E' morto Juan Gelman
(1930 – 2014), poeta e argentino. Trattandosi di un poeta c’è da
chiedersi se è morto veramente. Perché i poeti pensano alla signora
con la falce come fosse la negazione della poesia, metafora del
vuoto, un foglio bianco e muto. I1 poeta cancella la morte con la
parola e può dire con Juan Gelman: «Queste parole sono più vere di
me» (La pretesa). «Ciò che nomina/ ha il mare che porta
lontano» scrive il poeta argentino in Divergenze, una delle
sue poesie più recenti, «nella sua casa tutti possono entrare/ e il
suo tempo non cessa/ in ogni bocca». Ora, egli è morto, ma già ha
richiamato alla vigilanza perché da qualche parte appariranno le sue
mani «spinte dalla sua rabbia immortale» (La fine).
Walt Whitman, dal suo
canto, si allontanava «come l’aria» e «per rinascer dall’erba
che amo». Per trovarlo bisogna cercarlo «sotto la suola delle
scarpe», perché, comunque «in qualche posto mi sono fermato e
t’attendo», recitava.
Il poeta sente la
precarietà delle cose, precede la loro scomparsa o l’accompagna.
Ed è proprio questa la vicenda storica e umana di Juan Gelman. Il
suo tempo si intreccia con l’Argentina della seconda metà del
secolo scorso delle molte incertezze e delle rovinose cadute. Soffrì
sulla propria pelle e pesantemente la tragedia dei desparecidos.
I generali golpisti gli tolsero Buenos Aires, lo costrinsero ad
«andare diviso in due» (Habana-Baires) e gli uccisero un figlio.
Vagò senza il conforto della sua esistenza e cercò la nuora rapita
con lui. Gli dissero che aveva partorito, ma non dove. Trovò la
nipote quando aveva 24 anni, ma non più la sua città («quasi
vivo,/ scrivo versi dapprima pianti/ perla città dove sono nato»).
È morto a Città del Messico dove risiedeva da una ventina di anni.
Fu comunista, castrista,
guevariano, montonero, traduttore, giornalista e non smise mai di
essere poeta pensando al necessario piuttosto che all’utile. «Con
questo poema non prenderai il potere» scrive e neppure servirà agli
operai e ai maestri per vivere meglio, per mangiare o per avere
qualche vantaggio, ma «si siede a tavola e scrive» (Fiducia).
Lascia una poesia
coinvolgente e affabulatrice, piena di volti, di voci e personaggi
incontrati, di luoghi che egli considera sempre sotto lo stesso
cielo. È tra le più alte e civili di lingua spagnola.
In una lettera del 9
maggio 1980 da Roma dove vive da esiliato, scrive: «Tutti gli uomini
sono umani e quello che c’è in me dovrebbe essere negli altri...
Posso offrire solo i raggi della luce che illuminavano la lotta per
la felicità, la generosità della morte, cioè della vita...».
E non c'è dubbio che sia
il lascito di un poeta generoso e profondo.
“Il Sole 24 ore
Domenica”, 19 gennaio 2014
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