Quando Virginia Woolf
cominciò a scrivere uno dei suoi più bei romanzi, Gita al faro,
uscito nel 1926, pensò di chiamarlo «un’elegia», forse in
ottemperanza alla convinzione, comune anche con l’amico poeta
Thomas S. Eliot, che il genere romanzesco avesse terminato i suoi
giorni con Flaubert. Certo, c’era stato, alcuni anni prima, il
Joyce dell'Ulisse, ma
la lettura di quest’opera sperimentale l’aveva oltremodo convinta
che sul quel fronte non ci fosse più spazio innovativo. Invece Gita
al faro, in perfetta sintonia con l'Ulisse, rappresentò
una delle vette più alte dell’indagine della psiche femminile (con
i personaggi della signora Ramsay e della pittrice dilettante Lily
Briscoe) condensata nella cornice narrativa di un romanzo (non era
stato forse Bachtin a dire che questo genere non avrebbe mai potuto
morire?).
A dire il vero Woolf
sceglie, come “teatro” del flusso di coscienza, la psiche di Lily
(la signora Ramsay è come un invaso entro cui convogliare le acque
possenti e incessanti di quel flusso), che in tutto il romanzo —
distribuito nell’arco di dieci anni — si dibatte fra desideri
repressi di amore materno e paterno, in una confusione di ruoli che
fa pensare all’idea woolfiana del perfetto artista: un essere
androgino, come aveva sostenuto un grande romantico come Coleridge.
Lily è ospite dei coniugi Ramsay, lei bellissima e irraggiungibile
(come Julia, la madre della scrittrice), lui distaccato e troppo
intellettuale per dispensare dolcezza (come Leslie, il padre,
professore universitario e filosofo). I Ramsay vivono nella
dimensione appagante della middle-class, casa sontuosa a
Londra, villeggiatura in riva al mare scozzese dove il giardinetto
antistante la spiaggia fronteggia, in lontananza, un’isoletta con
il faro.
Nella prima parte del
romanzo, infatti, si favoleggia di una «gita al faro» (dove a quei
tempi c’erano ancora i guardiani, con tanto di famiglia); in quella
mediana si parla del passato recente in cui è venuta a mancare
proprio la signora Ramsay, che ha lasciato un vuoto totale nella
famiglia; nella terza parte assistiamo a una sofferta diversione
psicologica: Lily, «innamorata» della signora Ramsay, scopre la
realtà del mondo maschile avvicinandosi timidamente al signor Ramsay
e riesce a “conciliare” due universi difficilmente sovrapponibili
attraverso la realizzazione di un suo quadro, iniziato dieci anni
prima e portato a termine alla fine, quale suggello di un’operazione
psicoanalitica riuscita.
Woolf respira, nel primo
dopoguerra a Bloomsbury, un’aria estremamente fluida e
sperimentale. Sono gli anni del parallelismo delle arti sancito dal
famoso saggio Lo spirituale nell’arte di Kandinsky, e nel
suo salotto si incontrano pittori (la sorella Vanessa è a sua volta
una valida artista) e teorici del Postimpressionismo come Roger Fry.
In quelle discussioni da salotto tra i maggiori intellettuali del
tempo emerge sempre più, da un lato, la spinta verso una nuova
visione del ruolo femminile (culminata nel saggio Una stanza tutta
per sé), e, dall’altro lato, la possibilità, per l’autore
Modernista, di far ricorso alle tecniche della pittura, della musica
e della nascente cinematografia.
Lily è figlia di questa
fervida atmosfera (nel romanzo ha gli stessi anni dell’autrice), e
il suo quadro, messo sul cavalletto en plein air nel
giardinetto davanti al mare (un contesto che richiama St. Ives, il
resort in Cornovaglia dove i Woolf erano soliti trascorrere le
vacanze), mostra un’impostazione decisamente figurativa: la donna
sta ritraendo la casa alla cui finestra compare la signora Ramsay con
il figlioletto. Il problema “tecnico” di Lily è subito
appariscente: nel dare volto all’amica non riesce a trovare un
equilibrio fra la figura e il paesaggio. È la personalità della
signora Ramsay a sovrastare Lily, il suo modo pervasivo di
«costruirsi la vita attorno», una donna così piena di fascino da
soggiogare la povera pittrice, non molto fortunata nella vita, anche
dal punto di vista sentimentale.
Woolf entra nella psiche
di Lily con grazia ma anche con pervasività quasi spietata. È
un’apoteosi del “realismo” deliamente che ci riserva sorprese
continue, collegamenti psico-analitici, intuizioni e paure,
frustrazioni per un amore così grande da non poter esser
corrisposto. E nella terza parte di Gita al faro (uscito da poco per
Einaudi nellabella traduzione di Anna Nadotti), quando il viaggio
simbolico in barca potrà essere fatto ma non avrà più le valenze
mitiche di dieci anni prima — allora rappresentava un traguardo
irraggiungibile e quindi un sogno inalienabile —, Lily rimetterà
il suo cavalletto nello stesso posto, per cercare di ultimare il suo
quadro interrotto. Ma il polo “femminile” si sarà dissolto, quel
ritratto della signora Ramsay sarà come un’icona del desiderio;
mentre emergerà quello maschile, prepotente, a colmare il vuoto
affettivo di Lily. E nel gesto creativo finale del romanzo la donna
riuscirà a introdurre sulla tela un’area trasversale,
simbolizzando un nuovo equilibrio della sua vita con un triangolo in
cui i due poli (maschile e femminile) si armonizzano con il terzo
polo: l’Io della donna. E il metodo che risolve la “visione” è
diventato astratto. Triangolo e linee che fanno pensare a Kandinsky.
“Il sole 24 ore
Domenica”, 22 marzo 2015
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