Il filosofo
ghanese-americano Kwame Anthony Appiah
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Il significato e il peso
dell’onore (tema che è al centro del recente libro del filosofo
ghanese-americano Kwame Anthony Appiah Il codice d’onore. Come
cambia la morale, Raffaello Cortina, pp. 240, euro 24,00) sono
stati illustrati come meglio non si poteva nel finale del capolavoro
di Monicelli La grande guerra. Qui due soldati italiani un po’
cialtroni, impersonati da Vittorio Gassman e da Alberto Sordi, presi
prigionieri dagli austriaci, vengono minacciati di essere passati per
le armi se non riveleranno le informazioni di cui sono a conoscenza.
Dopo una rapida consultazione, i due decidono che la pelle è più
importante della patria, e si risolvono a rivelare agli austriaci la
notizia di cui sono in possesso. Appresa la decisione, gli austriaci
commentano tra loro in modo sarcastico la mancanza di coraggio dei
due italiani. Ma in quel momento Gassman, punto sul vivo, ha uno
scatto d’orgoglio; non accetta di essere considerato dagli
austriaci un uomo da nulla (ovvero senza onore) e fa dietrofront: non
ti rivelerò proprio niente, dice all’ufficiale nemico, e lo
apostrofa con l’appellativo «faccia di merda». A questo punto, in
pace con se stesso, affronta tranquillamente il plotone d’esecuzione,
al quale neanche Sordi, per solidarietà con l’amico, riesce a
sottrarsi. Il film sembra dunque sostenere la stessa tesi che il
libro di Appiah argomenta in molte pagine affascinanti e ricche di
esempi storici: l’onore, individuale o di gruppo (per esempio,
l’onore degli italiani) conta pur sempre qualcosa nelle nostre
vite, anche se l’epoca dei duelli cavallereschi e dei codici
d’onore è tramontata da molto tempo. Anzi, Appiah si spinge ancora
più in là: ci spiega che alcune grandi «rivoluzioni morali» che
hanno segnato l’epoca moderna non si comprendono se non si fa
riferimento ai mutamenti nel senso dell’onore che le hanno
accompagnate E, per dare sostanza al suo discorso, illustra con
ricchezza di particolari quattro esempi (scelti opportunamente non
solo in Occidente) di profonde trasformazioni del costume vigente: la
fine dei duelli nell’aristocrazia britannica, l’abbandono della
pratica di fasciare i piedi alle bambine in Cina, l’affermazione
della illiceità della schiavitù sempre in Gran Bretagna (non negli
Stati Uniti, tema che avrebbe richiesto un diverso approccio), e
infine il superamento del «delitto d’onore». Un caso,
quest’ultimo, di una rivoluzione nel costume che non si è ancora
completata: il «delitto d’onore», infatti, non esiste più in
Italia e negli altri paesi avanzati, ma è ancora presente in
situazioni differenti, come per il esempio il Pakistan sul quale
Appiah si sofferma.
La tesi dell’autore,
che unisce i differenti casi e che dovrebbe risultarne dimostrata, è
dunque che per dell’onore che le hanno accompagnate E, per dare
sostanza al suo discorso, illustra con ricchezza di particolari
quattro esempi (scelti opportunamente non solo in Occidente) di
profonde trasformazioni del costume vigente: la fine dei duelli
nell’aristocrazia britannica, l’abbandono della pratica di
fasciare i piedi alle bambine in Cina, l’affermazione della
illiceità della schiavitù sempre in Gran Bretagna (non negli Stati
Uniti, tema che avrebbe richiesto un diverso approccio), e infine il
superamento del «delitto d’onore». Un caso, quest’ultimo, di
una rivoluzione nel costume che non si è ancora completata: il
«delitto d’onore», infatti, non esiste più in Italia e negli
altri paesi avanzati, ma è ancora presente in situazioni differenti,
come per il esempio il Pakistan sul quale Appiah si sofferma.
La tesi dell’autore,
che unisce i differenti casi e che dovrebbe risultarne dimostrata, è
dunque che per spiegare questi profondi mutamenti nel costume il
concetto di onore risulta molto utile. Cosa succede quando una di
queste pratiche (che oggi ci appaiono tutte barbariche e disumane)
viene abbandonata? Come si determinano queste «transizioni morali»
che, dal nostro punto di vista, costituiscono senz’altro dei
progressi? Per l’autore a generare questo mutamento non è
sufficiente che certe usanze vengano considerate, in un’ottica
morale, come lesive della uguaglianza o della dignità delle persone.
Ragionamenti di questo tipo non bastano a trasformare il costume.
Esso muta, invece, quando un modo di comportarsi che fino a un certo
punto sembrava dover appartenere alla persona onorata in un certo
contesto sociale (come sfidare a duello chi ti aveva offeso, nel caso
dell’aristocrazia britannica, o uccidere chi aveva sedotto tua
figlia, nel caso dell’uomo d’onore siciliano) cambia di segno, e
diventa addirittura disonorevole. Insomma, la rivoluzione morale
scatta, sostiene Appiah, quando, per esempio, appartenere a un gruppo
o a una cultura che apprezza delitto il d’onore diventa qualcosa di
cui vergognarsi, uno stigma di inferiorità, un attributo che ci fa
apparire disonorevoli e ci umilia agli occhi degli altri. La spinta
più forte a staccarsi da consuetudini brutali si ha quando esse
diventano qualcosa di disonorante, capace di attirare il disprezzo
degli altri su chi le pratica o le approva. Il mutamento dei codici
d’onore, insomma, riesce a generare quei progressi che il solo
richiamo a concetti universali, come per esempio l’eguaglianza di
tutte le persone, è invece impotente a produrre.
Il ragionamento è ben
svolto ma, ciononostante, non è del tutto persuasivo. La prima
domanda che si potrebbe porre, infatti, è molto semplice: il
mutamento dei codici d’onore è la causa della trasformazione dei
costumi o ne è più semplicemente l’effetto? Per esempio: se i
cinesi hanno dismesso la pratica, terribile, della fasciatura dei
piedi, è perché la loro cultura è stata penetrata in tanti modi
dall’influenza dell’Occidente o perché il loro codice d’onore
è cambiato? In altri termini: forse sarebbe meglio riscoprire (certo
senza esagerare, senza nessun riduzionismo) un po’ di sano
materialismo storico, e ribadire che le grandi trasformazioni del
costume non si capiscono se non si tiene conto dei cambiamenti che
attraversano l’economia, le forme di produzione, i rapporti tra le
classi sociali. Ragionare sulle «rivoluzioni morali» senza dar
spazio anche a tutto questo rischia di essere indice di una certa
ingenuità.
“il manifesto” 6
dicembre 2011
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