Pietro Bembo nel ritratto di Raffaello |
Nell’interesse verso le
espressioni della cultura popolare in epoca verista tra la fine
Ottocento e inizio del secolo scorso, trovò posto naturale il
proverbio quale sapienza ed espressione viva e concreta, degna di
giganteschi repertori come i celebri Proverbi siciliani di
Pitrè e dell’applicazione della scienza filologica alla ricerca di
fonti e alla definizione delle strutture.
Il tentativo ora compiuto
in una serie di saggi, frutto di un convegno tenuto all’Università
di Roma Tre a fine 2012, è quello di spostare l’attenzione e
l’indagine alla funzione del proverbio in opere schiettamente
letterarie: anzi, per la loro esemplarità, nei secoli letteratissimi
tra fine Quattro e quel
Seicento in cui il
proverbio è accolto con valore creativo nel contesto e nella forma
di opere letterarie, dal sussiego del Bembo al poema eroicomico di
Lippi, Tassoni e Francesco Bracciolini.
Per i letterati vigeva
ancor prima la tradizione paremiologica della tarda grecità e i
nuovi repertori perfettamente organizzati non solo nelle inarrivabile
raccolte erasmiane già assai più letterarie che popolari, ma anche,
per rimanere in casa nostra, nella raccolta pioneristica del
Proverbiorum libellus di Polidoro Virgili che, pubblicato a
Venezia nel 1498, ebbe solo la sfortuna d’incappare due anni dopo
nella Adagiorum collectanea del mago di Rotterdam, prodromo
delle Adagiorum chiliades dei decenni successivi.
I Motti di Pietro
Bembo, di cui si occupa negli Atti di questo Il proverbio nella
letteratura italiana dal XV al XVII secolo (Vecchiarelli editore,
2015) Luca Marcozzi, furono composti fra 1506 e 1508 a Urbino.
Strutturati in 312 endecasillabi a rime baciate, spiegano un
contenuto festoso in un ambiente cortigiano, sicché furono espunti
dall’autore stesso dal catalogo delle sue opere e rimasero
manoscritti fino alla pubblicazione di Vittorio Cian nel 1888. Molti
sono riconducibili ai recentissimi repertori di Polidoro e di Erasmo,
ma per una cinquantina si deve risalire direttamente ai fluenti
repertori della classicità. E la scelta è, prevedibilmente, tale da
permettere scambi e incastri anche verbali con le Rime stesse
(1530). Esorta uno dei Motti bembiani: «Misero, tristo, a che cosa
ti sfaci, | e perché non più tosto vivi e taci?»: e nel finale di
una canzone s’incontra: «Che parli, o sventurato? | a cui ragioni?
a che così ti sfaci, | e perché non più tosto piagni e taci?».
Al Bembo segue l’Aretino,
nelle cui opere, le satirico-pasquinesche come le commedie, i
dialoghi e le lettere, in forma più o meno diversa, le formule
proverbiali trovano allegro e proprio posto, appannaggio soprattutto
di figure depositarie del sapere e del linguaggio popolaresco con le
sue particolari strutture: servi, comari, cortigiane (si veda il
saggio di Paolo Marini, Formule proverbiali e sentenziose in
Pietro Aretino). Il sapere arcaico, contadino e pastorale,
ispirato a consapevole moderazione anziché a ideali difficili ed
eroici, introduce ironia più o meno consapevole nell’opposto mondo
aulico e cavalleresco. Nell’incontro e scontro servo-padrone,
povero-ricco, giovane-vecchio, incolto-colto, forbito-scollacciato
s’instaura così quella che Marini definisce «una dialettica
alto-basso», fino all’incomunicabilità; e mediante la velatura
proverbiale si configura e risplende la particolare concretezza del
sapere e della parola dello strato subalterno della società.
Ma anche nell’àmbito
della lirica il proverbio compare, come già insegnato dal Petrarca,
soprattutto nel finale dei componimenti quale riassunto del senso
dell’intero testo e chiusa epigrammatica comoda e prefabbricata di
forte incisività. Come in questa ultima terzina di un sonetto
ammonitore del Tebaldeo a un amico: «Chi troppo se alza è forza che
ruine, | barca che al vento sia non può star quieta, | chi vól rose
convien che entri in le spine» (citato nel saggio di Franco Tornasi
dedicato appunto alla lirica quattro-cinquecentesca).
Come si può poi
facilmente immaginare, il proverbio si trova a casa sua nel poema
eroicomico, dove già nel titolo del genere sono alla loro più alta
temperatura tutti i contrasti sopra indicati, come anche sulle labbra
di Sancho Panza - e ancora assai più tardi su quelle di Sam Weller
servitore di Samuele Pickwick nel Cicolo Pickwick di Dickens.
Disseminato a volte in un’ottava di quei poemi, altra volta esso le
riempie per intero con sequenze incalzanti: «La pentola sul colmo
del bollire | s’insala, e ’1 ferro batte-si vermiglio, | e chi
non coglie in sua stagion le frutta, | marce le spera e per le vie
butta» si ha nel buffo Torracchione desolato di Bartolommeo
Corsini, citato in «Il proverbio nel poema eroicomico seicentesco»
di Massimiliano Malavasi.
Il culmine è attinto
probabilmente in pieno Seicento nel Malmantile racquistato di
Lorenzo Lippi, dove l’addensamento dei modi di dire raggiunge
ermetismi linguistici fiorentini strabilianti: «Qui, dice il Re, si
dà sempre in budella, | sicché mi cascan le braccia e l’ovaia; |
mentre costui a ogni cosa appella | e co’ suoi punti mena il can
per l’aia» ecc. E ancora in Lippi si hanno litanie del tipo: «Chi
pecora si fa, non si lamenti | se va del lupo a satollar i denti... |
e se ’1 gridare e il bravar loro vi assorda | il can che abbaia
raro avvien che morda» ecc. ecc.
“Il Sole 24 ore
Domenica”, 22 marzo 2015
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