L'interesse dell'articolo
che segue, un'ampia recensione de La banalità del male di
Rossana Rossanda, è nel fatto che va al di là della lettura
“banalizzante” che sovente se ne fa, oltre la
problematica relativa ad Eichmann, alla sua figura, alla sua
“normalità”, per cogliere altri, non meno pesanti, interrogativi del libro, che
non riguardano solo il passato. (S.L.L.)
Hannah Arendt |
Si moltiplicano in Italia
le letture di Hannah Arendt, a lungo trascurata e oggi esaltata dai
suoi recenti scopritori come figura chiave della filosofia del
secolo. La ripubblicazione in Italia ne La banalità del male,
Eichmann a Gerusalemme (Feltrinelli, 2 edizione, 354 pagine,
L.40.000) d’un suo lavoro del 1963 - Eichmann in Jerusalem, a
Report on the Banality of Evil - è un’occasione per coglierne
il particolarissimo accento. Anche per chi conosce il fondamentale
saggio sul totalitarismo, ma anche quei Vita activa e La
vita della mente che sono le sue opere sistematiche più
ambiziose. E' infatti in questo libro e nel Carteggio con Karl
Jaspers - anch’esso edito da Feltrinelli, a cura di Alessandro
Dal Lago - che la sua riflessione ha registro esatto e più alto.
E' infatti specifica di
Hannah Arendt, mi sembra, un’intelligenza del conoscere come
indissolubile dall’eticità - l’aspra eticità di che cosa sia il
giusto e l'ingiusto, il bene e il male, nell’essere e del fare
politico del nostro secolo. Questo è il suo particolarissimo
apporto, e raro in una storia del pensiero che di regola tende a
dividere i due livelli, come se nel momento della ricerca la
problematica morale fosse secondaria, o se nella prassi, nel fare,
quello del conoscere fosse aggiuntivo. Questi due libri, che per
molti aspetti si richiamano, testimoniano invece della tragicità
d’una compresenza ineluttabile: Hannah Arendt non assolve e non si
sarebbe assolta in nulla, né sotto il profilo del metodo né sulle
conseguenze. Non so se possiamo dirci: «Questo non può essere che
il pensiero d’una donna», lei non lo avrebbe detto, neppur
ammesso; certo possiamo dire che, per esistere, un pensiero femminile
deve come nessun altro tener insieme i due capi che sono stati
scissi.
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Con il processo di
Eichmann a Gerusalemme il groviglio si presentava in tutta la sua
drammaticità: una questione antica, chi può giudicare chi, persona
e comunità; una questione di storia recente, il genocidio degli
ebrei; una questione di conoscenza, e quindi di metodo, e una di
etica, diritto e morale. Donna e ebrea, Hannah Arendt conosceva la
problematicità da una vita: nei secondi anni Venti, giovanissima,
aveva studiato a Friburgo con Heidegger e con Jaspers e poco dopo,
mentre ambedue restavano in Germania (erano «ariani», Jaspers aveva
una moglie ebrea), era dovuta emigrare. Heidegger era stato non solo
un affascinante maestro, ma un amore, tenuto nascosto per ben sei
anni giacché egli non intendeva mettere a repentaglio nulla di sé.
Hannah nulla gli rimprovererà mai sul piano personale, ma tutto, e
certo non senza dolore, su quello politico - «un assassino»
scriverà a Jaspers in un momento di esasperazione - e non esiterà a
verificare lo spessore del suo pensiero da Sein und Zeit, su
un metro al quale del resto l’arroganza di lui non avrebbe negato
legittimità. Ma la necessità di pensare il complesso senza alcun
relativismo riesplode in Eichmann a Gerusalemme.
Eichmann era stato
l’organizzatore della deportazione degli ebrei in Germania, lo
specialista, per così dire, pratico del loro sradicamento dal
territorio verso «altro» prima, verso la «soluzione finale» poi.
Non lo avrebbe mai negato, anche se sulla natura e dell’«altro» e
della «soluzione finale» si schermisce dalla responsabilità - si
disse sempre che volentieri li avrebbe portati nel Madagascar a
vivere felici. E tuttavia finché potè dal 1945 si sottrasse, fuggì
e si nascose in Argentina, dove i servizi segreti israeliani lo
rintracciarono, sequestrarono e portarono in Israele, per processarlo
poi, come avvenne, e condannarlo a morte. Hannah Arendt, che
normalmente non faceva reportages, aveva accettato nel 1961 di
seguire il processo a Gerusalemme per il “New Yorker” (e l’averlo
fatto per questa testata, non priva di qualche intellettuale
mondanità, non mancò di esserle contestato, come se avesse potuto
andare in altro modo). Vi era andata senza preconcetto sfavorevole al
tribunale, e non senza aver riflettuto se Israele avesse o no diritto
di violare una regola internazionale, come era sguinzagliare i suoi
agenti in cerca dei criminali di guerra per il mondo: la risposta che
dà a questo punto è, per così dire, la prima in problematicità,
giacché lei crede fermamente che non si deve violare la
territorialità d’uno stato e il diritto di ciascuno di essere
giudicato dai suoi per una pena commessa nella propria terra, e
assieme sa che gli ebrei non ebbero mai la possibilità di essere
considerati a casa propria, e per la prima volta avevano uno stato,
il solo che si sarebbe assunto l’onere di affrontare non le
efferatezze del nazismo, ma quella specifica efferatezza che era
stata la teoria e la pratica della soluzione finale.
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Tuttavia questa scelta,
in senso proprio ambigua, sarebbe rimasta tale per l’incapacità o
impossibilità o fatica del tribunale di andarvi a fondo, perché
erano poi degli uomini, e diversi fra loro a comporlo, così come
l’orrore patito rendeva difficile tener fermo che, come Arendt
ricorda, al centro del processo sta il colpitole e non la vittima, ed
è questo che separa il far giustizia dal far vendetta.
L'eccezionalità del crimine - gli ebrei erano stati perseguitati
sempre, ma nessuno aveva pensato e tanto meno dichiarato prima del
nazismo che andavano estirpati dall’umano genere - e quella del
tribunale, e quella delle regole da tener ferme, tutto questo
divaricò a ogni momento il processo.
Arendt si trovò di fronte a due domande senza risposta, senza soluzione: la prima è
dunque la sua condizione, la seconda la figura di Eichmann, che sia
nel dibattimento in aula sia nella lunga confessione resa in carcere
e passata agli atti, lungi dall’essere un mostro di sicurezza,
appariva un burocrate di modesta intelligenza e ancor più modesta
capacità di interrogarsi su quel che faceva: così banale era lo
strumento di tanta atrocità, un essere moralmente acefalo, che più
che a Norimberga la tematica della sproporzione fra persona e atti
compiuti, coscienza e obbedienza, e quindi colpa, diventava veemente.
Questo tema dà il titolo
al libro ma non non è l’aspetto più importante. Che il nazista
fosse un essere comune, e non un mostro, era già stato oggetto di
libri e film, sempre disagevoli perché sarebbe più confortante
collocare fuori della normalità l’assassinio. Se mai, quel che
Hannah Arendt vede nella personalità dell’imputato, è che neli
massimo della normalità «ordinata» sta il minimo della
problematica morale, perché sta il minimo, lo zero della libertà.
Ma questo è anche l'oggetto del suo lavoro sul totalitarismo.
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L’elemento dirompente
della sua ricerca era altrove. Di fronte alla portata distruttiva di
questa volontà piccola, Hannah Arendt era andata a studiarsi da
vicino la storia delle deportazioni nei diversi paesi, e ne aveva
veduto una qualche diversità sia nei deportatori - punto che
accentua le responsabilità dei singoli governi - sia
nell’atteggiamento assunto dalle comunità ebraiche per difendersi.
Talvolta incapaci di capire a che cosa realmente si trovavano di
fronte, talvolta indotte a contrattare e, nella speranza di salvare i
più, disposte a concedere ai nazisti quelli che parevano i meno. Per
cui Hannah Arendt si chiedeva a un certo punto senza ambasce se
alcune comunità non avessero contribuito al massacro, e si
rispondeva che se esse non fossero intervenute e ognuno avesse
cercato di scampare per conto suo, ci sarebbero state meno vittime di
quante non ci furono. Si può capire come il libro suscitasse
reazioni violente.
Come, un’antifascista,
un'ebrea, osava interrogarsi sia sul processo, sia sul mostro, sul
suo popolo? Si poteva dubitare come lei che Eichmann fosse inumano -
dunque disumano, fuori dell’umano al punto che la stessa Corte, per
onorare il diritto di difesa, gli aveva dovuto dare un difensore non
ebreo - peggio, considerare, come Arendt faceva capire, che c’era
in questo una sottrazione, una fuga dell’ebreo dal dover essere
universalmente giusto? Si poteva scrivere che alcune comunità
avessero agito contro se stesse, con il nemico mortale? Partì
un’ondata di attacchi, dei quali - per la incessante attenzione di
lei alle ragioni che sottostanno ai comportamenti - dovette percepire
l’insopportabilità del dolore, l’insostenibilità d’uno
sguardo lucido, la pesantezza del sentirsi in qualche modo deprivati
del diritto d’una nazione alla vendetta - e che perciò debbono
esserle apparsi ancora più pesanti. Ma non l’avrebbero fatta
vacillare: nell’appendice al volume, la scrittrice conferma tutto
seccamente. Alla natura politico-morale dell’attacco, per lei
avrebbe risposto Mary MacCarthy, - scrittrice dal carattere non si
può immaginare più diverso - un’intelligenza che dava il suo
meglio nella decriptazione demolitoria di situazioni e persone, e
tuttavia la sua più fedele amica. Ma ancora due anni fa la
ripubblicazione in Francia del volume sarebbe stata accompagnata da
quelle antiche accuse, un po’ più subdole. L’intellettualità
ebraica sarebbe tornata a dibattersi di fronte alla razionalizzazione
arendtiana: a chi era stato azzerato nell’impossibilità d’una
scelta, negato nell’esistere era venuta una esperienza che nessuno
potrebbe comprendere e che quindi, in qualche modo, esime dalla
comunicazione.
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Nulla però può esimere
dalla comunicazione, senza che neghiamo alle radici sia il conoscere
sia l’eticità, il senso dell’essere e una collettività di
umani. Questa, è la posizione di Hannah Arendt. E questo fa
dell’epilogo del libro, un saggio a sé di interesse ricorrente:
chi oggi in Italia, di fronte a minori tragedie, chiede a se stesso
quel che lei chiede? Chi vive assieme e fino in fondo il
travolgimento del dolore, nel corpo e nella esistenza, e la necessità
d’una regola «astratta»? E che cosa, dal 1960 ad oggi, è venuto
ad accrescere la tematica del diritto di ciascuno di essere giudicato
nel proprio stato, di ogni stato a giudicare i suoi, o a modificare
il crimine di guerra dopo il Golfo o a ridefìnire il genocidio o i
crimini contro l'umanità? Arendt indica, con il suo dito
implacabile, che qui dopo il 1945 ci si è fermati – e il suo
discorso parrebbe valere oggi più di ieri.
E' da sperare che questo
esempio della dignità del pensiero politico susciti le più acerbe
passioni, piuttosto che sparire nella pletora delle parole.
“latalpalibri – il
manifesto”, 16 ottobre 1992
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