Cesare Segre |
Le edizioni della Chanson
de Roland e dell'Orlando furioso hanno iscritto da tempo
il nome di Cesare Segre fra i grandi maestri della filologia romanza,
dentro la costellazione che annovera Pio Rajna, Michele Barbi e,
ovviamente, Gianfranco Contini. Di quest'ultimo (che lo volle,
giovanissimo, suo coadiutore per i Poeti del Duecento editi da
Ricciardi nel 1961) lo studioso milanese ha sempre condiviso l'idea,
la cui netta formulazione in forma di endiadi proveniva da Giorgio
Pasquali, che non può esistere filologia in assenza di critica, e
viceversa. Dunque non deve stupire che l'editore della Chanson
e del Furioso sia il medesimo che ci ha insegnato a leggere
Cent’anni di solitudine di Garda Marquez, le Soledades
di Antonio Machado, le partiture deraglian-ti di Sklovskij e
Gombrowicz o, da ultimo, le pagine di Virgilio Giotti, di Franco
Scataglini e di Vincenzo Consolo, dove peraltro si rinviene una sua
ferma, mai esibita, opzione civile. È il Segre che i lettori hanno
imparato a conoscere da I segni e la critica (Einaudi 1968 e
2008), primo volume della serie dove la parola «critica» torna con
puntualità nei titoli e che culmina adesso in Critica e critici
(Einaudi, «PBE», pp. 238, € 19.00), un'opera valutabile, come già
le precedenti per ogni passaggio di fase, alla maniera di un
incremento e di un bilancio.
Lo stemma di Segre, col
tempo divenuto di senso comune, corrisponde fin dagli anni sessanta a
una osmosi di ecdotica e semiotica ovvero di filologia e
strutturalismo, secondo procedure poi esplicitamente formulate
nell'Avviamento all'analisi del testo letterario (Einaudi 1985
e '99). Il merito di Segre non è tanto quello di avere importato in
Italia, e in un periodo ancora ipotecato dall'eredità crociana, gli
strumenti dello strutturalismo quanto di averli immediatamente
scampati dagli stessi limiti su cui hanno a lungo insistito i
detrattori: l'abrogazione dell'incidenza storica nel testo e la
reticenza sul giudizio di valore. Che la procedura non fosse né
astorica né avalutativa lo si deve proprio al fatto che lo
strutturalismo e la semiotica in Italia fossero appannaggio (almeno
relativamente a Segre e ad altri della cerchia di «Strumenti
critici» o di «Lingua e stile», e qui su tutti il nome di D'Arco
Silvio Avalle) di maestri della filologia, la quale è disciplina
storica e valutativa per eccellenza. Se perciò la cosiddetta
Nouvelle critique e certi battistrada di «Tel Quel»
potevano invaghirsi di una analisi del testo asettica, come fosse una
totalità cartesiana e sincronicamente raggelata (perciò tradendo il
modello analitico della celeberrima lettura di Les chats di
Baudelaire a firma di Roman Jakobson e Claude Lévi-Strauss), per
Segre la direzione era opposta: «Il nostro strutturalismo mostrò
subito differenze decisive rispetto a quello francese (...) i
francesi, razionalisti, applicavano un metodo deduttivo (esempio
limite quello di Greimas), gli italiani, realisti, quello induttivo;
perciò i francesi puntavano a grandi teorizzazioni mentre gli
italiani teorizzavano di solito in funzione delle loro analisi
critiche».
È un passo, in Critica e
critici, tratto dal profilo di Leo Spitzer e pertanto di un linguista
e filologo romanzo divenuto per forza di cose un eminente critico
letterario: tracciato per tutt'altra via, tale è il cammino di
Segre, che fu allievo del linguista Benvenuto Terracini, del filologo
Santorre Debenedetti e infine di Contini, vale a dire un linguista
che divenne il combinato disposto di critica e filologia. Il nome di
Leo Spitzer inaugura la prima parte di Critica e critici che
circoscrive, nel lungo periodo, il campo di Cesare Segre.
Sono ritratti, bilanci
bio-bibliografici, talora memorie autobiografiche che con la consueta
limpidezza di lingua e di stile ritmano il suo percorso individuale
mentre propongono delle vere e proprie intersezioni. Persuaso che
nell'ottica di un critico non siano i testi a doversi diluire nella
storia ma debba essere la storia, semmai, rintracciata nei testi
(così suona il titolo di un suo fortunato manuale scolastico,
redatto anni fa con Clelia Martignoni), vicino ai nomi di Spitzer e
Contini non possono mancare quelli di Erich Auerbach e di Jurij
Lotman unitamente ad altri relativamente meno prevedibili, come
Cesare Brandi, Meyer Shapiro, Jean Starobinski e infine Cesare Cases,
il cui ricordo commosso si libera nell'aforisma che sa restituire al
presente il tratto decisivo di un uomo davvero indimenticabile: «Fu
lukacsiano, goldmanniano, marxista? In qualche misura sì, ma fu,
prima e sopra, intelligente. L'intelligenza è l'elemento dominante e
qualificante di tutto il suo lavoro».
Il nome di Michail
Bachtin si accampa invece nella seconda sezione del volume, dedicata
alla teoria della letteratura e a riprova di almeno due fatti: il
primo, risaputo, rimanda al fatto che Segre è il massimo
interlocutore di Bachtin in Italia e insieme un suo attivo ricettore
(e basterebbe citare, per lo studio del romanzo, la fecondità del
concetto di «cronotopo»); il secondo, niente affatto ovvio,
ribadisce la sua capacità di misurarsi con una materia di più
incerta e più complessa formalizzazione rispetto alla poesia, cioè
la prosa di romanzo, che lo strutturalismo alla francese ha preteso
di sbrigare con gli algidi grafemi di Greimas o coi moduli seriali,
non sempre perspicui o talvolta fin troppo perspicui, di Gérard
Genette. Qui Bachtin, in un saggio di comparatistica critica, viene
messo al cospetto di Contini e in una prospettiva dove si
fronteggiano e si oppongono le categorie di «polifonia» e di
«espressionismo» coi nomi primi di Rabelais e Dostoevskij da un
lato e di Carlo Emilio Gadda dall'altro. È un saggio baricentrico
che lascia tuttavia al lettore una conclusione cui Segre, con grande
tatto e costante riconoscenza per il maestro, non può o non vuole
arrivare: e cioè, sia detto senza alcuna iattanza, la sordità di
Contini alla forma-romanzo e la sua costante fedeltà (crociana,
sottotraccia) alla lirica come espressione privilegiata e persino
esaustiva della letteratura, di cui sono conferma sia il credito
costante alla simil-lirica presto battezzata prosa d'arte sia gli
specifici saggi di settore, dallo splendido, già indiziatissimo in
tal senso, saggio giovanile su Proust alle pagine mature su Gadda
dove la categoria di «espressionismo» continua a sembrare più un
alzo zero del codice lirico, la sua definitiva apertura, che non una
plausibile chiave d'accesso alla plasticità centrifuga/centripeta
della forma-romanzo. (Segre in persona ne diede virtualmente una
prova nel saggio memorabile, contenuto nei Segni e la critica, in cui
riconduceva al suo alveo più modesto lo scrittore palermitano
Antonio Pizzuto, colui che era stato il dernier cri dello stesso
Contini).
Nemmeno è un caso che la
terza parte di Critica e critici, muovendo dal Furioso, culmini in un
saggio sul Chisciotte, che di tutti gli immaginabili romanzi rimane
l'archetipo: «La grande scoperta di Cervantes è stata quella di non
aderire a priori a uno dei mondi possibili». Anche il fatto che
Cesare Segre metta al centro della riflessione e proponga con
perfetta ostinazione ai suoi contemporanei la parola «critica»
equivale a un richiamo, anzi alla ferma persuasione che noi, dopo
tutto, non viviamo nel migliore dei mondi possibili.
"alias il manifesto la
talpa", 29 luglio 2012
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