Francesco Stefano di Lorena |
"Si ruba
dappertutto, nel settore militare, nel settore civile, nelle finanze,
non si può citare alcuna magistratura, alcuna ricevitoria in cui il
principe non sia ingannato e il popolo vessato. L' ufficiale
generale, il governatore della piazza, il provveditore, il ministro,
tutti mangiano, per servirsi dei vocaboli del paese...".
Così scriveva da Firenze
il conte di Richecourt nel 1737, all'indomani del passaggio della
Toscana dai Medici ai Lorena. Incuriosito da questa filippica, che
non risparmiava quasi nessuno dei fiorentini più in vista, uno
storico francese, Jean-Claude Waquet, ha voluto accertare quanto
fondata fosse l' accusa di una così dilagante corruttela, e se le
cose fossero cambiate sotto il nuovo sovrano Francesco Stefano di
Lorena, marito di Maria Teresa d' Austria e futuro imperatore del
Sacro Romano Impero.
Waquet ha così scoperto
che, a voler elencare tutti i peculati commessi nel granducato (non
solo prima, ma anche dopo l' avvento dei Lorena), non sarebbe bastata
una vita, tanto ricorrente ed esteso era - e continuerà ad essere -
questo genere di crimine. Sono tuttavia sufficienti i casi più
significativi da lui esaminati - circa una cinquantina, nell'arco
temporale fra il Sei e il Settecento - per darci un' idea
dell'ampiezza e della frequenza del fenomeno, riscontrabile del resto
in altri Stati dell' epoca, e non solo italiani (La corruzione.
Morale e potere a Firenze nel XVII e XVIII secolo, Mondadori,
pagg. 260, lire 18.000). Emerge da queste pagine una trama così
densa e fitta di malversazioni e di imbrogli, dai più ingegnosi e
azzardati ai più comuni e abituali, che alla fine ci si chiede come
le finanze dello Stato abbiano potuto sopravvivere a tante
depredazioni, che s'andavano ad aggiungere a quelle provocate di
norma dagli sconquassi bellici, dagli sprechi della cattiva
amministrazione e dalle principesche dissipazioni della dinastia
regnante. In effetti, non c'era forziere pubblico - dalle casse dell'
annona e delle dogane a quelle delle furerie e dei Monti pii - in cui
i meccanismi della corruzione non affondassero le loro trivelle.
Persino i fondi dei lazzaretti subivano periodici saccheggi. E in più
di un' occasione capitò che a furia di scavare, i buchi si
trasformassero alla fine in autentiche voragini, tali da inghiottire
risorse imponenti e da mettere in pericolo le stesse fondamenta delle
istituzioni pubbliche.
Il caso più clamoroso e
drammatico fu il pauroso vuoto dell'"Abbondanza", l'
organizzazione cui era devoluto il compito di assicurare il
vettovagliamento di Firenze e di sfamare la popolazione in caso di
carestia, grazie all'accantonamento di cospicue scorte di generi
alimentari acquistate a basso prezzo durante le annate di buon
raccolto, e alla costituzione di notevoli somme di danaro per far
fronte ad eventuali acquisti d'urgenza. Si venne a sapere, nel 1747,
che per trent'anni il provveditore di tale granaio pubblico (che poi
era una delle più importanti istituzioni finanziarie fiorentine)
aveva saccheggiato a man bassa al punto da lasciare quasi vuoti i
magazzini, e da pregiudicare gravemente la possibilità di garantire
il rifornimento della capitale in caso di calamità.
A perpetrare simili
misfatti erano in genere funzionari e amministratori appartenenti
alle grandi famiglie della nobiltà fiorentina; i quali, proprio per
il loro alto lignaggio, avevano accesso alle cariche di maggior
responsabilità, quelle cioè per cui erano prescritte particolari
garanzie di probità e di devozione al bene pubblico. Pochi tra loro
ebbero la sfortuna di incappare nelle maglie della giustizia; gli
altri riuscivano spesso a farla franca. Quelli che avevano dei
parenti altrove, o i più audaci, lasciavano per tempo lo Stato e si
stabilivano lontano a godersi quanto avevano arraffato; altri
sparivano nell'istante stesso in cui si cominciava a nutrire qualche
sospetto su di loro; certuni, colti alla sprovvista, si rifugiavano
in fretta e furia in una chiesa o in un convento, al riparo
dell'immunità riconosciuta agli edifici ecclesiastici. Per i più
potenti, poi, non era mai detta l'ultima parola, giacché la grazia
del sovrano, anche in caso estremo, poteva tirarli fuori dai guai.
Ma l'intenzione di Waquet
non è quella di presentarci una galleria variopinta di corrotti e
corruttori di grande o piccolo calibro, sullo sfondo del progressivo
disfacimento di una prestigiosa casata e del difficoltoso
acclimatamento di un' altra ancor più angusta dinastia; e neppure di
raccontarci per filo e per segno certe magagne per il semplice gusto
dell' aneddotica storica o a scopi edificanti. Il suo obiettivo è di
capire perché, e in che modo, certi atti fraudolenti, del tutto
riprovevoli sul piano morale e di tale gravità sotto altri profili
da logorare il funzionamento dell'apparato statale, dissimulassero
una determinata funzione nei rapporti di forza e negli equilibri
politici e sociali. Depredare le ricchezze dello Stato, scroccare i
soldi di questo o quel cittadino per influenzare l'operato dell'
amministrazione, appropriarsi di beni privati con l'ausilio della
propria autorità pubblica, tutto ciò provocava senza dubbio, al di
là di ogni altra considerazione, danni rilevanti agli interessi
della collettività ed era perciò fonte di squilibri e disfunzioni.
In compenso, la corruzione procurava danaro e attribuiva potere: la
spoliazione dell'erario statale soddisfaceva, insomma, le ambizioni e
gli appetiti dei gruppi dominanti installati negli impieghi pubblici.
Occorre perciò considerare il fenomeno della corruttela in termini
problematici, valutare cioè quale ruolo concreto svolgesse.
Secondo lo storico
francese, le estorsioni e gli abusi di magistrati e amministratori
pubblici rappresentavano una forma latente di sovversione politica e,
al tempo stesso, un mezzo tortuoso di equilibrio sociale. Attribuire
la corruzione, come si faceva di solito, alle passioni umane
(l'interesse, l' avidità e così via), o a singoli errori di
condotta, e giudicarla quindi alla stregua di un qualsiasi altro
crimine individuale, non era che un esorcismo consolatorio, un modo
per mimetizzare o per non ammettere il carattere profondamente
sovversivo di tale reato. Non per questo si deve credere che nelle
organizzazioni d'ancien règime le leggi contro la corruzione
fossero più imprecise o più imperfette di quanto non lo siano oggi,
e neppure che la società fosse tanto permissiva come talora si è
voluto sostenere. Il punto fondamentale è un altro: lo stesso
sovrano non aveva interesse né a chiarire sino in fondo le cose, né
a calcare la mano. Per la stabilità delle istituzioni era assai più
opportuno che le malefatte di ministri e funzionari apparissero come
fatti di costume isolati e privi di conseguenze, come biasimevoli
colpe personali, piuttosto che come espressione di una sorta di
"colpo di Stato permanente", o delle degenerazioni di un
sistema burocratico intimamente ricattatorio, quali invece erano. L'
occupazione delle istituzioni e la spoliazione dello Stato servivano
infatti a una classe aristocratica che di denaro aveva gran bisogno
per restare in sella, per continuare a far valere le sue prerogative
nei confronti della monarchia assoluta.
Come dimostra lo storico
polacco Antoni Maczack in un saggio comparso di recente (su
“Prometeo”, 1986, n. 13), e come sta emergendo da alcuni studi
intrapresi in Francia e in altri paesi, l'indebito sfruttamento delle
cariche ricoperte o l'influenza che si poteva trarre dal controllo di
certi uffici, offrivano all'aristocrazia di toga e di corte la
possibilità non solo di conservare quel lussuoso tenore di vita che
essa si credeva tenuta a ostentare, ma anche di mantenere in piedi
una vasta rete di legami familiari e clientelari, di connivenze e
favoritismi. Era questo sistema di vincoli e di dipendenze, in cui il
più forte proteggeva e assisteva il più debole avendo in cambio
diritto ai servizi e alla lealtà di quest'ultimo, il fondamento del
potere aristocratico e costituiva, allo stesso tempo, una zona d'
ombra, nel funzionamento dei sistemi politici e nella vita delle
piccole comunità, che sfidava impunemente l'autorità suprema del
sovrano anche nel quadro dello Stato assoluto.
Che di tutto ciò il
monarca fosse perfettamente consapevole, risulta non solo dalla
tendenza dei suoi inquirenti a considerare la corruzione come un
"peccato privato", ma anche dal fatto che egli non usava
troppo l'arma del castigo contro i responsabili, per non scatenare le
reazioni di un parentado troppo influente o per non alienarsi la
devozione di altri rappresentanti della stessa casta. Così la
corruzione era doppiamente eversiva. Da un lato, dava luogo a
disfunzioni che compromettevano il ruolo delle istituzioni e
sottraeva risorse cospicue allo Stato. Dall'altro, oltre a fare la
fortuna di funzionari disonesti, generava un processo sia pure
impercettibile, ma non per questo meno micidiale, di corrosione del
potere supremo; che in tal modo scivolava a poco a poco dalle mani
del sovrano, finendo surrettiziamente in quelle di un gruppo sociale
privilegiato.
Il fatto che la
corruzione assolvesse a queste due funzioni (non soltanto in Toscana,
ma probabilmente anche altrove) potrebbe portare a una
riconsiderazione dei tempi e delle modalità di affermazione
dell'assolutismo monarchico. Nel senso, almeno, di valutare più a
fondo l'incidenza di certi meccanismi più nascosti e vischiosi di
riequilibrio dei poteri all'interno dell'apparato statale e della
realtà sociale. Di qui l'ipotesi che l'affermazione dello Stato
assoluto non fu affatto lineare e irreversibile, ma caratterizzata
piuttosto da lunghi tempi di adattamento, e comunque mai definitiva,
bensì sfilacciata da parecchie smagliature.
“la Repubblica” 30
marzo 1986
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