma non diremmo che lo si debba
all’influenza del ritorno alla chiesa. Prima aveva la meglio
l’eleganza, ora il realismo si fa lubrico.
I legami lanciati verso
il futuro sono forti. Si va dalla realtà minuta della vita
napoletana, fiorentina verso il canto cavalleresco. C’è
magnanimità, più che verità, in Sofronia, contesa tra il greco
Gisippo e il romano Tito Quinzio Fulvio, andato ad Atene — sempre
quell’Atene immaginaria — a studiare filosofia. E si badi bene,
il realismo è un elemento borghese; la magnanimità può invece
affascinare le dame isolate nei superbi castelli, mentre gli anziani
mariti s’occupano di denaro, nei loro fondachi, o di politica
seduti sui banchi di pietra, fuori dei palazzi.
E’ l’Italia che
cambia, che — si potrebbe dire — ha perso l’occasione
democratica; l’Italia che da medio-borghese, si è fatta
alto-borghese, e che ora ammira le grandi famiglie ex feudali, non
più perseguitate nelle valli appenniniche dov’erano state
confinate dopo il crollo delle illusioni sveve, già ansiose di
nobilitarsi, di mescolare il loro sangue popolare con quello d'una
nobiltà d’origine tedesca che ancora non rivendica la sua
parentela con i barbari scesi dal nord, e che anzi tenta di stabilire
un legame, sempre arbitrario, con Roma antica.
Ora, il Boccaccio, di
questa trasformazione nazionale, è il testimone oggettivo. Non si
propone niente; guarda e scrive. E’ l’incarnazione dello spirito
italiano, anzi ha nel cuore l’intuizione d’una Italia che nei
secoli seguenti avrebbe perduto il senso d’un momentaneo blocco
unitario tra ceti medi mercantili e ceti popolari artigiani. Ormai,
la grande letteratura è la nostra unica patria nazionale, e in essa
i motivi cambiano così come altrove evolve la società. Ci
appartiamo nell’arte. La patria d’un Boccaccio che ci ha dato ser
Ciappelletto senza le precauzioni che prenderà, alla fine del suo
capolavoro, Molière nel far sì che Tartufe possa essere
rappresentato dopo aver riconosciuto in un finale opportunistico la
magnanimità del re; e che ci ha dato Machiavelli, genio candido e
scaltro. S’imbocca una strada lunghissima fino a oggi percorsa, ora
orgogliosi della magnificenza creata dal prevalere del nostro senso
estetico, ora sgomenti dell’abiezione sociale nella quale
sprofondavamo.
“Il Mondo”, ritaglio
senza data, ma 1975
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