8.6.15

Frammenti (dal "Diario minimo" di Umberto Eco)

Tra i “diari minimi” che nei tardi 50 e primi 60 Umberto Eco scriveva, questo – basato sulla tecnica dello straniamento – non ha la notorietà dell'Elogio di Franti o della Fenomenologia di Mike Bongiorno. A me pare in verità un piccolo capolavoro, godibile anche dai più giovani che non sono in grado di intendere tutte le allusioni, godibilissimo per chi lo usa anche per rievocare un “tempo perduto”. (S.L.L.)

IV Congresso Intergalattico di Studi Archeologici — Sirio, 4° Sezione del 121° Anno Matematico.

Relazione del Ch. Prof. Anouk Ooma del Centro Universitario Archeologico della Terra del Principe Giuseppe — Artide-Terra.

Chiarissimi colleghi,
non vi è ignoto che da gran tempo gli studiosi artici conducono appassionate ricerche per trarre alla luce le vestigia di quella antichissima civiltà che fiorì nelle zone temperate e tropicali del nostro pianeta prima che la catastrofe avvenuta nel cosiddetto anno 1980 dell'era antica, anno Uno dell'Esplosione, vi cancellasse ogni traccia di vita, in quelle zone che per millenni rimasero a tal punto contaminate dalla radioattività che solo da pochi decenni le nostre spedizioni possono avventurarvisi senza soverchio pericolo per cercare di rivelare alla Galassia intera il grado di civiltà raggiunto dai nostri antenati. Rimarrà sempre un mistero come degli esseri umani potessero abitare plaghe così insopportabilmente torride e come quelle genti si siano potute adattare al pazzesco sistema di vita imposto dal vertiginoso alternarsi di brevissimi periodi di luce a brevissimi periodi di oscurità; eppure sappiamo che gli antichi terrestri, in questo abbacinante carosello d'ombre e di luci, seppero trovare ritmi di vita ed edificare una civiltà ricca e articolata. Quando, circa 70 anni fa (era l'anno 1745 dell'Esplosione), dalla base avanzata di Reykjavik - il leggendario Avamposto Sud della civiltà terrestre - la spedizione del Prof. Amaa A. Kroak si spinse sino alla landa detta di France, il mai dimenticato studioso stabilì inequivocabilmente come l'azione combinata della radioattività e del tempo avesse distrutto ogni traccia fossile. Già si disperava dunque di conoscere qualcosa circa i nostri lontani progenitori quando nel 1710 d. E. la spedizione del Prof. Ulak Amjacoa, avvalendosi dei ricchissimi mezzi messi a disposizione dalla Alpha Centauri Foundation, facendo dei sondaggi nelle acque radioattive del lago di Lochness, reperiva quella che viene oggi comunemente indicata come la prima "criptobiblioteca" degli antichi terrestri. Murata in un enorme blocco di cemento stava una cassa di zinco recante incisa la scritta: "Bertrandus Russel submersit anno domini MCMLI". La cassa, come voi ben sapete, conteneva i volumi dell'Enciclopedia Britannica, e ci fornì finalmente quella enorme mole di notizie sulla cultura scomparsa, su cui basiamo oggi gran parte delle nostre conoscenze storiche. Ben presto altre criptobiblioteche venivano ritrovate in altri paesi (celebre quella trovata in Terra di Deutschland, in una cassa murata che recava l'iscrizione "Tenebra appropinquante"), in modo che ci si rese ben presto conto di come gli uomini di cultura fossero stati gli unici, tra gli antichi terrestri, ad intuire l'approssimarsi della tragedia, e gli unici a porvi rimedio nell'unico modo che fosse loro consentito, salvando cioè per i posteri (e quale atto di fede fu quello di prevedere, malgrado tutto, una posterità!) i tesori della loro cultura.
Grazie a queste pagine, che non possiamo sfogliare senza un fremito di commozione, noi oggi, illustri colleghi, siamo in grado di sapere cosa quel mondo pensasse, cosa facesse, come sia giunto al dramma finale. Oh, ben so che la parola scritta è sempre insufficiente testimone del mondo che la espresse, ma come rimaniamo sconcertati quando ci manca anche questo preziosissimo aiuto! Tipico è il caso del "problema italiano", di questo enigma che ha appassionato archeologi e storici, nessuno dei quali ha saputo sinora rispondere alla ben nota domanda: come avvenne che in questo paese, che pure sappiamo di antica civiltà - come ci è testimoniato dai libri ritrovati in altre terre - come avvenne, dicevo, che non fu possibile reperire alcuna criptobiblioteca? Voi sapete che le ipotesi in proposito sono tanto numerose quanto insoddisfacenti, e ve le ricordo a puro titolo di preterizione:

1. Ipotesi Aakon-Sturg (così dottamente illustrata nel libro La Esplosione nel bacino mediterraneo, Baffing, 1750 d. E.): per un concorso di fenomeni termonucleari la criptobiblioteca italiana è stata distrutta; ipotesi sostenuta da solidi argomenti, perché sappiamo che la penisola italica fu la più battuta dalle esplosioni in quanto dalle coste adriatiche partirono i primi missili a testata atomica dando appunto inizio al conflitto totale.

2. Ipotesi Ugum-Noa Noa, esposta nel notissimo Esistette l'Italia? (Barents City, 1712 d. E.) dove, sulla base di attente consultazioni dei verbali delle conferenze politiche ad alto livello intercorse prima del conflitto totale, si perviene alla conclusione che l'Italia non sia affatto esistita; ipotesi che risolve il problema della criptobiblioteca, ma urta contro una serie di testimonianze che le opere in lingua inglese e tedesca ci danno sulla cultura di quel popolo (mentre quelle in lingua francese, come è noto, paiono ignorare l'argomento, suffragando parzialmente la tesi Ugum-Noa Noa).

3. Ipotesi del Prof. Ixptt Adonis (cfr. Italia, Altair, 22' sezione del 120° Anno Matematico), la più brillante senz'altro, ma la più debole, secondo la quale al tempo dell'esplosione la Biblioteca Nazionale Italiana era, per circostanze imprecisate, in uno stato di estrema decadenza, e gli scienziati italiani, ancorché intesi a fondare biblioteche pel futuro, erano seriamente preoccupati per quelle del presente e dovevano ingegnarsi ad impedir lo sfacelo dello stesso edificio contenente i volumi. Ora l'ipotesi rivela l'ingenuità di un osservatore non terrestre, disposto ad avvolgere di un alone di leggenda quanto concerne il nostro pianeta ed uso pensare i terrestri come un popolo che vive beatamente mangiando pasticcio di foca e suonando arpe di corna di renna: lo stato di avanzata civiltà cui erano pervenuti gli antichi terrestri prima dell'Esplosione, fa sì invece che sia impensabile una tale incuria, quando il panorama offertoci dagli altri paesi cisequatoriali rivela l'esistenza di avanzate tecniche di conservazione dei libri.

Col che si è al punto di partenza, e il più fitto mistero ha sempre avvolto la cultura italiana precedente l'esplosione, anche se per quella dei secoli anteriori esistono sufficienti documentazioni nelle criptobiblioteche di altri paesi. Si sono trovati - è vero - nel corso di scavi accuratissimi, esili e incerti documenti. Ricorderò la striscia di carta portata alla luce dal Kosamba, che contiene quello che egli ragionevolmente ritiene il primo verso di un lunghissimo poema: "M'illumino d'immenso..."; la copertina di quello che doveva essere un trattato di psicotecnica o di sociologia del lavoro ("Lavorare stanca", di un certo Paves, o Pavesa, come sostiene lo Sturg, questione peraltro controversa dato che la parte superiore del cimelio è molto consunta). E ricorderemo come la scienza italiana dell'epoca fosse indubbiamente progredita negli studi di genetica, anche se quelle conoscenze erano probabilmente usate ai fini di una eugenetica razzista, come è suggerito dal coperchio di una scatola che doveva contenere un farmaco per il miglioramento della razza, e che reca la scritta "Omo (alterazione del latino Homo e contrazione argotica dell'italico Uomo) più bianco del bianco". Ma è chiaro che nonostante tutti questi documenti nessuno avrebbe mai potuto esattamente puntualizzare la situazione spirituale di quel popolo, situazione che, mi sia consentito di dirlo, chiarissimi colleghi, è palesata appieno solo dalla parola poetica, dalla poesia quale coscienza fantastica di un mondo e di una situazione storica.

E se vi ho tediato con questi lunghi preliminari è per comunicarvi, ora, col cuore commosso, come io ed il mio valoroso collega Baaka B.B. Baaka A.S.P.Z., del Reale Istituto di Letteratura di Isola degli Orsi, abbiamo ritrovato in una zona impervia della penisola italiana, a tremila metri di profondità, racchiuso fortunosamente in una colata di lava provvidamente inabissatasi in seno alla terra nel rivolgimento spaventevole dell'Esplosione, consunto e slabbrato, mutilo in innumerevoli punti, quasi illeggibile ma ancora ricco di folgoranti rivelazioni, un libretto di dimessa apparenza e proporzioni, che reca sul frontespizio il titolo Ritmi e Canzoni d'oggi (e che noi, dal luogo del ritrovamento, abbiamo chiamato Quaternulus Pompeianus). Ben sappiamo, illustri colleghi, che canzone o canzona fu voce arcaica impiegata ad indicare componimenti poetici trecenteschi, come ci ricorda l'Enciclopedia Britannica; e sappiamo pure che ritmo, nozione comune alla musica e alle scienze matematiche, ebbe anche presso vari popoli un impiego filosofico e valse ad indicare una peculiare qualità delle strutture artistiche (cfr., della Criptobiblioteca Nazionale di Parigi, M. Ghyka, Essai sur le rythme, N.R.F. 1938): ciò induce a riconoscere dunque nel nostro quaternulus una squisita antologia dei componimenti poetici più validi di quella età, una antologia di liriche e canti che ci aprono gli occhi della mente su di un incomparabile panorama di bellezza e spiritualità.

La poesia italiana del xx secolo dell'era antica, fu poesia della crisi, virilmente conscia del destino incombente; e fu insieme poesia della fede, della purezza e della grazia. Poesia della fede: abbiamo qui un verso, ahimè l'unico leggibile, di quello che doveva essere un canto di lode dello Spirito Santo: "Vola, colomba bianca vola..."; mentre subito dopo ci colpiscono questi versi di un canto di giovinette: "Giovinezza, Giovinezza - primavera di bellezza...", le cui dolcissime parole ci evocano l'immagine di fanciulle avvolte in bianchi veli, danzanti nel plenilunio di qualche magico pervigilium. Altrove, troviamo invece senso di disperazione, di lucida coscienza della crisi, come in questa spietata rappresentazione della solitudine e della incomunicabilità che forse, se dobbiamo credere a quanto l'Enciclopedia Britannica dicsto autore, dobbiamo ascrivere al drammaturgo Luigi Pirandello: "Ma Pippo Pippo non lo sa — che quando passa ride tutta la città..." (e non trova forse questa immagine un suo non indegno corrispettivo in una poesia inglese della stessa epoca, il canto di James Prufrock del poeta inglese Thomas Stearns? ).

Furono forse questi fremiti di angoscia che spinsero la poesia italiana a rifugiarsi nel divertimento georgico e didascalico: ascoltate la pura bellezza di questi versi: "Lo sai che i papaveri — son alti alti alti..." (dove avete l'esitare timido dell'interrogativo, e poi la presenza maestosa e sublime di questi fiori tropicali, carnosi e svettanti, e questo senso dell'umana fragilità di fronte al mistero della natura) e ammirate l'ardita personificazione di questa terzina ("È primavera — svegliatevi bambine — dalle cascine messer Aprile fa il rubacuor...") in cui è chiara la derivazione dai riti di vegetazione — lo spirito della primavera e il sacrificio umano, forse un cuore di fanciulla, offerto alla divinità fecondatrice — riti a suo tempo analizzati in Terra di England nel volume di incerta attribuzione, The Golden Bough, che altri vorrebbero, The Golden Bowl (v. lo studio, non ancora tradotto, di Axbzz Eowrrsc, "Golden Bough” orx "Golden Bowl” — xpt agrschh clwoomai, Arturo, Sez., 1200 Anno Matematico).

Agli stessi riti di vegetazione, e più propriamente al rito frigio della morte di Attis, fummo tentati dapprima di riportare un altro bel carme che iniziava così: "È morto un bischero..." — carme trovato manoscritto in margine al libretto. Ma a parte l'incomprensibilità del sostantivo, ci colpirono i versi seguenti: "All'ospedale — senza le bale — senza cojon", la cui apparente oscurità ci fu chiarito dallo strano impiego della consonante "J", solitamente assente dal lessico italiano. Per una felice intuizione riconoscemmo in essa la "jota" spagnola e comprendemmo di avere tra le mani la traduzione ancora incompleta di una poesia iberica. Sappiamo come nessun testo spagnolo si sia mai salvato, poiché, come riferisce l'Enciclopedia Britannica, un ventennio prima dell'Esplosione le autorità religiose di quel paese avevano ordinato il rogo per tutte le opere prive di un particolare nulla osta. Ma attraverso le brevi citazioni reperite in libri stranieri si era da tempo delineata con sufficiente chiarezza la figura del mitico bardo catalano del XIX o del XX secolo, Federico Garcia, o, come vogliono alcuni, Federico Lorca, barbaramente ucciso, narra una leggenda, da venticinque donne che egli brutalmente sedusse. Le pagine critiche di uno scrittore tedesco del 1966 (C. K. Dyroff, Lorca: Ein Beitrag zum Duendegeschichte als Flamencowissenschaft) , ci parlano della poesia di Lorca come di un "essere-per-la-morte-radicato-come-amore, in cui lo spirito del tempo si nomina disvelando sé a sé per cadenze funebri danzate sotto un cielo andaluso". Queste parole si adattano singolarmente al testo citato e ci permettono anche di attribuire allo stesso autore altri splendidi versi, caldi di violenza iberica, stampati nel quaternulus: “Caramba yo songo espagnolo — yo tiengo lo sangue calliente — Son quell'espada che nella contrada vien chiamato Beppe Balzac...”. Mi sia consentito di dire, illustri colleghi, che oggi, quando gli spaziovisori riversano su di noi quotidianamente una tormenta di torbida musica orridamente scimmiesca, oggi, quando irresponsabili schiamazzatori di insulsaggini apprendono ai nostri figli canzoni dai versi assurdi — e notava acutamente il Zoal Zoal nel suo saggio Eclissi dell'uomo artico come un ignoto bandista sia giunto a mettere in musica uno sconcio canto caratteristico dei marinai ubbriachi ("No, non voglio vederlo — il sangue di Ignazio sulla sabbia"), ultima tappa del nonsenso industriale — mi sia dunque consentito di dire che queste parole immortali che ci giungono dalla notte dei tempi testimoniano della grandezza morale e intellettuale dell'uomo terrestre di duemila anni fa. Abbiamo sotto gli occhi una poesia che, anziché fondarsi sulla fumosa ricerca labirintica di un intelletto gonfio di cultura, si risolve in ritmi spontanei ed elementari, in purissima grazia fanciullesca; ed è il momento in cui si è portati a pensare che un Dio — non il travaglio creatore — presieda a tanto miracolo. La grande poesia si riconosce ovunque, signori: i suoi stilemi sono inconfondibili; si danno cadenze che rivelano la loro fratellanza anche se suonano dai poli opposti del cosmo. Ed è con gioia commossa che ho potuto infine procedere ad una dotta collazione, chiarissimi colleghi, inserendo alfine tre versi sparsi, rinvenuti su di un brandello di carta due anni fa tra le rovine di una città del nord Italia, nel contesto di un più disteso carme i cui elementi completi ritengo di aver trovato su due distinte pagine del quaternulus. Composizione squisita, ricca di letteratissime assonanze, gioiello dal sapore alessandrino, perfetto in ogni sua voluta:

Grazie dei fiori.
Tra tutti gli altri li ho riconosciuti:
son rose rosse e parlano d'amore.

Fresche le mie parole nella sera
ti sien come il fruscio che fan le foglie
del gelso nella man di chi le coglie...

Villa triste,
tra le mammole nascoste
e il cespuglio di ametiste
quante cose son rimaste...

Ma il limite concessomi per questa comunicazione, illustri colleghi, è scaduto. Altre cose vorrei leggervi, ma è certo che avrò modo di pubblicare e tradurre, una volta chiariti alcuni delicati problemi filologici, il frutto della mia preziosa scoperta. Vorrei oggi lasciarvi con l'immagine di questa civiltà ormai perduta che con occhio asciutto cantò la dissoluzione dei valori, con ilare castità disse parole di diamante fissando un mondo di grazia e di bellezza. E quando vi fu presentimento della fine, esso non fu disgiunto da profetica sensibilità; e dall'abisso insondabile e misterioso del passato, dalle pagine rose e consunte del quaternulus pompeianus, in un verso isolato su un foglio reso oscuro dalla rabbia delle radiazioni, noi ritroviamo come un presagio di ciò che sarebbe accaduto. Alla vigilia dell'Esplosione il poeta "vide" il destino della popolazione terrestre che avrebbe edificato una nuova e più matura civiltà sulla calotta polare e avrebbe trovato nel ceppo eschimese la razza superiore di un pianeta rinnovato e felice: vide che le vie del futuro avrebbero risolto in bene e progresso gli orrori dell'Esplosione; e non poté più provare paura o rimorso, sì che il suo canto si effuse in questo verso disteso come un salmo: "Cosa mi importa se il mondo mi rese glacial...".
Un solo verso; ma a noi, figli dell'Artide prospera e progressiva, giunge come un messaggio di fiducia e solidarietà, dall'abisso di dolore, bellezza, morte e rinascita nel quale intravvedemmo il volto vago ed amato dei nostri padri.

1959


In Diario minimo, Mondadori, 1963

1 commento:

Anonimo ha detto...

Un frammento di geniale ironia nello sconfinato abisso del web.

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