L’intervista che
“posto” qui di seguito, scritta il 13 dicembre 1962 da un grande
giornalista scomparso, corredava la prima edizione de La chiave
di Junichiro Tanizaki edita da Bompiani. Fu poi mantenuta anche nella
successiva edizione del romanzo fatta da Mondadori collana degli
Oscar. Fu ripresa dal “Venerdì di Repubblica”, come un “raro
documento che ci restituisce Tanizaki in presa diretta”, nel 2002,
in occasione dell’uscita, sempre da Bompiani, dell’opera omnia
del grande scrittore giapponese. (S.L.L.)
Junichiro Tanizaki (1886 - 1965) |
Il vecchio scrittore era
malato, sofferente, non vedeva quasi più nessuno, e comunque non
abitava nemmeno a Tokio ma sulla riviera, ad Atami. Pure io non
volevo rinunziare a vedere Junichiro Tanizaki. È curioso come,
arrivando sul posto, persino la letteratura di un paese acquisti un
rilievo nuovo, come un paesaggio inquadrato da un binocolo e
finalmente a fuoco giusto. Adesso che conosco Tokio, la sua folla
paurosa, i quartieri notturni con le migliaia di bar, mi è anche più
facile intendere certi autori morti suicidi giovani e disperati come
Akutagawa ( Rashomon), Dazai (Il sole si spegne) o
Nagai (Storia di una prostituta). Ma Tanizaki a settantasei
anni è fra i pochi artisti giapponesi arrivati alla vecchiaia,
indice certo di una esistenza confortata fino a ieri da una
eccellente salute, fisica e morale.
Conoscevo di lui il libro
che gli ha procurato fama improvvisa e avvampante in America, La
chiave. È il racconto della passione morbosa di un uomo di mezza
età, per una moglie più giovane di lui.
La materia del libro è
scabrosa ma lo stile è casto e a tratti quasi scientifico. Sono più
le cose a cui si allude che quelle dette nel corso di poco più che
cento pagine. Ed è proprio qui la forza e la modernità di uno
scrittore come Tanizaki. La tecnica de La chiave somiglia per
altri versi a quella della pittura giapponese. È una storia dipinta
con pochi tratti essenziali, come potrebbe essere un racconto galante
iscritto in un paravento. Del resto Tanizaki quando lo vidi, fra le
poche cose che riuscii a farmi dire, mi spiegò che lavorava appunto
all’antica, scrivendo inginocchiato innanzi a un tavolino
minuscolo, e servendosi di pennellini. Ciò non toglie che La
chiave abbia toccato il punto dolente della condizione umana
nipponica, una piaga tanto più inguaribile quanto più nascosta, e
cioè la difficoltà delle relazioni fra i due sessi, specie in un
periodo come questo di transizione.
Ma ecco che lo scrittore,
assicuratosi che non lo avrei stancato con troppe domande e mi sarei
trattenuto poco, consentiva a ricevermi. Mi consigliava, sempre per
telefono e interposta persona, non parlando lui nessuna lingua
straniera, di arrivare con un interprete.
Il signor Ibuki, già
segretario dello scrittore per cinque anni, ora impiegato della Chuo
Koron, la casa editrice di Tanizaki, si prestò gentilmente a farmi
da guida. Era un giovanotto di ventotto anni, studiosamente vestito
all’americana e con i capelli a frangetta. Mentre ci recavamo
insieme alla casa dello scrittore, Ibuki, che gli era molto devoto,
mi raccontò molte cose. Per prima cosa parlammo di Le sorelle
Makioka, un grosso romanzo di oltre cinquecento pagine,
considerato il capolavoro di Tanizaki. L’avevo giusto letto nei
giorni precedenti all’intervista, e dissi a Ibuki che mi sembrava
scritto da una mano differente da quella che aveva disegnato La
chiave. Ibuki mi spiegò che Le sorelle Makioka era stato
composto durante la guerra, e anzi la censura ne aveva proibito
allora la pubblicazione.
Mi informai del perché.
Ibuki non riusciva a spiegarlo non avendo memoria diretta degli anni
della dittatura militare. «Forse è perché il libro è così
distaccato», mi disse. «Racconta una storia che non ha niente da
spartire con il momento politico che attraversava il Giappone». Il
romanzo è infatti la cronaca di una famiglia che si consuma e
dissolve perché è troppo orgogliosa e raffinata per vivere e
lottare nei tempi moderni. Chissà forse in questo destino i censori
videro un oscuro simbolo, una qualche politica allusione, spiega
Ibuki. Come se quella famiglia condannata fosse il Giappone. Al
centro della vicenda, che si svolge a Osaka, come a dire la Milano
nipponica, campeggiano le quattro sorelle Makioka, e specie la terza,
Yukiko; e il suo tema principale consiste infatti negli inutili
sforzi della famiglia tutt’intorno per procurarle un marito degno
di lei.
Yukiko è una vera donna,
delicata, gentile, maestra nell’arte di preparare il tè, disporre
i fiori, comporre versi in una superba scrittura, ma per quanto
debole e quasi passiva all’apparenza, trova la forza di rifiutare
uno dopo l’altro una lunga catena di mediocri pretendenti. Di
carattere opposto è la più giovane e moderna delle sorelle, Taeko,
che finisce per sfuggire all’influenza della famiglia, emigrare a
Tokio, impiegarsi in un ufficio, concedersi a destra e manca sino al
concepimento di un figlio prematrimoniale, e sposarsi alla fine, con
un barman.
La seconda delle sorelle
Makioka sarebbe donna di raro buonsenso ed equilibrio se il ricordo
favoloso dell’infanzia comune non la spingesse a lottare, con ogni
mezzo lecito ed equivoco, per tenere insieme la famiglia. Ma è
un’impresa che non riesce neanche alla primogenita, Tsuruku,
l’orgoglio fatto persona, indomabile e incorruttibile. Ma è
sposata con molti figli a un dabben uomo che le esigenze del lavoro
conducono a Tokio, dove Tsuruku, la vestale, è costretta a seguirlo,
abbandonando la casa degli avi, per un paese in cui il nome
aristocratico dei Makioka non conta niente.
Per il signor Ibuki non
ci sono dubbi, Tanizaki è lo scrittore più importante del Giappone,
e anzi lo era anche prima della consacrazione internazionale, se si
pensa che l’edizione delle sue opere complete risale al 1930. Ma Le
sorelle Makioka non fu pubblicato dopo la guerra? Sicuro. La
prima edizione si chiamava anzi La neve gentile ma solo dopo
che lo scrittore ne ebbe cambiato il titolo il romanzo ebbe successo.
Ma forse ho ragione anch’io quando parlo di uno stile differente. È
accaduto, a Tanizaki, di rinnovarsi completamente a causa della
guerra e di qui la straordinaria attualità de La chiave.
Prima era un letterato squisito a cui si deve fra l’altro la
trascrizione in giapponese moderno del romanzo galante
dell’undicesimo secolo della baronessa Mura-saki La storia del
principe Genji.
«Che tipo di uomo è?»
chiedo a Ibuki. «Lo vedrà fra poco, ma non si aspetti troppo, non è
uno a cui sia mai piaciuto parlare». Arrivammo così ad Atami, che è
una stazione di cura sul Pacifico, e sottraendoci agli inviti delle
guide turistiche e degli autisti degli alberghi montammo in un tassi.
Junichiro Tanizaki abita in una villa di legno sulle pendici del
monte Isu in vista del golfo. Dalla veranda si vedono due isole
stupende: quelle di Oshima e di Atsushima.
Ci togliemmo le scarpe e
tentai senza riuscirci di infilare i piedi in un paio di pantofole
destinate agli ospiti di buona corporatura. Infine entrai, camminando
sulle stuoie come un personaggio di Pierre Loti, in un piccolo
salotto ammobiliato all’occidentale.
Ci ricevette con molti
inchini la signora Tanizaki. Lo scrittore arrivò poco dopo
zoppicando e si sistemò in una sedia a rotelle. Vestiva un kimono di
lana, e di lana erano i guanti che gli lasciavano libere le dita. I
suoi occhi dalla cornea giallastra e acquosa ci osservavano con
curiosità. Lesse il nostro biglietto da visita, si fece spiegare
ancora chi eravamo, e poi disse, cortesemente: «Ah so». L’artrite
lo faceva molto soffrire ma si era alzato per riceverci. Dal mare,
dai pini della collina, dalla veranda aperta arrivava un’aria umida
e salina. Tuttavia una piccola stufa elettrica era accesa accanto a
lui. Lodammo la sua casa e subito ci spiegò che si trattava di un
padiglione di legno prezioso trasportato sino là dal recinto
imperiale di Tokio. Come riprese a lamentarsi del suo male gli dissi
che sarebbe dovuto venire in Italia a curarsi. Nel golfo di Napoli
c’era un’isola con dei fanghi miracolosi. «È troppo tardi» -,
disse il vecchio scrittore. «Ho tanto desiderato di andare in Italia
o in Francia, quando ero giovane e ora che avrei il denaro non ho più
tempo. Potrei morire durante il viaggio». Era stato soltanto in
Cina, molti anni innanzi. Intanto venivano servite diverse qualità
di tè, prima verde e senza zucchero, poi scuro e dolce, con
pasticcini, dalla moglie e da una domestica che ci passava le tazze
stando in ginocchio accanto a noi.
Il silenzio del vecchio
scrittore fini ben presto per appiccicarsi a noi come un panno
bagnato. «Lavora ancora?» domandai. Tanizaki disse di sì.
Stava scrivendo la storia
di tutte le serve, cuoche, cameriere e donne di fatica che avevano
servito in casa sua da quando era bambino. «È un’opera molto
curiosa», osservai.
Lo scrittore sorrise.
Ammise che si trattava di un’«opera singolare». «Quello che mi
dispiace di più», osservò con voce chioccia, quando più nessuno
si aspettava che parlasse, «è di non poter mangiare e bere a mio
piacimento come una volta». «Il signor Tanizaki», commentò Ibuki
con un sorriso, «è stato un grande gaudente, un vero e proprio
gourmand, anzi gourmet».
Degli scrittori giovani
non vedeva nessuno e aveva l’aria di volerli, oltre tutto,
ignorare. Lodò l’opera lirica italiana, nominò Pirandello, ma per
confessare di non averne mai visto una commedia. «Sono un vecchio
giapponese», disse con civetteria. Ibuki mi avvertì di non
prenderlo sulla parola. Tanizaki si era laureato a Tokio con una tesi
sulla letteratura inglese. «Si può dire che gli anni della sua
gioventù furono vissuti sotto il fascino di scrittori come Poe,
Baudelaire e Oscar Wilde». Gli chiedo se ebbe mai difficoltà
finanziarie. Risponde di no. Suo padre era un ricco mercante ma da
quando cominciò a scrivere, terminati gli studi, non ci furono
problemi di questa natura per lui. «Vero è che allora ci si
accontentava di poco», sogghigna. «È nato a Kioto o a Osaka?» A
Tokio, dove visse sino al terremoto del 1923. Si ritirò da allora a
Kioto poi a Osaka, e furono i suoi anni migliori.
Parliamo delle sorelle
Maioka e ottengo altri dettagli. La pubblicazione, iniziata durante
la guerra, fu sospesa dopo il primo volume. Apparve con quel titolo
di La neve gentile. Cosa significa? È un’allusione alla
fragile bellezza di Yukiko. la protagonista. Continuò a lavorare,
rivivendo nella fantasia il tempo della pace e della dolcezza. Ma non
era capace di isolarsi completamente dalla tempesta intorno a lui, e
scriveva con cuore colmo di disperazione e di rimpianto. «Ma ora ho
freddo», concluse. Gli portarono un pennellino con il quale firmò
per me una fotografia e fu portalo via. La signora Tanizaki mi
accompagnò sino nella strada, minuta. gentile, confusa.
Tutto era durato meno di
trenta minuti. «Che cosa ne pensa?» mi chiese lbuki. «Che le donne
gli debbono essere piaciute molto». Ibuki non rispose subito. «Ha
visto il Diario di un vecchio»?, chiese poco dopo. Parlava del
film uscito in questi giorni.
«No. Cosa avrei dovuto
notare?». «Che il protagonista è truccato come Tanizaki, inclusi i
mezzi guanti. Con la differenza che nel film l’uomo soccombe al
fascino di una ragazza di vent’anni».
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