1.
C’era una volta in Italia una borghesia che da “compradora” è
divenuta “vendedora”.
Ho usato questo incipit
non per il vezzo di parafrasare il titolo del bel film di Sergio
Leone, ma solo per evocare quell’atmosfera e narrare la “favola”
triste di tale mutazione ai giovani che, spesso, non comprendono le
ragioni per le quali nel nostro Paese si continua a privatizzare, a
vendere a stranieri pezzi pregiati della nostra industria, quartieri
e alberghi di lusso, società di calcio, ecc.
Si vende e si compra come
un tempo avveniva nei paesi colonizzati e/o neo-colonizzati,
soprattutto dell’America latina, da parte di una borghesia
compradora, un mix di capitali metropolitani e locali, che si
accaparrava di tutto a prezzi vili; un ceto sociale molto speciale
che svolgeva una funzione predatrice delle risorse endogene (terra,
manifatture, trasporti, banche, servizi, ecc) e, al contempo, di
mediatrice fra masse sfruttate e oligarchie coloniali.
Oggi tale “modello”
(ovviamente riverniciato) comincia a prendere piede anche in taluni
paesi sviluppati dell’Europa, specie in quelli più deboli della
fascia sud-mediterranea (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, un po’
anche Francia) e del centro-est di recente incorporazione nella U.E.
Non c’è più il
colonialismo (che, a ben pensarci, fu una delle prime forme
d’internazionalizzazione capitalistica dell’economia), ma la
globalizzazione neo-liberista che abbatte le barriere dei mercati di
beni e servizi, viola i confini degli Stati per importare
(illegalmente) decine di milioni di “nuovi schiavi” per
destrutturare i “mercati” del lavoro a suo vantaggio e che ora
punta al grande shopping d’imprese produttive, società finanziarie
e calcistiche, anche fra le più rinomate e longeve.
In misura diversa,
l’intera Europa sta subendo l’assalto del capitale
extracomunitario, anche d’incerta origine sul piano legale e di
quello di origine rentiere e parassitaria.
La chiamano “libera
circolazione dei capitali e degli investimenti”. Troppo libera-
direi- poiché imperversa senza limiti e regole trasparenti e per
fini non sempre lineari e dichiarati.
Come si può intuire
dalla sottostante lista, l’Italia è uno dei paesi presi di mira:
http://www.mezzostampa.it/politica/6912_italia-terra-di-conquista-aziende-storiche-vendute-allestero.xhtml
2.
Oltre
questa lista, gli acquisti sono continuati.
Recentemente, altri
“gioielli” dell’economia nazionale sono stati venduti a
stranieri: buon ultima la “Pirelli” ai cinesi.
Che triste destino per
questo nostro Paese! Da un lato ha visto partire, de-localizzare
decine di migliaia d’imprese verso i territori poveri U.E. ed extra
U.E, (specie Cina, India, Brasile, ecc) e dall’altro lato arrivare
compratori provenienti da quelle stesse realtà.
“Todo cambia” dice
una bella canzone di Mercedes Sosa. Anche questa borghesia fedifraga
che, in nome della “patria”, trascinò il popolo italiano in due
disastrose guerre mondiali, e che oggi, immemore del suo spirito
borghese e patriottico, da “compradora” diventa “vendedora”.
Insomma, si stanno
mischiando le carte, arrivano capitali freschi. Nessuno vuole
demonizzare il fenomeno. Non ci sfugge l’importanza degli
investimenti esteri per la nostra economia in affanno, vorremmo solo
che fossero leciti, puliti e non ri-puliti; sapere come si vuole
giocare la partita: se con il trucco o con regole certe e
trasparenti, senza ledere gli interessi strategici nazionali e quelli
sociali dei lavoratori coinvolti loro malgrado.
Ovviamente, c’è anche
un problema di salvaguardia dell’immagine,della tradizione del
paese, al limite della stessa sovranità economica nazionale ed
europea.
Si è creata così una
situazione inedita, caotica, per alcuni versi imprevedibile, che fa
nascere interrogativi angoscianti nella coscienza dei popoli europei
messi all’angolo da governi incapaci e servili.
Si tratta di libero
mercato o di una dittatura degli investimenti?
L’U.E. dei banchieri e
del dirigismo neo-liberista riuscirà a superare la crisi (non solo
economica) o l’Europa diventerà preda di pericolose incursioni e
di un espansionismo strisciante di varia provenienza?
Il pericolo
dell’espansionismo esiste, forse è già operante, mentre altri ne
vediamo comparire all’orizzonte. In primo luogo, la bozza di
trattato TTPI (in fase negoziale fra Europa e Usa) che potrebbe
sfociare in una moderna “dittatura” degli investimenti, a tutto
danno delle prerogative di sovranità degli Stati nazionali e dei
diritti dei lavoratori.
Perciò, è bene
parlarne, responsabilmente, per avviare una riflessione e una lotta
decisa per un futuro, ancora possibile, di pace e di prosperità
condivisa. L’Europa tentenna, l’Italia naviga a vista. La via
d’uscita non s’intravvede. Chi ha sbagliato non può continuare a
decidere in solitudine. Le scelte di fondo non possono essere
appannaggio esclusivo dei decisori di Bruxelles, ma vanno assunte dai
popoli europei, sovrani, magari mediante un voto referendario.
3.
Siamo di fronte a una realtà ostica, incandescente che potrebbe
costituire il principale banco di prova della “nuova sinistra” da
più parti invocata e che non può nascere da un glorioso raduno di
reduci, ma da un nuovo movimento politico, da un nuovo pensiero.
Per risultare credibile
il nuovo soggetto politico dovrà analizzare i fenomeni sociali, gli
assetti di potere, le nuove tendenze con rigore scientifico e
coerenza sociale, con la ragione e non con il sentimento che è la
commozione del pensiero. E, per non sbagliare, mantenere come punto
di riferimento costante il progresso e il benessere delle larghe
masse popolari.
In particolare, si
richiede una lettura della crisi mondiale senza tabù e accanimenti
ideologici, sapendo che la nuova sinistra, da sola, non potrà
farcela e pertanto deve ricercare le necessarie alleanze,
programmatiche e politiche, con i ceti sociali (anche di tendenza
nazional-popolare) vittime dei processi di “globalizzazione”
selvaggia che attira verso l’Europa flussi di capitali leciti e
illeciti, merci e organizzazioni criminali.
Quasi sempre all’insegna
dell’illegalità, dell’elusione e dell’evasione fiscali, senza
un controllo democratico degli Stati né, tanto meno, della
burocrazia di Bruxelles.
Insomma, il varco è
stato aperto e ognuno s’infila, come può. I nuovi “compradores”
agiscono senza freni: acquistano tutto quel che luccica sul mercato
con la complicità di una borghesia “vendedora” che (s)vende al
migliore acquirente, mentre continua a trasferire impianti di
produzione nei paesi emergenti.
Una deriva che provoca
disoccupazione (specie giovanile), illegalità e insicurezza diffuse,
corruzione, evasione fiscale, ecc. e crescente malcontento popolare.
La sinistra non può
regalare alla destra, ai demagoghi di turno il compito di combattere
contro queste piaghe. Poiché, la legalità è un valore fondante e
ineludibile, in primo luogo per la sinistra.
4.
A fare le spese di questo
disinvolto turismo di capitali e d’impianti sono le fasce sociali
più deboli, soprattutto lavoratori e giovani inoccupati europei,
doppiamente fregati in termini di disoccupazione e di attacco ai loro
diritti contrattuali. Questo clima ha reso possibile in Italia il
varo del “Job act”.
Pagano anche gli Stati
che devono sobbarcarsi ingenti oneri a copertura della maggiore spesa
sociale derivata.
Tutto ciò è anche il
risultato della teoria del “Meno Stato e più mercato”, uno
slogan efficace che sintetizza una grossolana filosofia revanchista
delle relazioni sociali, da cui prese avvio il disegno neo-liberista
che ha portato i popoli al disastro economico e sociale e accelerato
il processo di decadimento dell’Europa.
A fronte di ciò serve
poco lo scatto d’orgoglio. Quel che serve - fra le tante cose- è
una nuova politica economica, una svolta nella politica estera
euro-mediterranea basata sulla cooperazione pacifica, reciprocamente
vantaggiosa.
La regione
euro-araba-mediterranea ha bisogno di pace, di scambi culturali e
commerciali e non di guerre, di missioni “umanitarie” che, invece
di spegnere, alimentano i conflitti tribali e religiosi.
L’obiettivo dovrebbe
essere quello di far convergere, a sostegno di un grande programma di
rinascita, tecnologie e saperi italiani, europei e capitali e
risorse dei paesi arabi per creare uno spazio economico comune, da
intendere come primo nucleo di un nuovo polo dello sviluppo mondiale.
Una prospettiva ancora
possibile nella quale gli Stati, le istituzioni democratiche europee
hanno da giocare un ruolo importante. Altro che “ meno Stato e più
mercato”! Anzi, visti i pessimi risultati, è tempo d’invertire
la formula e propugnare “Più Stato e meno mercato”.
Non per innalzare il
vessillo del socialismo (ir)reale o per mera rivendicazione
ideologica (che pure ci sta), ma per assicurare al settore
“pubblico”, allo Stato, risanato e ammodernato, un ruolo di
equilibrio, di compensazione, di orientamento programmatico e,
quindi, di tutela degli interessi sociali e strategici nazionali.
Qualcosa del genere
successe in Italia ai (bei) tempi del boom economico (anni ‘60 e
’70) realizzatosi in un contesto di economia mista in cui la
componente pubblica e cooperativistica si attestava intorno al 40 %.
IlPuntodue.it, 9 aprile
2015
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