9.6.15

Giovanni Boccaccio. Il Proust degli Angioini (Arrigo Benedetti)

Arrigo Benedetti, nato a Lucca nel 1910 e cresciuto alla scuola del Longanesi di “Omnibus” e tempratosi nell'antifascismo della lotta partigiana, fu inventore e primo direttore di due grandi periodici dell'Italia Repubblicana: “L'Europeo” e “L'Espresso”. Lavorò in grandi giornali come “La Stampa” e il “Corriere della Sera”, con altri collaborò e diresse “Il Mondo” settimanale negli anni Settanta. Morì nel 1976 direttore di “Paese Sera”. Cultore di letteratura e scrittore in proprio di discreti romanzi, pubblicò il saggio che segue nel 1975, centenario della morte di Boccaccio su “Il Mondo”. (S.L.L.)
Giovanni Boccaccio nel ritratto di Andrea del Castagno
Nel primo giorno d’inverno di quel 1375 quando era già cominciata la guerra tra i fiorentini aiutati dai Visconti e papa Gregorio XI, Giovanni Boccaccio s’avvide, meravigliandosene, d’essere indifferente a tante cose che l’avevano un tempo emozionato. Neanche gli premeva più prevedere l’esito d’un conflitto al quale nell'estate scorsa aveva pensato così spesso.
Firenze aveva già scelto gli «Otto di guerra e di balia» che, tutti insieme, alla guerra, avrebbero dato un soprannome, come se alle arti militari e diplomatiche aggiungessero la virtù della santità. Le notizie della «guerra degli otto santi», da luglio in poi, erano giunte a Certaldo sempre più ambigue. Il fratello e i nipoti non ne parlavano quasi mai con lui infermo. Lo spiavano; i suoi sessantatré anni erano considerati tanti, a quei tempi. I parenti si stupivano che sopravvivesse un uomo sul quale gli acciacchi avevano lasciato il segno. Non desideravano la sua morte; la consideravano ovvia.
Nei mesi precedenti quella penosa estate e quel doloroso autunno, ogni tanto lui aveva lasciato che la speranza l’invadesse di nuovo. L’immaginazione cancellava la vecchiezza e il ricordo della malattia che gli aveva dato le maggiori sofferenze: l’obbrobriosa scabbia. Anche quando la schifosa malattia l’aveva umiliato, i medici tante volte irrisi dalla sua penna, e dei quali davvero non si fidava, gli avevano dato qualche sollievo. Forse avevano esorcizzato l’immagine della morte da cui la notte nelle lunghe veglie era stato atterrito. Ora, invece, quella che s’accorgeva essere stata la compagna invisibile della sua vita gli sembrava personificarsi in immagini sempre meno sfuggenti. Da quando, al principio del ’75 aveva interrotto la «lectura Dantis» e aveva lasciato Firenze per andare a nascondersi a Certaldo l’avversaria della vita diventava sempre più visibile ai suoi occhi stanchi.
Il viaggio di ritorno era stato triste a confrontarlo — e il paragone era inevitabile — con quelli fatti per recarsi ad Arquà. La trepidazione di allora era per sempre svanita. Ora Francesco lo guardava dall’aldilà, dove l'aveva preceduto. La morte d’un amico ammirato fino al parossismo può, pur se non si ha il coraggio d’esserne coscienti, dare un sollievo. Invece, il Petrarca seguitava a essere presente e a leggergli negli occhi i segreti pensieri, come gli pareva avesse fatto sempre, quando era vivo.
Un tempo, viaggiare era stata una felicità, come quando partiva da Firenze per le sue ambascerie ad Avignone, a Venezia; o come quando correva verso Napoli, convinto di trovarci il calore perduto della sua giovinezza, trascorsa laggiù non per impratichirsi nella succursale che vi avevano i Bardi, un centro finanziario da cui gli era venuta un' idea esaltante dell’Oriente, ma per scoprire fino a quale punto la vita possa essere gradevole, specie a confrontarla a quella conosciuta sull’Arno. Ora che, per ragioni di salute, aveva deciso di soggiornare a Certaldo, non provava la commozione affettuosa delle altre volte.
Era innegabile che gli paresse d’avere fatto un viaggio senza ritorno. Si sentiva uguale al lavoratore della campagna che, dopo una giornata faticosa, si corica. Distendersi nel letto, lasciare che immagini del passato fluissero, era un piacere attenuato da quella presenza inevitabile. La compagna crudele della sua esistenza ormai non aveva più il volto velato. Era stato un errore raccontare casi galanti, comici, cavallereschi, perfino tragici. Nel giorno in cui, d’inverno, quasi un anno prima, aveva iniziato il viaggio nel Valdarno, con l’idea futile di tornare a casa a ritemprarsi, mentre le ruote frangevano il fango gelato, il ricordo musicale di una prosa in cui aveva nascosto tutto se stesso, lo aveva ristorato più del mantello nel quale era avvolto. I periodi gli risuonavano armoniosi nelle orecchie; a ripensarci, era stato straordinario abbandonarsi all’empito che trasformava la narrazione, e gli aneddoti di cui era materiata, in un’onda musicale. Poi, deluso dal tepore della primavera, dal caldo dell’estate, il gelo dell’inverno l’aveva aggredito. Non fingeva più; sapeva che il male non avrebbe potuto più essere vinto; le sue labbra borbottavano preghiere.
Il ricordo del testamento fatto già nel ’72 e nel '74, un atto che più dei medici gli era parso esorcizzare la morte, fino a impedirle d’entrare nel cerchio di luce che l’avrebbe resa definitivamente visibile, a tratti lo consolava. Riandava con la mente a quando negli anni scorsi, il consiglio del comune di Firenze aveva confermato l’obbligo doveroso d’onorare Dante. Tanti i voti favorevoli, e l’onore sembrava rivolto più a lui che al maestro, salito nel frattempo così in alto. In occasione della prima solenne lettura, un 23 ottobre, domenica, nella chiesa di Santo Stefano, si era quasi sentito impari all’impegno conferitogli. Il denaro che gliene veniva era stato tuttavia rassicurante. Non c’era stata grettezza in quel suo intimo compiacimento. D’ora in poi, non avrebbe più venduto campi nella pianura che divide il colle turrito di Certaldo, dall’altro, ancora più irto di torri, di San Gemignano. Eppoi, diventava possibile un nuovo viaggio a Napoli, dove gli sarebbe stato facile ristabilirsi in salute.
A tratti pensava, non con orrore ma con tristezza, all’opera che di là dalle previsioni gli aveva dato una popolarità, attesa invece da composizioni letterarie e poetiche più nobili. A tratti, sorrideva ripensando agli scrupoli di Pietro Petroni che morendo in odore di santità gli aveva chiesto di distruggere il Decameron, l’opera da cui, come era successo a decine di migliaia di lettori, ora gli venivano immagini, simili a ricordi di un'esistenza davvero vissuta. Tutto si chiariva. Lui non era stata persona adatta agli uffici, come quando l’avevano messo a capo di quello per il reclutamento militare, certo in vista delle novità possibili, ora che Carlo IV scendeva dalle Alpi.
La sua stessa condizione di chierico, da quando Innocenzo VI aveva concesso a lui bastardo (che per casato aveva il patronimico invece d’esumare quello della famiglia, 1’antico Ardovini dei Bertaldi), la dispensa per prendere almeno gli ordini minori, certe volte gli pareva assurda.
In quella debilitazione che aveva un che di molle, il ricordo di Napoli era una dolce consolazione. Vi aveva passato la gioventù prima dei grandi fallimenti. Gli splendori francesi l’avevano incantato. Le donne bellissime, dalle quali aveva tratto il volto di Fiammetta, e forse addirittura quello di Maria d’Aquino, la sua Beatrice, l’avevano fatto tremare. Mai come allora si era sentito socialmente infimo. Occorreva ricostruirsi; l’incertezza delle sue origini gli eccitava l’immaginazione. Anche Maria era una bastarda ma di sangue reale, e gli era facile supporre che il babbo, nel suo soggiorno parigino, avesse avuto relazioni altrettanto nobili. C’era di che compatirsi ripensando al modo con cui aveva tentato di cancellare la maternità toscana.
La realtà si sfaceva. La grandezza mondana dell'amico Nicola Acciaiuoli, che tante porte gli aveva schiuso a Napoli, l’ingiusto lauro toccato a Zenobi da Strada, la stessa supremazia di Francesco, da cui s’era sentito schiacciare più volte, anche quando aveva fatto un viaggio per vantarsi di sapere il greco, svanivano. Sorrideva dei suoi tormenti immaginari; del suo innalzarsi con la menzogna; del suo avere supposto di conquistarsi onore con le opere che avevano un accento alto.
I tempi diventavano tristi. Coluccio Salutati, il cancelliere, quando era venuto a trovarlo fino a Certaldo gli era parso portare con sé un’onda di gelo. L’ospite gli aveva descritto il mondo come una valle di mestizia. L’aveva convinto della supremazia del latino, e non di quello classico da lui rinvenuto con ostinazione in testi rari, ma dell’altro così com'era andato trasformandosi nelle cancellerie laiche ed ecclesiastiche. Una nuova letteratura latina s’affermava. Impossibile confidarsi con l’amico più giovane, dirgli quale musica aveva sentito uscirgli dalla penna nel raccontare in volgare casi che avevano come teatro Firenze, Napoli, la Sicilia, le isole del Mediterraneo, il Levante; insomma, il mondo.
Per fortuna, il discorso era caduto sul Corbaccio, e non avrebbe sperato che il dotto cancelliere avesse capito il senso del romanzo, nel quale a volte gli pareva avere messo tutta la sua rabbia e tutta la sua tristezza. Avevano parlato del posto che la religione deve aver nella società. Quando lui gli aveva chiesto qualcosa del suo De vita associabili et operativa, l’ospite era parso turbato.
Quel giorno di dicembre, Giovanni della Tranquillità è possibile che a tratti sia stato consolato da ricordi, a tratti depresso fino alla disperazione. «Così dunque visse ser Ciappelletto di Prato e santo divenne, come avrete udito...». Il terrore nel risentire la forza della sua arte lo vinse; qualcosa doveva pur esserci in lui della doppiezza di ser Ciappelletto, della sua empietà. Dov’era il senso di libertà che gli dava cogliere la malizia, la magnanimità, la comicità del prossimo? Poi si consolò pensando che era stato umano non negare a ser Ciappelletto la possibilità d’essere « beato nella presenza di Dio... » il quale poteva avere avuto misericordia d’un così nero peccatore. A lui, nelle sue ultime ore, gli pareva di assomigliare.
A sei secoli dalla sua morte, si è incuriositi dalla contraddizione del Boccaccio. Si vide in lui l’uomo che liquida il passato nella beffa. Ma il Medioevo non fu un castello che i fiorentini potessero assalire nelle valli appenniniche, per stare all’immagine di Carducci. E’ qualcosa che coesiste con noi. Anche De Sanctis definisce il Boccaccio uomo nuovo che supera un’epoca; definizione che non persuade, anche se sappiamo quali fermenti vi fossero nel secolo XIV. Vorremmo capire di più, difenderci dalle illusioni, violare il segreto d’un grande scrittore che in un’ora felice seppe guardare la realtà senza pregiudizi, rivelandocene la sostanza magari senza accorgersene. La massa dei suoi lettori — e per quei tempi erano davvero tanti — si sentì riflessa nel Decameron e gli parve d’essere liberata da un intrico di certezze che smettevano d’ essere tali.
E’ in questo senso che semmai il Boccaccio usciva dal Medioevo, cioè nell’esprimere l’insofferenza della società civile per qualcosa che non appariva più vitale. I rapporti tra gli uomini cambiavano e anche quelli tra l’umanità e il cielo. Il Boccaccio fu moderno anche nelle opere che non si leggono più. Nell’ Elegia di Madonna Fiammetta raffigura, lo volesse o no, una donna diversa da quella dataci dagli stilnovisti. Tuttavia lo scrittore non s’è ancora accorto del mondo diverso che ha intorno. Nella maturità, cioè superati i quarant’anni, lo scopre e accompagna la descrizione d’una società nuova e dei residui di quella ormai trasfigurata dalla memoria, valendosi di un forte senso d’insofferenza e quindi d’una certa libertà.
Beatrice non è più sacra; nella realtà politica c’è Caterina da Siena; in quella di tutti i giorni, ci sono donne non più angelicate, piccole borghesi adultere, monache peccatrici, dame superbe, disumane, desunte dalla letteratura cavalleresca. La sposa del marchese di Saluzzo — centesima novella — sostiene prove a cui nessuna donna vera si sottoporrebbe: è più moglie che madre. Le donne hanno fatto soffrire colui che gli amici chiamavano Giovanni della Tranquillità, e si potrebbe supporre che le dipinga con cattiveria. No, le ritraeva quasi sempre senza veli, come sono, e avverrà più tardi, nella vecchiaia precoce che le diffamerà nelle pagine, per altro grottesche, e in questo senso vicine alla nostra sensibilità, del Corbaccio.
Quando il Boccaccio ci dà il « Decameron », Dante è morto da trent’ anni. Ormai la natura vince e un mutamento si produce perfino nei rapporti tra la gente, per cui sembra diventare lecita la semplificazione dei nostri grandi letterati dello scorso secolo e ripetere che il Medioevo è sconfitto. Invece parte di quella che era la sua cultura resiste e ne deriva quanto di drammatico è sottinteso nelle novelle. In seguito gli scrupoli tormenteranno di nuovo i fiorentini, il Passavanti porrà sotto i loro occhi lo specchio dell’autentica penitenza: Coluccio Salutati e altri anticipatori dell’umanesimo affermeranno la legittimità del privilegio derivante dalle condizioni economiche, dalla nascita, e insieme il bisogno d’una severa moralità.
Eppure nella prima metà del secolo la liberazione era parsa definitiva. C’è nell’introduzione alla quarta giornata un aneddoto, quasi una novella che fa da prefazione, e mi pare che in quel racconto dal vero si debbano cercare il pensiero o almeno il sentimento di uno scrittore realistico maldisposto verso le idee generali. Si narra un caso avvenuto a Firenze come tanti altri che il narratore già trasfigurava con la mistura di elementi disparati, propria dei veri romanzieri. Qui il Boccaccio ciò è solo narratore. Un bigotto, Filippo Balducci, uomo di mediocre condizione, per fuggire le tentazioni del mondo, va a stare sul monte Senario che allora il popolo denominava Asinaio. Porta con sé un bambino. Vuole salvargli l’anima, ma il figlio cresce, e quando ha compiuto i diciotto anni chiede al babbo di portarlo con sé nei suoi viaggi a Firenze per rifornirsi. Vanno per la strada, quasi ormai in città, padre e figlio s'imbattono in un gruppo di belle ragazze.
«Come si chiamano?» domanda il giovane inselvatichito dalla solitudine.
«Si chiamano papere» risponde il bacchettone dopo un attimo d’ incertezza. E il figlio gliene chiede qualcuna, di quelle papere. La realtà prorompe, non c’è scampo, siamo in un tempo nuovo, gli istinti non sono più compressi dalla fede religiosa, ma se qualcosa avviene nei rapporti con la natura, diverso è il modo di comportarsi nella società civile.
Il Boccaccio non è un castigatore di costumi, non è un narratore galante che rasenti il lenocinio; anzi un aggettivo derivato dalla sua opera e dal suo nome, «boccaccesco», è stata la causa di tanti errori critici. Non scrive per fare ridere; la comicità è accidentale, come l’eleganza di Nastagio degli Onesti, la melodrammaticità di Sofronia. A Napoli aveva respirato un’atmosfera cosmopolita e così è l’iniziatore d’una letteratura, come l’italiana dei grandi secoli, nazionale e popolare, e, insieme, internazionale e aristocratica. Il suo mondo è vasto geograficamente e storicamente. Si pensi fino a quale punto si dilata il Mediterraneo nelle novelle; diventa un oceano pieno di isole, alcune fiorenti, altre deserte, se non selvagge.
Eppure ciò che pareva sepolto torna sempre. All’inizio, abbiamo cercato d’immaginare che cosa si siano detto il Boccaccio e Coluccio Salutati il quale forse già pensava al suo De saeculo et religione, in cui si descriveva la durezza della vita, con una classificazione ferrea delle varie condizioni sociali. Certo, il Boccaccio era diverso, ma a noi non interessa il fatto che, avvicinandosi alla vecchiezza, abbia preso non si sa bene quali ordini minori e abbia portato, lui che aveva deriso la superstizione di frate Cipolla, certe reliquie a Certaldo per conciliarsi la simpatia dei concittadini che presumibilmente l’avevano in sospetto d’empietà. Importa piuttosto vedere che c’è dietro la sua opera più ispirata, dov’è meno letterato, meno umanista e più poeta.
Il Boccaccio accoglie in sé la natura, e non sublimandola come seppe il Petrarca, ma comprendendo in essa anche il momento economico della vita sociale. Ed è qui che s’apre lo spiraglio, attraverso il quale s’intende in che modo egli sentiva le relazioni tra gli uomini.
Tancredi nella prima novella della IV giornata è un padre contro natura. Quando scopre la relazione della figlia col giovane Guiscardo, di condizione modesta e tuttavia così brillante, non si ferma davanti all’omicidio. Quando poi Gioselda riceve il cuore dell’amante, rivolge al padre un discorso che non si riferisce al suo dolore ma ai diritti che ogni uomo ha nascendo. Parla come Figaro di Beaumarchais. Siamo tutti uguali, e in più sono affermati i diritti della carne; ma impressiona una frase sull’uguaglianza di ogni persona creata. Ogni uomo vale per la sua virtù e non per la nascita. Non dirò che sia il segno d’una nuova sensibilità politica; s’avverte semmai l’orgoglio del popolo minuto e minutissimo; di coloro, si ripete, che nelle valli avevano sconfitto 1’aristocrazia d’origine feudale, come disse Carducci commemorando il Boccaccio il 21 dicembre del 1875, a Certaldo.
In politica però non ci sono ultime rocche, il giovane fiorentino inviato a Napoli dal padre che si riammogliava alla ricerca d’una posizione sociale, presso la sede del banco dei Bardi, intuisce che i comuni volgono al termine, che s’affermano grandi complessi territoriali; che la vita di corte è raffinata, dolce, nuova. E' un democratico che a Firenze ha capito come tutti gli uomini siano uguali; è un patriota che una patria italiana sente non nelle istituzioni ma nell’arte bisognosa di protezione e la cui durata storica sarà più lunga di quella dei protettori.
E’ un protagonista d'un risorgimento che nell'Italia centro-settentrionale ha al centro il borghese arricchitosi nella banca, negli appalti, nei commerci. Boccaccio avverte però che la dignità del cittadino, come già è successo nella capitale del regno angioino, è un effimero vantaggio d’una momentanea trasformazione sociale. Un ceto d'origine popolare si sta convincendo di poter trovare nell’antichità i titoli d’un nuovo genere d’aristocrazia. Non basta avere sconfitto i nobili del sangue, d’averli confinati nelle valli impervie, d’averli trasformati in brutali agenti d’una polizia d'un nuovo genere. L’antichità diventa l’ideologia d’una patria mercantile che cerca d’innalzarsi con l’illusione di tornare all'antico, prima di confondersi, come poi avverrà, coi resti delle grandi famiglie d’origine longobarda e franca.
Così, appena la borghesia toscana perde il senso delle proprie origini, sarà vinta con facilità nell’indifferenza generale, compresa quella d’una letteratura che aveva liberalizzato i costumi e che accetta già la protezione delle signorie non ancora istituzionalizzate.
Abbiamo cercato di rinvenire i lineamenti d’una società in un grande scrittore; forse ne abbiamo violato il testo, siamo corsi di là dalle sue intenzioni. Eppure non si può rinunciare a vederci l’italiano medio di allora, che irride i preti, i frati, le monache, e che tuttavia seguita ad andare in chiesa; un motivo che si può trovare sempre nella nostra storia, quasi che l’irrisione moralistica sia un sufficiente sfogo e respinge nell’eresia e al margine della vita sociale gli uomini che invece volevano conciliare la fede religiosa col senso critico applicato alla società in cui vivevano.
Boccaccio è l’incarnazione dello spirito medio italiano, rappresenta il suo divenire. Non ha distrutto dentro di sé il passato come sogna il Machiavelli. Eppoi se il Medioevo fosse davvero il male, questo male dobbiamo prima di tutto cercarlo in noi, in ciò che accettiamo senza averlo prima spregiudicatamente esaminato.
Ma lasciamo la politica che pure affascina. Boccaccio è un grande scrittore che appunto rinviene nella letteratura una dignità regale, come ce l’aveva trovata Francesco Petrarca. A Napoli, quando non era ancora il riconosciuto scrittore destinato a una fama europea aveva guardato gli angioini come Proust guarderà i Guermantes. Nazionale e cosmopolita, è stato detto; ma il suo internazionalismo deriva dai temi stessi del Decameron, un insieme di situazioni popolari, borghesi, cavalleresche, le cui fonti vanno cercate nel Levante, in Italia, nella mitica Francia di una già importante letteratura. La sua italianità dobbiamo invece vederla nel modo con cui scrive. Non ci si deve lasciare impressionare, oggi che abbiamo una sintassi così semplice, un lessico così numeroso e tuttavia quasi sempre generico, dal suo periodare lento, fluente. Boccaccio non imbalsama la realtà nella sintassi. Come accadrà in Machiavelli; elabora un linguaggio complesso per arrivare al fondo delle cose e per aderire a una società articolata come la nostra. Non è la realtà di Plauto descritta da un nuovo Cicerone. In lui, c'è già la sintassi moderna che arriverà fino a noi e che noi, pur semplificandola e talvolta impoverendola, accettiamo.
Illustrazione francese di una celebre novella del Boccaccio
Anche nel gusto che lo porta a prediligere certi temi apre la strada del futuro. Per esempio, le tante adultere del «Decameron» sono l’indizio d’una particolarità sociale durata a lungo nei secoli, e che non si vorrebbe ristretta ai tempi di Giovanni Boccaccio, e tanto meno alla società fiorentina di allora. I ricchi mercanti, i magistrati influenti, gli uni e gli altri in su con gli anni simili ai rusteghi di Carlo Goldoni, si godono nel segreto delle pareti domestiche un «tocco di donna», condotta al matrimonio dopo trattative coi padri delle ignare candidate a nozze impari spesso loro coetanei. Gongolano gli anziani d’un privilegio che sperano smuova la loro decaduta sessualità, e tuttavia conoscono il rischio a cui spediti vanno incontro, accecati dall’orgoglio del loro stato e da un ritorno d’appetito sensuale. Saranno per lo più ingannati, e dall’inganno deriva una commedia «drólatique» borghese che avrà la sua sublimazione nella Comédie humaine di Honoré de Balzac.
Lidia, moglie del ricco Nicostrato, non potendone più delle rare soddisfazioni coniugali, quasi a freddo decide di prendersi come amante Pirro, e il caso si sviluppa sullo sfondo d’una improbabile Atene, parte tuttavia di quel dilatato panorama mediterraneo caro al Boccaccio. E Lidia fa venire in mente altre donne, di là da secoli, che nelle camere matrimoniali non sono cambiate gran che. Il maschio, si direbbe oggi, domina sovrano, prepotente, incombe sulle vergini fanciulle, negoziate da genitori che a loro volta godettero i vantaggi d’un simile mercato, e magari si scopre poi come il padre tiranno sia un vecchio debilitato. Lidia cioè è apparentata alla figlia di Papà Goriot, genitore disposto a togliersi il pane di bocca per le sue creature, e che però non sospetta che esse abbiano una capacità d’innamoramento, a meno che in una zona recondita della sua coscienza non ammetta che, alla violenza paterna, esiste il compenso dell’adulterio, accettato dalla società francese della restaurazione. Non c’è grande differenza tra il vecchio Nicostrato e il barone di Nucingen; di più, semmai, ne esiste in Rastignac che, a differenza di Pirro, è un superuomo borghese, non ancora sostenuto dalla cultura che l’avrebbe giustificato verso la fine del XIX secolo. E il tema comunque è lo stesso; la violenza d’una società fatta contro la natura di cui le donne sono parte.
Ma il Boccaccio non è soltanto un narratore di storie; è il grande prosatore che le amalgama, e che rende unitario un mondo ora comico e ora tragico. La sua sintassi coinvolge un insieme sociale eterogeneo. E’ una prosa che ha dentro di sé un empito epico, che sta per diventare verso (Benedetto Croce), e che quasi si direbbe un’anticipo dell'ottava cavalleresca; anzi questo metro si confà al Boccaccio della Teseida, a cui la prosa del Decameron è legata più di quanto lo sia all’altra del romanzo di Fiammetta, del Filocolo.
Altrove, l’autore è gentile, quasi dolciastro; per esempio, nelle rime, dove vi sono le angiolette stilnovistiche; o è mordace tristemente come nel Corbaccio, romanzo che anticipa gli umori dei decenni successivi alla compilazione del Decameron. C’è, in quel romanzo tardo, un vigore, se vogliamo, senile; una rabbia che dà effetti inattesi, che insiste nel dire, con una parola moderna, grotteschi, come quando un innamorato viene ammonito con sarcasmo a non accontentarsi delle apparenze. Non guardarla, la donna amata, socchiudendo gli occhi — gli si dice — ma fissala, scrutala, non avere paura a vederla com’è senza il trucco del «fattibello», come si chiamava il belletto. Altro che vendetta; è lo stile che prevale; nasce un genere nuovo, ma non diremmo che lo si debba all’influenza del ritorno alla chiesa. Prima aveva la meglio l’eleganza, ora il realismo si fa lubrico.
I legami lanciati verso il futuro sono forti. Si va dalla realtà minuta della vita napoletana, fiorentina verso il canto cavalleresco. C’è magnanimità, più che verità, in Sofronia, contesa tra il greco Gisippo e il romano Tito Quinzio Fulvio, andato ad Atene — sempre quell’Atene immaginaria — a studiare filosofia. E si badi bene, il realismo è un elemento borghese; la magnanimità può invece affascinare le dame isolate nei superbi castelli, mentre gli anziani mariti s’occupano di denaro, nei loro fondachi, o di politica seduti sui banchi di pietra, fuori dei palazzi.
E’ l’Italia che cambia, che — si potrebbe dire — ha perso l’occasione democratica; l’Italia che da medio-borghese, si è fatta alto-borghese, e che ora ammira le grandi famiglie ex feudali, non più perseguitate nelle valli appenniniche dov’erano state confinate dopo il crollo delle illusioni sveve, già ansiose di nobilitarsi, di mescolare il loro sangue popolare con quello d'una nobiltà d’origine tedesca che ancora non rivendica la sua parentela con i barbari scesi dal nord, e che anzi tenta di stabilire un legame, sempre arbitrario, con Roma antica.
Ora, il Boccaccio, di questa trasformazione nazionale, è il testimone oggettivo. Non si propone niente; guarda e scrive. E’ l’incarnazione dello spirito italiano, anzi ha nel cuore l’intuizione d’una Italia che nei secoli seguenti avrebbe perduto il senso d’un momentaneo blocco unitario tra ceti medi mercantili e ceti popolari artigiani. Ormai, la grande letteratura è la nostra unica patria nazionale, e in essa i motivi cambiano così come altrove evolve la società. Ci appartiamo nell’arte. La patria d’un Boccaccio che ci ha dato ser Ciappelletto senza le precauzioni che prenderà, alla fine del suo capolavoro, Molière nel far sì che Tartufe possa essere rappresentato dopo aver riconosciuto in un finale opportunistico la magnanimità del re; e che ci ha dato Machiavelli, genio candido e scaltro. S’imbocca una strada lunghissima fino a oggi percorsa, ora orgogliosi della magnificenza creata dal prevalere del nostro senso estetico, ora sgomenti dell’abiezione sociale nella quale sprofondavamo.


“Il Mondo”, ritaglio senza data, ma 1975 

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