Mentre la povertà
solleva unanime indignazione - combatterla è il solo modo per
rendere il mondo più giusto -, raramente si percepisce la ricchezza
come un problema. Ma la tempesta finanziaria fa riemergere il legame
tra l’una e l’altra. Insieme all’idea nata negli Stati uniti
più di un secolo fa di porre un tetto ai redditi più alti. E'
questo il tema dell'articolo che segue, tratto da un numero di “Le
Monde diplomatique” del 2012 e tradotto per l'edizione italiana
curata dal “manifesto” da G. P. L'autore è ricercatore associato
all’Institute for Policy Studies (Washington DC) e caporedattore
del sito Too Much (http://toomuchonline. org). Autore di The Rich
Don't Always Win: The Forgotten Triumph Over Plou-tocracy, 1900-1970,
That Created the Classic American Middle Class, Seven Stories
Press, New York, 2012.
Tra le rivendicazioni dei
militanti del movimento Occupy Wall Street, ce n’è una che affonda
profondamente le sue radici nella storia degli Stati uniti: stabilire
un tetto per i redditi alti. Dall’epoca dorata del dopoguerra
civile americano, le grandi mobilitazioni a favore della giustizia
economica hanno sempre riproposto questa richiesta, oggi chiamata
«salario massimo». La formula, che non si riferisce solo al
salario, ma alla totalità dei redditi annui, permette di creare un
legame di contiguità con la nozione di «salario minimo».
È il filosofo Felix
Adler - noto soprattutto per avere fondato e presieduto, all’inizio
del XX secolo, il National Child Labor Committee - che, per primo, ha
avanzato questa rivendicazione. Riteneva che fosse lo sfruttamento
dei lavoratori, giovani e vecchi, a produrre quelle immense fortune
private che esercitano un’«influenza corruttrice» sulla vita
politica americana. Per porvi un freno, proponeva di realizzare una
fiscalità fortemente progressiva che, oltre una certa soglia,
arrivasse anche al 100% d’imposizione. Un tasso che avrebbe
lasciato all’individuo «tutto ciò che può veramente servire alla
realizzazione di una vita umana» e gli avrebbe tolto «ciò che è
destinato allo sfoggio, alla superbia, al potere».
Malgrado l’ampio spazio
dato dal New York Times all’appello di Adler, bisogna aspettare il
primo conflitto mondiale perché la nozione di «salario massimo»
conosca una traduzione legislativa. È infatti per finanziare lo
sforzo bellico che i progressisti propongono di tassare nella misura
del 100% i redditi superiori ai 100.000 dollari (cioè 2,2 milioni di
dollari nel 2010).
Il gruppo che sostiene la
misura, l’American Committee on War Finance, conta su duemila
volontari disseminati in tutto il paese. Pubblica nei giornali dei
tagliandi staccabili che i lettori possono firmare, impegnandosi così
a «operare per la promulgazione rapida di una legge» sulla
limitazione dei redditi: una «coscrizione della ricchezza», secondo
le parole del comitato. «Se lo stato ha il diritto di confiscare la
vita di un uomo per soddisfare l’interesse generale, allora deve
certamente poter requisire la ricchezza di alcuni per le stesse
ragioni», dichiara il suo presidente, l’avvocato Amos Pinchot,
davanti al Congresso, prima di sottolineare che il 2% degli americani
detiene il 65% dell’insieme delle ricchezze del paese. «Gli Stati
uniti, così come qualsiasi altro paese, non possono condurre una
guerra che serva sia gli interessi dei plutocrati che quelli della
democrazia. Se la guerra serve Dio, non può servire Mammona»,
conclude. Pinchot e i suoi compagni progressisti non hanno vinto la
battaglia, ma la loro campagna ha profondamente modificato la
fiscalità nazionale: il tasso d’imposizione superiore sui redditi
che superano il milione di dollari passa dal 7% nel 1914 al 77% nel
1918.
La «paura rossa» che
segue la prima guerra mondiale annienta le speranze di un’America
più egualitaria. Tornata al potere, la destra fa di nuovo degli
Stati uniti una nazione accogliente per i molto ricchi. Negli anni
’20 si assiste a un rapido processo di concentrazione della
ricchezza. Al Congresso, democratici e repubblicani si battono per
ottenere una riduzione delle tasse sugli alti redditi. Nel 1925, il
tasso d’imposizione massimo è del 25%.
Ma la crisi del 1929, che
porta l’economia sull’orlo del baratro, sposta nuovamente gli
equilibri. Nel 1933, un quarto dei lavoratori americani è senza
lavoro. Ricompare la rivendicazione di un tetto dei redditi. In
Louisiana, Huey P. Long, giovane senatore in ascesa, lancia il
movimento Condividiamo la nostra ricchezza, che si estenderà
in tutto il paese. Propone di stabilire un tetto di 1 milione di
dollari per i redditi annui individuali - il che rappresenterebbe più
di 15 milioni di dollari nel 2010 - e di 8 milioni di dollari per il
patrimonio.
Nel giugno 1935, il
presidente Franklin Roosevelt scandalizza l’America facoltosa
annunciando la sua intenzione di «fare pagare i ricchi» per
risolvere la crisi. Crea allora una tassa del 79% sui redditi
superiori a 5 milioni di dollari (circa 78 milioni di dollari nel
2010). La decisione - e l’assassinio di Long nell’agosto 1935 -
allontana per un po’ l’idea di un reddito massimo. Ma questa
risorge nell’aprile 1942. Roosevelt, inspirato da diversi
sindacati, propone di creare un reddito massimo in tempo di guerra,
fissato a 25.000 dollari per anno (circa 350.000 dollari nel 2010).
Senza arrivare a tanto, nel 1944, il Congresso fissa il tasso
d’imposizione dei redditi superiori a 200.000 dollari a un livello
ineguagliato: il 94%.
I più ricchi
avrebbero un interesse personale e diretto al benessere dei meno
ricchi
Nel corso dei due decenni
successivi - un periodo di grande prosperità per la classe media
americana -, il tasso d’imposizione superiore si aggira attorno al
90%, prima di scendere a meno del 70% durante la presidenza di Lyndon
Johnson (novembre 1963-gennaio 1969). Con Ronald Reagan, il tasso si
riduce ancora, per arrivare al 50% nel 1981, poi al 28% nel 1988.
Oggi, è al 35%. Ed è già troppo, secondo alcuni. Ma,
fortunatamente per più ricchi, la maggior parte dei redditi da loro
dichiarati proviene dai guadagni da capitale, dai profitti realizzati
grazie all’acquisto e alla vendita di azioni, obbligazioni e altri
attivi, i quali sono tassati solo nella misura del 15%. Una
statistica riassume l’evoluzione: nel 2008, i quattrocento
contribuenti più ricchi hanno intascato 270,5 milioni di dollari
ciascuno e pagato il 18,1% d’imposte allo stato federale; nel 1955,
avevano guadagnato 13,3 milioni di dollari (in dollari costanti,
tenuto conto dell’inflazione) e pagato il 51,2% di tasse.
Il dibattito si è
spostato. Oggi, gli eredi di Adler, Pinchot e Long si focalizzano
sulle imprese più che sugli individui. Secondo loro, i diversi
livelli del potere (locale, statale, federale) dovrebbero utilizzare
il fatto che le imprese private ricevono soldi pubblici - sotto forma
di ordinazioni di stato, di sovvenzioni allo «sviluppo economico» o
di vantaggi fiscali - per esigere da loro nuove politiche salariali.
Neppure un dollaro proveniente dalle imposte dovrebbe finire nelle
casse di imprese che pagano i loro dirigenti dieci, venti, se non
cinquanta volte più dei salariati (I grandi manager americani
guadagnano attualmente trecentoventicinque volte più del salario
settimanale medio). «Oggi lo stato federale rifiuta di firmare
contratti con imprese che hanno pratiche di reclutamento razziste o
sessiste. Lo stesso principio potrebbe essere invocato per rifiutare
contratti a quelle che, con i salari esorbitanti dei loro dirigenti,
aumentano le disuguaglianze economiche della nazione », sostiene un
rapporto dell’Institut for Policy Studies.
Lo scolpo ultimo? Un vero
salario massimo, indicizzato sul salario minimo, che assumerebbe la
forma di una fiscalità fortemente progressiva, così come aveva
proposto Adler un secolo fa. Il massimo sarebbe definito come un
multiplo del minimo e ogni reddito superiore a dieci o venticinque
volte questo minimo sarebbe colpito da un’imposta del 100%. La
disposizione incoraggerebbe e alimenterebbe quasi immediatamente una
forma di economia solidale: per la prima volta, i più ricchi
avrebbero un interesse personale e diretto al benessere dei meno
ricchi.
Prima del movimento
Occupare Wall Street, una simile prospettiva non era che una fantasia
politica. Ora non più. Segno dei tempi: due eminenti universitari
americani, uno giurista a Yale e l’altro economista a Berkeley,
hanno pubblicato sul New York Times una convincente perorazione a
sostegno di una riforma fiscale che limiti il reddito medio dell’
1% degli americani più ricchi a trentasei volte il reddito mediano.
Oggi il salario minimo è considerato un dato sociale acquisito.
Perché non il salario massimo?
“le monde diplomatique
– il manifesto”, febbraio 2012
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