L'immagine di Ponzio Pilato in un dipinto di Duccio di Buoninsegna |
La parola “astensione” compare nella nostra lingua tardi, in
maniera quanto meno dibattuta: Niccolò Tommaseo negli anni '60
dell’Ottocento inserisce nel suo celebre vocabolario il termine
indicandolo come morto nel significato di “atto dell’astenersi”,
specificando però subito dopo che “certi moderni” lo “usano
per l’astenersi che fa dal dare i suoi suffragi l’elettore, o
deputato, o altro simile” ma che “potrebbesi almeno dire
«astenzione»” [con la zeta, ndr] così da richiamare più
direttamente il latino “abstentio”, che si trova quasi
esclusivamente nel linguaggio dei giuristi romani. Quanto al
riflessivo “astenersi da una cosa”, viene cautamente spiegato che
indica “non privarsene affatto, ma usandola con più o men
parsimonia”. Gli anni in cui Tommaseo iniziò, dopo lunghissima
gestazione, a pubblicare il suo fondamentale e interminabile
dizionario furono allo stesso tempo gli ultimi della sua vita e i
primi di quella dello Stato italiano: un intero mondo di termini e
significati si radicava nel linguaggio comune, man mano che le novità
del paese unito entravano a far parte della vita quotidiana di sempre
più persone. Fra queste novità c’era pure la possibilità di
votare: all’epoca ancora un privilegio per pochi tanto che, come
abbiamo visto, il vocabolo con cui si indica la rinuncia volontaria
ad esprimere la propria preferenza viene dato per defunto e allo
stesso tempo per resuscitato. Si può usare questa prerogativa “con
più o men parsimonia”? La parsimonia (sempre Tommaseo) è l’arte
di “conservare, usare e distribuire gli averi, senza né
prodigalità né avarizia, ma secondo il dovere e la convenienza” e
cioè secondo una forma di ragionevole saggezza. Allora forse tutto
dipende da ciò che ci spinge a tenerci lontani dal voto: se
consapevoli che anche la nostra decisione di non scegliere è una
forma di scelta, sappiamo di produrre comunque degli effetti. Forse.
Nelle ultime tornate elettorali l’astensione è andata crescendo e
non è certamente un caso, in un paese che per decenni ha vantato la
sua altissima percentuale di affluenza al voto; un dato che gli
esperti tendevano - com’è noto - a valutare sempre secondo due
interpretazioni opposte: come dimostrazione dell’eccellente salute
della democrazia (garantita dalla partecipazione popolare) o
viceversa del suo stato cronico (dimostrato dal fatto che ancora il
sistema dei poteri non si era andato stabilizzando). Al momento è
ancora legittimo considerare l’astensione un non-voto consapevole,
una scelta di non scegliere fatta a dimostrare lo stato di
malcontento ed insoddisfazione verso uno schieramento di forze
politiche in cui troppi dichiarano di non riconoscersi. Quanto tempo
dovrà passare perché, da rinuncia cosciente e significante, si
degradi a pura e semplice dimostrazione di disinteresse? E quanto ne
dovrà passare perché gruppi e partiti la smettano di calcolare i
loro risultati elettorali esclusivamente in termini di percentuale
senza curarsi delle cifre assolute? Le cifre assolute sono le sole
che permettano di capire quanto uno schieramento, che il conteggio
dei voti ha dichiarato vincitore, possa realmente spingersi in avanti
nel suo sforzo di trasformare la società. C’è davvero bisogno di
farlo notare?
Pare di sì: nel momento in cui scriviamo, i commenti delle
segreterie sui ballottaggi sono tutti improntati a minimizzare le
sconfitte o tracciare prospettive molto caute sulle vittorie: nessuno
sembra prendere sul serio il fatto che nei settantotto comuni
coinvolti la percentuale di votanti complessiva è andata sotto il
cinquanta per cento.
“micropolis”, giugno 2015
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