Come lettura estiva, tre
anni fa “il manifesto” raggruppò sotto il comune titolo Coni
d'ombra, una quindicina di
articoli, uno al giorno, su autori italiani che, dopo un iniziale
successo più o meno vasto e duraturo, erano caduti o quasi
nell'oblio. L'articolo che qui ripropongo da quella serie, di Marco
D'Eramo, è dedicato a Benedetto Croce ed è – tecnicamente – una
stroncatura. La domanda che l'autore esplicitamente si pone non
riguarda tanto il cono d'ombra che è caduto sulle opere del Croce,
quanto la luce in cui esse sono rimaste a lungo e – secondo Eramo –
molto al di là dei meriti.
Qualche
giorno dopo il “quotidiano comunista” pubblicò un'ampia lettera
di Massimo Raffaeli che, criticando l'approccio di D'Eramo,
rivalutava Croce come organizzatore di cultura e prosatore di
classica bellezza. Ma D'Eramo nella replica non demordeva. Io sono
convinto che abbia torto marcio e leggo nel suo articolo una sorta di
“uccisione del padre” o forse del nonno, espressione di un
inguaribile edipismo. Resta che su Croce bisogna – secondo me –
tornare ed eliminare quel “cono d'ombra”. Ammesso che tutte le
accuse che D'Eramo gli scaglia addosso abbiano un fondamento, a
maggior ragione si dovrebbe indagare sulle ragioni dello
straordinario prestigio e seguito che egli ebbe nel mondo e in Italia
e particolarmente tra l'intellettualità italiana antifascista.
(S.L.L.)
IL MISTERO DI CROCE
di Marco D'Eramo
Un mistero incombe sulla
cultura europea del primo '900. Un mistero a tutt'oggi insoluto. E
questo mistero ha nome e cognome, data di nascita e di morte:
Benedetto Croce (Pescasseroli 1866 - Napoli 1952). Rispetto ai «Coni
d'ombra», il problema non è capire come mai Croce sia finito nel
dimenticatoio (relativamente parlando), quanto capire come non vi sia
stato relegato fin dall'inizio. Sulla sua influenza non ci sono
dubbi. Pur non essendosi mai laureato e professandosi, con Giordano
Bruno, «accademico di nulla accademia», Croce ha esercitato per
decenni una sorta di tirannia sulla vita accademica italiana: «Sulla
sua estetica si sono formati letterati come Mario Fubini, Natalino
Sapegno, Francesco Flora, Luigi Russo; alla sua concezione della
storiografia hanno guardato storici come Adolfo Omodeo, Federico
Chabod, Walter Mauri, Arnaldo Momigliano, Rosario Romeo, Giuseppe
Galasso» (Giovanni Fornero, Salvatore Tassinari, Le filosofie del
Novecento).
Uno stile
avvocatizio
Impressionante è la
grandezza di cui lo ammanta Antonio Gramsci (pur con molte critiche)
che addirittura ne fa un «papa della cultura». In un paragrafo
intitolato Il Croce uomo del Rinascimento, il fondatore del
Pci scrive: «Si potrebbe dire che il Croce è l'ultimo uomo del
Rinascimento e che esprime esigenze e rapporti internazionali e
cosmopoliti (...) Il Croce è riuscito a ricreare nella sua
personalità e nella sua posizione di leader mondiale della cultura
quella funzione di intellettuale cosmopolita che è stata svolta
quasi collegialmente dagli intellettuali italiani dal Medio Evo alla
fine del '600. (...) La funzione del Croce si potrebbe paragonare a
quella del papa cattolico e bisogna dire che il Croce, nell'ambito
del suo influsso ha saputo condursi più abilmente del papa: nel suo
concetto d'intellettuale, del resto, c'è qualcosa di 'cattolico e
clericale'» (in Il materialismo storico e la filosofia di
Benedetto Croce).
E ancora Gramsci ricorda
che l'operetta poi diffusa come Aestetica in nuce era in
origine la voce «Estetica» affidatagli dall'Enciclopedia
Britannica nell'edizione del 1928 cui contribuirono, tra gli altri,
Henri Bergson, Niels Bohr, Albert Einstein; e che il Breviario
d'estetica era una serie di lezioni commissionategli nel 1912 da
un'università americana, il Rice Institute di Houston,Texas. E
Giuseppe Galasso, che dal 1989 amorevolmente cura la riedizione delle
opere crociane per la sua Adelphi, ci rammenta che quel Breviario
fu tradotto «in tedesco nel 1913; in portoghese nel 1914; ungherese
nel 1917; in Inghilterra nel 1921; in rumeno nel 1922 e nel 1971; in
francese nel 1923; in spagnolo nel 1923 e 1938; in olandese nel 1926;
in ceco nel 1927; in svedese nel 1930; in Jugoslavia nel 1938. E poi
in danese nel 1960; in polacco nel 1961; in norvegese nel 1961; in
ebraico nel 1983. Ben oltre - come si vede - dopo la morte di Croce».
Il catalogo
dell'Università di Berkeley in California enumera 951 volumi
riferiti a Croce, di cui più di 420 sono edizioni varie degli 80 e
passa volumi di opere crociane e degli oltre 30 volumi del suo
carteggio; mentre altri 430 sono libri dedicati a Croce o di cui
Croce ha curato la prefazione (De Sanctis) o la traduzione (Basile) o
per cui ha scritto contributi: altri 100 sono volumi in cui si parla
anche di Croce. Certo se l'influenza di un autore, il suo peso nella
cultura mondiale si misurasse dai chili di carta che ha scritto,
Croce sarebbe l'intellettuale più influente della storia umana. Ma
proprio queste nude cifre dovrebbero metterci la pulce nell'orecchio.
Va bene una vita attiva e disciplinata, ma come si fa a scrivere quel
che ha scritto Croce e a leggere quel che ha letto, oltre
all'indefessa attività di organizzatore culturale? Non è possibile.
Delle due l'una, o non ha letto tutto quel che pretendeva (e la sua
lettura era «diagonale» per essere eufemisti), ma la sua erudizione
era davvero stupefacente, o scriveva con una fluidità incredibile.
Può darsi che siamo troppo influenzati da Wittgenstein, ma mi è
sempre parso che la prolissità vada a scapito della profondità.
Kant ha scritto probabilmente un cinquantesimo di quel che ha
prodotto Croce, e il pur torrentizio Hegel avrà sfornato un decimo
scarso del filosofo di Pescasseroli e persino Marx ed Engels, che ci
si sono messi in due, saranno arrivati a produrre insieme la metà.
A rileggerlo oggi, lo
stile crociano, è insopportabilmente avvocatizio, da arringa, con
frasi lunghe decine e decine di righe: l'impressione è netta che il
periodare gli venisse fuori già bello e pronto, strutturato,
bilanciato (oh quelle immancabili triadi di aggettivi!) e che i suoi
manoscritti riportassero solo rarissimamente una traccia di
ripensamento, di dubbio. E in effetti è sterminata la lista delle
certezze crociane, l'elenco di tutto ciò su cui il Nostro non ha
dubbi. Aborrisce Verlaine («che è mai codesta categoria dei poeti
martiri o dei poètes maudits se non una goffa esaltazione
adulatoria forgiata a sé medesimo dal tre volte falso Verlaine?»),
Joyce, Kafka, Proust (che nella Recherche du temps perdu «si
dimostrava più volte artista e poeta, ma altresì malato di quella
raffinatezza odierna che scopre una strana parentela con quella
'puerilità', che l'Alfieri notava e sorvolava»), Rilke (il cui
travaglio «si dimostra veramente un caso estremo e singolare...
d'impotenza creativa, perché egli ... non mai riuscì a pensare un
concetto che avesse consistenza di concetto e che non fosse un falso
e vecchio concetto che a lui pareva grande e originale scoperta di
verità»), Musil, Mallarmé, Pirandello (la cui arte consiste «in
alcuni spunti artistici, soffocati o sfigurati da un convulso
inconcludente filosofare»).
Non che a volte le sue
stroncature non siano preveggenti: ecco Martin Heidegger «Scrittore
di generiche sottigliezze, arieggiate a un Proust cattedratico, egli
che nei suoi libri non ha mai dato segno di prendere alcun interesse
o di avere alcuna conoscenza della storia, dell'etica, della
politica, della poesia, dell'arte, della concreta vita spirituale
(...) oggi si sprofonda di colpo nel gorgo del più falso storicismo,
in quello, che la storia nega, per il quale il moto della storia
viene rozzamente e materialisticamente concepito come asserzione di
etnicismi e di razzismi, come celebrazione delle gesta di lupi e
volpi, leoni e sciacalli, assente l'unico e vero attore, l'umanità
(...) E così si appresta o si offre a rendere servigi
filosofico-politici: che è esattamente un modo di prostituire la
filosofia, senza con ciò recare nessun sussidio alla soda
politica...» (La Critica, n. 32, 1934)
Ma non parlategli di
modernità, di scienza, d'industria. Facendo propria una definizione
di Giambattista Vico, ecco Croce sostenere che i matematici sono
«ingegni minuti» (Logica come scienza del concetto puro),
che «gli uomini di scienza sono l'incarnazione della barbarie
mentale, proveniente dalla sostituzione degli schemi ai concetti, dei
mucchietti di notizie all'organismo filosofico-storico» (La Critica
n. 6, 1908). Secondo il nostro era assai improbabile che i nuovi
congegni della logica matematica «offerti sul mercato» entrassero
nell'uso e prevalessero, quando invece la logica matematica governa
le nostre vite per mezzo dei computer e quando gli aborriti numeri
danno perfino il nome alla nostra epoca: «l'era digitale» (digit
in inglese vuol dire cifra). In realtà Croce non sa di cosa parla,
non sospetta quanto sia essenziale la componente estetica nella
creazione matematica, non immagina gli abissi di profondità dei
problemi che i nuovi concetti della fisica dischiudono. La verità è
che nessuno «può oltrepassare i limiti del proprio cervello
sociale» (Marx), cioè nessuno può pensare in modo diverso da quel
che la sua vita materiale, la sua condizione, il suo reddito, lo
spingono a fare. E Croce era un agiatissimo possidente meridionale
che per sua sfortuna non dovette guadagnarsi da vivere e quindi
disprezzò sempre l'economicismo, e rimase sordo alla dimensione
prometeica della rivoluzione moderna e industriale.
Odio contro il
moderno
Croce ha sempre pensato
che industrialismo e civiltà di massa fossero accidenti transitori
della «storia dello spirito», come se - in un tipico esempio di
periodare crociano - fossero mode già presenti «nelle stesse forze
del mondo moderno, nella sua infaticabile attività d'imprese
industriali e commerciali, di scoperte tecniche di macchine sempre
più potenti, di esplorazioni geografiche, di colonizzamenti e
sfruttamenti economici, nella sua tendenza a conferire il primato
agli studi scientifici e pratici sugli speculativi e umanistici,
nell'avviamento e nell'ampiamento conferito alle stesse ricreazioni e
giuochi sociali, a quel che si chiamò lo sport, dalle biciclette
alle automobili, dai canotti e dai yachts alle aeronavi, dalla boxe e
dal foot ball allo sky (vorrà dire lo sci, n.d.r.), che tutti in
vario modo cospirano a dare troppo larga parte nel costume e
nell'interessamento al rigoglio e alla destrezza corporale,
scapitandone al confronto le parti dell'intelligenza e del
sentimento». (Storia d'Europa nel secolo decimonono, 1931). A
proposito di quest'opera, va detto che se uno storico dell'anno 5.000
d. C. come unico materiale sul XIX secolo europeo disponesse della
Storia di Croce, sarebbe fritto: della mondializzazione
dell'Europa poco o niente, dell'industrializzazione, del dispotismo
esercitato sulle colonie, della rivoluzione tecnologica non avrebbe
il ben che minimo accenno (p. es. due righe in tutto sul Congresso di
Berlino). Quanto diversa dalla storia di Eduard Fueter scritta
all'incirca negli stessi anni! Quel futuro storico sarebbe però
felice di sapere che l'800 europeo ha visto il trionfo della
«religione della libertà» (leggerne la controprova negli Olocausti
tardovittoriani di Mike Davis, trad. it. Feltrinelli).
L'odio contro il moderno
si accompagna a un'altra serie di idiosincrasie, contro l'illuminismo
e poi contro il positivismo. Allergie mentali che ne sottintendono
una ancora più profonda, ben messa in luce da Norberto Bobbio che
nel suo Profilo ideologico del Novecento italiano (1960) ci
regala una serie di impressionanti citazioni crociane, tra cui
questa: «Rifiutare allora d'iscriversi al gran partito positivista
(...) era il medesimo che esser considerato cervello balzano dai
benevoli e questurino travestito dai positivisti esaltati e
spadroneggianti, i quali erano per giunta tutti repubblicani e
democratici». (Cultura e vita morale). L'alterigia del
possidente prorompe dalla critica contro la «mentalità massonica»:
«La mentalità massonica semplifica tutto: la storia che è
complicata, la filosofia che è difficile, la scienza che non si
presta a conclusioni recise, la morale che è ricca di contrasti e di
ansie (...) Cultura ottima per i commercianti, piccoli
professionisti, maestri elementari, avvocati, mediconzoli, perché
cultura a buon mercato; ma perciò stesso pessima per chi deve
approfondire i problemi dello spirito, delle società, della realtà».
(La mentalità massonica, 1910)
Cari «commercianti,
piccoli professionisti, maestri elementari, avvocati, mediconzoli»,
non avete scampo. Non siete ancora l'aborrito volgo, ma poco ci
manca. La plebe è fatta da quei «lazzari» su cui Croce ha scritto
pagine sprezzanti (sulla natura controrivoluzionaria della masnada
che da sempre denuncia i propri padroni) ed etimologie argute
(raccolte da Galasso in Un paradiso abitato da diavoli) che
fanno risalire i lazzaroni ai lebbrosi e ai «lazzaretti». Parlando
delle Considerazioni di un impolitico (1918) di Thomas Mann,
Croce scrive: «E certo bisogna pure protestare contro il volgo,
definirlo, satireggiarlo, respingerlo da sé con violenza: giova
sfogarsi; la pazienza ha i suoi limiti. Ma, fatto tutto ciò (e pochi
lo hanno fatto così bene come il Mann), il volgo resta: resta,
perché opera (a suo modo, ben s'intende), e adempie i suoi
molteplici uffici, tra i quali anche di stimolare ed accrescere,
nell'aristocrazia, la coscienza dell'aristocrazia».(Pagine
sparse). Almeno il volgo selve a qualcosa!
Sotto la patina del
profondo pensatore cominciamo a scorgere un groviglio di stereotipi,
di luoghi comuni ottocenteschi, di psicologia terra terra da
feuilleton. Su nessun tema si vede così bene come sulla sua
visione delle donne. Eppure, nota Gramsci, Croce dimostrò «di non
curarsi di queste vanità mondane convivendo liberamente con una
donna molto intelligente che manteneva vivacità nel suo salotto
napoletano frequentato da scienziati italiani e stranieri e sapeva
destare l'ammirazione di questi frequentatori; questa unione libera
impedì al Croce di entrare nel Senato prima del 1912, quando la
signora era morta e il Croce era ridiventato per Giolitti una persona
rispettabile».
Una diagnosi su cui
sorridere
Ma basta leggere come
parla della poetessa Gaspara Stampa, «simpatica figura..., perché
come non provare simpatia per una giovane donna, bella, adorna di
cultura e d'ingegno, modesta, affettuosa, delicata e amante: amante
perdutamente, senza ritegno; amante e abbandonata dall'uomo amato;
vissuta ancora qualche anno tra i ricordi di questo amore e il
disegnarsi di un nuovo affetto in quel cuore che aveva già provato
la passione; e morta giovane?». Il problema della Stampa era un
altro. È che: «Era donna; e, di solito, la donna, quando non
scimmiotteggia l'uomo, si serve della poesia, sottomettendola ai suoi
affetti, amando il suo amante o i suoi figli più della poesia,
laddove nell'uomo accade il contrario. La tendenza pratica della
donna si rivela in questa impotenza teoretica e contemplatrice.
Donde, le sciatterie della forma, non idoleggiata e accarezzata;
donde, il limite che si avverte anche nelle migliori liriche...» (La
Critica, n. 7, 1909).
Così che alla fine viene
da ricambiare a Croce un po' di quella condiscendenza che elargiva
con tanta prodigalità e sorridere alla diagnosi secondo cui «il
problema attuale dell'Estetica è la restaurazione e la difesa della
classicità contro il romanticismo» (Aestetica in nuce). Il
problema vero è che queste scempiaggini sono state egemoni per
decenni nell'apparato scolastico italiano. Tutti noi, anche chi non
ha mai letto una riga di Croce, siamo stati vittime del crocianesimo
per cui i grandi poemi andavano letti a spizzichi, isolandone le
parti che «sono poesia» da quelle «che non lo sono», cosicché
quasi nessuno ha letto di seguito La Commedia o l'Orlando
furioso o il De rerum natura, non sapendo che si perde.
Siamo tutti vittime della cultura del florilegio. E, più in
generale, delle due culture. Il baratro che con Croce (e Giovanni
Gentile) si è aperto in Italia tra cultura umanistica e cultura
scientifica non è mai stato più colmato, anche se quasi nessuno
legge più Croce, nonostante reiterati tentativi d'innescare una
Croce Renaissance.
Secoli che
svolazzano
Forse la migliore
epigrafe al destino culturale di Benedetto Croce è la conclusione
che nel 1869 (in Innocents Abroad) lo scrittore americano Mark
Twain trasse dalle sue visite alle antichità italiane: «Dopo aver
girellato tra le imponenti rovine di Roma e di Pompei, o dopo aver
dato un'occhiata alle lunghe file di sfregiate e innominate teste
imperiali che scandiscono i corridoi del Vaticano, una cosa mi ha
colpito con una forza come mai prima: il carattere irrilevante,
effimero della fama. Uomini avevano vissuto lunghe vite nel tempo
antico e lottato febbrilmente sfacchinando come bestie nell'oratoria,
nella strategia militare, o nella letteratura e poi si adagiavano e
morivano, felici possessori di una storia durevole e di un nome
immortale. Bene, venti piccoli secoli svolazzano via e che rimane?
Un'astrusa iscrizione su un blocco di pietra su cui antiquari avidi
si affannano, arzigogolano e non ne cavano nulla tranne un nudo nome
(che storpiano) - niente storia, niente tradizione, niente poesia,
niente che possa dare neppure un momentaneo interesse».
il manifesto, 18 agosto
2012
APPENDICE
DON FERRANTE O DON
BENEDETTO?
La lettera di
Massimo Raffaeli
La biblioteca di Berkeley
non è la biblioteca di don Ferrante e Benedetto Croce non è
l'autore occulto dello sciocchezzaio di Bouvard et Pécuchet.
Sembrerebbe invece suggerirlo Marco D'Eramo che su «il manifesto»
di sabato ne ha fornito una impaziente liquidazione, anzi una vera e
propria esecuzione in effigie.
D'Eramo lamenta
l'epidemia del crocianesimo, cui ascrive in blocco i mali della
cultura italiana, ma poi come un crociano di risulta squaderna il
florilegio delle enormità che dovrebbero sancirne la damnatio
memoriae: l'inconsistenza della sua filosofia idealista; la
incomprensione delle dinamiche dell'età moderna e dunque del
capitalismo; la riduzione della scienza a tecnica strumentale; la
negazione della letteratura contemporanea; la postura classista, e
persino feudale, dello sguardo; una misoginia molto prossima alla
cecità nei riguardi dell'universo femminile. (D'Eramo si ferma ma
potrebbe continuare aggiungendo, per esempio, la svalutazione della
filologia, della linguistica e dell'ecdotica, tanto più gravi perché
avanzate sul terreno di stretta pertinenza crociana, quello degli
studi letterari). Tutto vero. Ma chi ha scritto la Storia del Regno
di Napoli, il Contributo alla critica di me stesso, le
migliaia di pagine dei Taccuini? Chi ha redatto per mezzo
secolo i fascicoli della «Critica», chi ha promosso da Laterza la
collana degli «Scrittori d'Italia»?
Che Benedetto Croce sia
stato l'eversore della eredità gesuitica e arcadica, morbo atavico
della nostra cultura, che egli abbia saputo incarnare tanto le
funzioni laicissime del filosofo e del critico quanto quelle di un
instancabile promotore di cultura, tutto ciò nella pagina di D'Eramo
non c'è e sul serio stupisce chi è solito apprezzare la precisione
analitica e l'intelligenza dei suoi scritti. Tanto più che la sua
stroncatura è postdatata di oramai cinquant'anni, perché
l'Anti-Croce sognato dall'ex crociano Antonio Gramsci è stato
scritto, con tutte le giaculatorie e i rituali battimenti del petto,
fra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso con l'approdo in
Italia delle cosiddette scienze umane, le quali misero in effetti a
ferro e fuoco la fabbrica ordinata e magnanima di don Benedetto: per
restare alla letteratura, la Critica del gusto di Galvano
della Volpe porta la data del 1960 mentre un ritratto equanime, fra
luci e ombre di una straordinaria impresa intellettuale, lo si deve
alla voce monografica dell'Enciclopedia Europea (Garzanti
1977) scritta da Sebastiano Timpanaro, grande filologo classico e
filosofo materialista, il figlio di colui che aveva a suo tempo
definito Benedetto Croce un «analfabeta della scienza». Ma fosse
tutto quanto da buttare, resterebbe il lascito della scrittura e cioè
la prosa di uno fra i massimi saggisti del secolo XX, «la
cristallina chiarezza della sua prosa veramente classica», nota
Timpanaro.
Qui D'Eramo le dice
veramente troppo grosse quando parla di prolissità (prendendo Croce
per Eugenio Scalfari), di stile «avvocatizio», di frasi lunghe
«decine e decine di righe», insomma l'opposto del basic
trogloditico che oggi ipoteca la lingua del ceto scientifico come di
quello politico-amministrativo. O, più semplicemente, del Pensiero
Unico. Che il modello di Croce fosse viceversa Galileo Galilei e che
a alla prosa di Croce abbiano guardato a loro volta come ad un
modello Piero Sraffa e Federico Caffè, andrebbe pure segnalato a
Marco D'Eramo. E che iddio lo perdoni.
La replica di
Marco D'Eramo
Caro Massimo Raffaeli,
grazie per la lettera
impegnata e accorata. Ma devo aver toccato un nervo scoperto perché
il catalogo della biblioteca di Berkeley me lo sono andato a
consultare io e mai ho pensato che Donna Prassede e coniuge
risiedessero nella baia di San Francisco. Ebbene sì, ho commesso un
crimine di «lesa crocianità». Peggio ancora: non me ne pento.
Forse perché sono anch'io uno di quegli «ingegni minuti», di quei
«barbari» che il Nostro amava insultare, visto che ho trascorso la
mia giovinezza a studiare fisica teorica e perché per tutta la vita
ho dovuto scontrarmi con la reciproca sordità delle «due culture»,
una spaccatura che ha confinato l'Italia ai margini del dibattito
culturale mondiale.
Raffaeli noterà che ho
evitato di affrontare il versante filosofico di questo «papa della
cultura» (per parafrasare Gramsci): il discorso era troppo lungo; ma
il fatto è che Benedetto Croce e Giovanni Gentile sono stati le due
facce (l'una antifascista e l'altra fascista) che hanno espresso in
linguaggio filosofico la stessa identica arretratezza produttiva
italiana, la stessa struttura sociale elitaria con uno sconfinato
mare di analfabetsmo da cui emergevano isolotti di squisita
erudizione. Certo che Croce non poteva essere diverso da quel che
era, ma non è con lui che uno oggi se la prende, è con l'Italia di
allora, l'Italia croce-gentiliana, che ci ha plasmato nel secondo
dopoguerra, e che è sfociata nella nostra modernizzazione,
incompiuta, atipica, e «lazzarona». Né ho affrontato il tema
dell'antifascismo crociano che ci illuminerebbe su tutte le ambiguità
di cui ha potuto alimentarsi la nozione stessa di antifascismo.
Più in generale non ho
infierito sul famigerato (come lo definisce Norberto Bobbio)
giustificazionismo intrinseco al «reale è razionale»: «Lamenteremo
noi le stragi di San Bartolomeo o i roghi dell'Inquisizione o le
cacciate degli ebrei e dei moreschi o il supplizio del Serveto?
Lamentiamoli pure; ma servando la chiara coscienza che, a questo
modo, si fa poesia, e non già storia. Quei fatti sono avvenuti e
nessuno può cangiarli; come nessuno può dire che cosa sarebbe
avvenuto se non fossero avvenuti. Le espiazioni che la Francia e la
Spagna avrebbero fatte o dovrebbero fare per pretesi delicta
maiorum, è frase di vendicativo giudaismo, da lasciarla ai
predicatori, priva di qualsiasi significato. La direi persino
immorale, perché da quelle lotte del passato è nato questo nostro
mondo presente che, pretenderebbe, ora levarsi di fronte al suo
progenitore per insultarlo o, per lo meno fargli il sermone».
(Cultura e vita morale, pp. 98). Non infierisco per non essere
tacciato di «vendicativo giudaismo», ma è vero, mi «levo di
fronte al mio progenitore per insultarlo» e penso che farlo sia un
dovere. O denunciare l'Olocausto è «fare poesia»?
La domanda cui Raffaeli
non risponde è a cosa mai ci serva oggi, nel 2012, studiare o
persino solo leggere Croce: io mi sono preso la briga di rileggerlo,
una penitenza spirituale cui forse anche Raffaeli dovrebbe
sottoporsi. Ecco un esempio (nemmeno tra i più tremendi) di
«cristallina chiarezza della sua prosa veramente classica»: «Solo
il giudizio storico, che libera lo spirito dalla stretta del passato
e, puro qual è e superiore alle parti in contrasto, guardingo contro
i loro impeti ed i loro allettamenti e le loro insidie, mantiene la
sua neutralità, ed attende unicamente a fornire la luce che gli si
chiede, sol esso rende possibile il formarsi del pratico proposito e
apre la via allo svolgersi dell'azione e, col processo dell'azione,
alle opposizioni tra le quali questa si deve travagliare, di bene
contro male, di utile contro dannoso, di bello contro brutto, di vero
contro falso, del valore, insomma, contro il disvalore» (La
storia come pensiero e come azione, pp. 37).
Della classicità io ho
una concezione del tutto diversa: non ciceroniana, ma tacitiana.
Quanto ai paragoni di stile, i credenti consiglierebbero di non
mischiare il diavolo e l'acqua santa. Noi «atei non praticanti» ci
limitiamo a misurare l'abisso che separa la pregnante concretezza di
Machiavelli, Paolo Sarpi, Galilei da un lato, e la roboante vacuità
di Croce dall'altro.
“il manifesto”, 21
agosto 2012
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