Docente alla
New York University, Andrew Ross scrive per «The Nation», «The
Village Voice», «Artforum». Il suo impegno di ricerca spazia dalla
sociologia del lavoro ai cosiddetti cultural studies.
Significativi sono i suoi contributi attorno al nesso tra
trasformazioni urbane e trasformazioni sociali e ai mutamenti del
mercato del lavoro a livello globale, purtroppo non tradotti in
Italiano. L’unico saggio di Andrew Ross apparso in Italia è nel
libro La testa del drago (Ombre corte).
Can't
Pay, Won't Pay, Don't Pay. Già in questo slogan - lanciato dalla
campagna «Occupy Student Debt» - c’è la potenza di Occupy Wall
Street: individua le radici materiali del debito, lo situa dentro la
crisi globale, traccia la composizione, fatta di studenti, precari e
lavoratori impoveriti che non ne vogliono pagare i costi, indica
obiettivi e forme di lotta. È un grido di battaglia contro la
finanziarizzazione della vita lanciato da quello che, almeno
simbolicamente, è il ventre della bestia. L’equazione politica -
la lotta sul salario sta al capitalismo industriale come la lotta sul
debito sta al capitalismo cognitivo - che fino a poco tempo fa
appariva come un azzardo teorico di una minoranza radicale si sta
semplicemente imponendo con la forza di un pregiudizio popolare.
Soprattutto, è incarnata in diffuse pratiche di resistenza che della
crisi costituiscono la radice soggettiva.
Allora, se
in soli pochi mesi tanto si è detto e scritto su Occupy Wall Street,
è anche per queste ragioni, oltre che per la sua nota lucidità
interpretativa ed efficacia di analisi, che rivestono una particolare
importanza le valutazioni di Andrew Ross. Docente della New York
University, noto per il suo impegno militante, autore di numerosi
saggi che spaziano dai cosiddetti cultural studies alle
trasformazioni del lavoro nel capitalismo contemporaneo. Ross è
infatti tra i promotori della campagna «Occupy Student Debt».
Come è
nata Occupy Wall Street, o per meglio dire quali ne sono state le
condizioni di possibilità e come sta cambiando il contesto
americano?
Gli eventi
politici spontanei sono sempre «possibili», non è facile prevedere
quando e dove avranno presa. Penso che se Occupy fosse stato un anno
o sei mesi prima, non sarebbe decollato nello stesso modo. Un fattore
da considerare è la tardività degli Stati Uniti: quando, ci siamo
chiesti tutti, le mobilitazioni globali si sarebbero diffuse nelle
città americane? Un altro fattore è che, con l’occupazione di
Wall Street, il disgusto popolare per il processo politico negli
Stati Uniti ha raggiunto una massa critica. Ricordo che solo qualche
settimana prima che l’occupazione cominciasse, Doug Henwood e Liza
Featherstone hanno fatto circolare un invito tra le persone di
sinistra di New York per contribuire a un convegno dal titolo «Why
Fucking Bother?» («chi cazzo se ne frega?»). Si proponeva di
incanalare o mitigare un condiviso senso di disperazione sulla
possibilità che qui accadesse qualcosa. Nondimeno, c’è stato un
cambiamento a 180 gradi del morale negli ultimi mesi. Io vivo negli
Stati Uniti da trent’anni e non ho mai visto qualcosa comparabile
alla forza o al senso del destino di cui questo movimento è
portatore. Quei trent’anni sono appartenuti a Wall Street, i
prossimi trenta possono e devono appartenere a noi se Occupy mantiene
la sua energia e creatività Il mio coinvolgimento nel movimento non
è atipico. È cominciato come residente (vivo non distante da
Zuccotti Park), poi c’è stata una rapida transizione all’esserne
partecipante, nelle prime manifestazioni di massa e nei gruppi di
lavoro su «Empowerment and Education», e infine a diventare
organizzatore nella nostra campagna «Occupy Student Debt». Come
molti altri che conosco, è stato estremamente facile essere attratti
nel movimento, che è come ci si dovrebbe sentire in un movimento.
Occupy
Wall Street è stato spesso presentato come evento imprevedibile.
Tuttavia, ci sono molte lotte che hanno preceduto e preparato il
terreno di questo movimento: per citare solo un paio di esempi, a New
York ci sono stati negli ultimi anni gli importanti scioperi dei
graduate students
e dei lavoratori dei trasporti. Pensi che ci sia un processo di
sedimentazione di soggettività e pratiche politiche nella genealogia
di questo movimento, oppure prevalgono gli elementi di cesura e
completa novità?
Ci sono
molti affluenti che sono sgorgati nel fiume di Occupy. Il movimento
per la giustizia globale è il più importante. Sul lato del lavoro,
penso che la capacità dei sindacati metropolitani di abbracciare il
movimento del lavoro universitario costituisca uno sfondo importante.
Per quanto riguarda gli elementi nuovi, certamente la crescente
consapevolezza rispetto al sistema del debito è un fattore centrale.
Resistere alla servitù del debito ha costituito una forma di vita
nei paesi del Sud globale negli ultimi trent’anni. Ora le
conseguenze del vivere nella trappola del debito hanno colpito i
paesi del Nord.
Qual è
la composizione del movimento, e quali sono le sue forme di
organizzazione e comunicazione?
All’inizio
la composizione degli occupanti era piuttosto circoscritta: la
maggior parte istruiti, bianchi, giovani, molti di loro si sono fatti
le ossa nel movimento per la giustizia globale, per altri questa è
la prima esperienzapolitica. Ora, tuttavia, la composizione è molto
differente: i sindacati del settore pubblico sono sempre più
coinvolti, c’è un insieme pienamente intergenerazionale di
soggetti, il gruppo di lavoro su «People of Color» è una presenza
importante. Il processo di consenso dell’assemblea generale è il
dna organizzativo del movimento, e sta cominciando a penetrare in
parti della società civile tradizionale. Per esempio, alcune delle
scuole superiori della città hanno rimpiazzato le loro forme di
rappresentanza studentesca con le modalità orizzontali
dell’assemblea generale. Si è dimostrata essere un modello vitale
di norme culturali. Poiché ogni gruppo può creare la propria
assemblea generale (ce ne sono molte in giro per New York), è una
struttura organizzativa che incoraggia e genera autonomia. Così, la
natura «faccia a faccia» di questa forma decisionale completa il
diffuso utilizzo dei social media volto a disseminare l’informazione.
In realtà, direi che il bilanciamento tra gli incontri fisici e
l’uso dei social media è un elemento chiave.
Puoi
spiegare come è nata la campagna «Occupy Student Debt»?
Fin
dall’inizio il tormento del debito studentesco è stata una
costante di Occupy Wall Street e delle occupazioni di altre città
George Caffentzis, Silvia Federici e io abbiamo fatto degli incontri
sul debito durante l’occupazione di Zuccotti Park. Abbiamo invitato
i partecipanti a formare un gruppo per costruire un’iniziativa di
azione che legasse la questione del debito studentesco al sistema
dell’istruzione superiore nel suo complesso. L’assunto centrale è
che i college e le università americane dipendono in misura
crescente dalla schiavitù del debito a cui sono costrette le persone
che invece dovrebbero servire. Così abbiamo creato una campagna che
richiama i nostri principi politici (l’atto di rifiuto, la minaccia
di uno sciopero del debito, la rivendicazione di un giubileo del
debito). È progettata per dare ai debitori la possibilità di agire
collettivamente piuttosto che soffrire il tormento e l’umiliazione
del debito e del default privato. Fondamentalmente la campagna chiede
a coloro ai rifiutanti di bloccare il pagamento del prestito quando
si sarà raggiunta la quota di un milione di sottoscrizioni, ed è
legato a quattro principi: tutte le università private devono essere
gratuite, i prestiti studenteschi devono essere sganciati dalle tasse
che vanno abolite, le università private devono aprire i loro libri
contabili, il debito esistente deve essere cancellato. Si può vedere
il sito: www.occupystudentdebtcampai-gn.org
La lotta
contro il debito è presentata come una pratica di riappropriazione
della ricchezza sociale. Da questo punto di vista, potremmo dire che
è un movimento costituente. Cosa ne pensi?
Concordo. La
nostra campagna è un’iniziativa di azione e non una lista di
domande, poiché condividiamo l'ethos di Occupy Wall Street per cui
le domande non possono essere rappresentate dal sistema politico
attuale, sotto la funesta influenza dei dollari delle aziende. Le
azioni che puntano a riappropriarsi della ricchezza e del potere non
sono solo in sé potenzianti, ma anche - come dite - costituenti di
un nuovo modello di cultura politica. La maggior parte dei
partecipanti si stanno rendendo conto di una trasformazione
soggettiva: il linguaggio è spesso di innocenza radicale, un sintomo
manifesto del sorgere di una nuova «struttura del sentire», per
dirla con le parole del teorico inglese Raymond Williams. Certamente
la classe politica tenterà di cooptarne alcuni, e non la vedo come
una risposta inattesa: non si può erigere un confine non poroso tra
un movimento e l’establishment-
Quali
sono i rapporti tra le union sindacali e il movimento?
I sindacati
degli impiegati pubblici non ha solo sostenuto, ma ha anche
pienamente partecipato al movimento. La solidarietà mostrata per gli
occupanti di Zuccotti Park da parte dei lavoratori del vicino
cantiere del World Trade Center è stato particolarmente importante.
I dirigenti sindacali e ancor di più i militanti della base hanno
espresso in modo molto esplicito il loro rispetto per i successi di
Occupy Wall Street nell’accumulare attenzione e generare impatto
politico. Si è così creato un gruppo sul lavoro proprio attorno
alle questioni del lavoro.
E quali
sono i rapporti tra Occupy Wall Street e l'università come luogo di
produzione e di conflitto?
La fase di
«Occupy Colleges» del movimento è appena iniziata, ma è il suo
naturale prossimo passo. Gli sgomberi di Zuccotti Park coincidono con
questi movimenti dentro le università a New York, in California e
altrove. A New York c’è ogni settimana un’assemblea generale
degli studenti dell’intera metropoli, continui appuntamenti della
People’s University alla NYU e alla New School, una serie di
iniziative e manifestazione studentesche di massa, incluso anche un
giorno di sciopero. Recentemente molta attenzione si è concentrata
sulle lotte contro l’aumento delle tasse alla City University of
New York (Cuny). Un tempo gratuita (è stata una delle università
della classe operaia più grandi del mondo), le tasse sono state per
la prima volta imposte agli studenti del Cuny all’alba della crisi
fiscale del 1976. Ciò è generalmente visto come il primo colpo che
in questo paese il neoliberalismo ha inferto alla formazione
pubblica. È un motivo in più per guardare al Cuny, in questo
momento altamente simbolico, come spazio per rovesciare la
situazione.
Ora il
movimento Occupy Colleges sta costruendo una rete nazionale. Alcuni
presidenti di università in particolare alla New School, si sono
mostrati disponibili, altri sono stati gravemente danneggiati dal
loro ricorso alla repressione poliziesca contro la libertà di parola
Come per Occupy in generale, ogni volta che la polizia agita i
manganelli o sgombera violentemente manifestanti pacifici, ciò
rovina il supporto pubblico per le autorità e fa crescere la
simpatia per il movimento. Forse è questa, più di ogni altra cosa,
la prova dell’impatto di successo del movimento.
“il
manifesto”, 9 dicembre 2011
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