Guido Picelli |
Il 1922 è l'anno della
guerra civile strisciante, di una catena quotidiana, ininterrotta, di
scontri, violenze, morti. E' un anno chiave per la storia d'Italia. I
fascisti ormai | dilagavano «alla velocità di una epidemia» e
Mussolini , teorizzava che «la forza e la violenza sono
profondamente morali». Il partito socialista, che aveva annunciato
«la rivoluzione imminente» al popolo stanco e impoverito dalla
guerra, aveva perso il suo impeto, la sua forza iniziale era svanita
a causa delle spaccature interne, delle divisioni i in gruppi e
sottogruppi. Mussolini proclamava il suo attacco finale alla
conquista del potere: «il fascismo è nato dalla guerra e deve
finire con la guerra». Nello stesso momento il neonato Partito
comunista di Amedeo Bordiga i teorizzava «il valore dell'isolamento»
dalle altre forze antifasciste e i socialisti discutevano
all'infinito «sull'uso della forza» per opporsi alla «minoranza»
fascista. ,
È in questo contesto che
ai primi d'agosto del 1922, al culmine della loro marcia verso il
potere, i fascisti subirono una grande sconfitta. Una debacle che, se
fosse stata presa ' ad esempio dai partiti antifascisti, poteva
toglierli di mezzo, farli sparire per sempre. Durante i 5 giorni
della Battaglia di Parma (1-6 agosto) le forze antifasciste,
coalizzate per la prima volta in un «fronte unico», guidate dagli
Arditi del popolo di Picelli, impartirono ai fascisti una pesante
lezione. La cronaca di quei giorni memorabili, che furono il più
importante episodio dell'opposizione armata al fascismo prima della
Resistenza, Picelli la scrisse negli anni '30. («La rivolta di
Parma», pubblicato qui a fianco). In , quell'occasione elencò solo
brevemente i successivi tentativi messi in opera per fermare il
fascismo e far insorgere le forze della sinistra. Picelli si era
formato nei borghi dell'Oltretorrente, abitati da un popolo generoso,
cospiratore, sempre pronto a ribellarsi, a insorgere contro i i
tiranni, le prepotenze e le ingiustizie. Subito dopo la Grande Guerra
riuscì ad ottenere un grande seguito
popolare. Per un periodo
lottò per l'unità del movimento , sindacale e contemporaneamente
fondò, nel 1920, le «Guardie rosse». Nel 1921 fu eletto al
Parlamento nelle fila del Partito socialista, l'elezione, un vero e
proprio plebiscito, gli permise di uscire di galera. Costituì gli
Arditi , del popolo, anche se non amò mai
l'iconografia dell'arditismo nazionale: teschi, ossa incrociate e
nastrini al valore. I suoi Arditi dovevano soltanto giurare che si '
sarebbero battuti «contro la violenza dell'attuale società, basata
sui principi della più umiliante schiavitù». Abilissimo nei
camuffamenti, conoscitore di tutte le vie segrete della sua città,
alcune che utilizzavano la rete sotterranea, altre aeree, di tetto in
tetto, Picelli durante la Battaglia di Parma, sfidò i fascisti
attraversando tutta la città, portando ordini e infondendo coraggio
ai popolani che difendevano i vari settori. Il suo piano di difesa fu
un capolavoro di «guerriglia urbana», di «guerra di strada», come
la chiamava lui. Aveva studiato e messo in opera una «trappola
mortale» per il fascismo. Italo Balbo, preoccupato «per una strage
sicura» dei suoi uomini, capì di essere vicino alla «caporetto»
del movimento. Scrisse nel suo diario: «Se Picelli dovesse vincere,
il suo esempio potrebbe essere ripetuto in molte città italiane».
Al quinto giorno di assedio, mentre le colonne fasciste abbandonavano
demoralizzate e sconfitte Parma, portandosi via decine di morti e di
feriti, Picelli pensò di approfittare della vittoria per dare un
colpo definitivo al nemico. Inviò porta-ordini in varie città del
Nord per comunicare la vittoria di Parma ai nuclei antifascisti. Il
governo centrale, preoccupato per la possibilità concreta di
un'insurrezione generale, ordinò lo stato di assedio in molte
località italiane. Nelle settimane successive, Picelli proseguì
nella sua azione, per fermare l'ormai imminente colpo di stato
fascista. Lanciò pressanti appelli all'insurrezione, incontrò
segretamente gli esponenti antifascisti di varie città per
organizzare «L'esercito rosso».
L'anno prima Lenin aveva
pesantemente criticato la posizione politica di Bordiga, che chiudeva
la porta in faccia al movimento degli Arditi del popolo. Anche dopo
la vittoria di Parma, malgrado le pressioni di Bucharin, favorevole
all'azione degli Arditi, il segretario del PCd'I rimase fermo nella
sua posizione «isolazionista» e di opposizione al «Fronte Unico».
Anche i socialisti ignorarono gli appelli di Picelli, continuando a
farsi a pezzi nelle faide interne e proseguendo nella sterile e cieca
strategia che cercava una pace impossibile con Mussolini. L'azione
degli Arditi del Popolo, limitata o osteggiata dai partiti della
sinistra, fu quella che Paolo Spriano definì: «La grande occasione
mancata dall'antifascismo militante, prima della marcia su Roma».
Per sminuire la vittoria di Picelli a Parma, gli apparati dello Stato
e i fascisti fecero circolare la voce che la città non era stata
«messa a ferro e fuoco», come avrebbe voluto Mussolini, perché
«protetta» da Gabriele D'Annunzio e dalla massoneria, in virtù dei
vincoli «fiumani» che legavano il poeta al sindacalista
rivoluzionario Alceste de Ambris o addirittura per l'acquiescenza
delle locali forze di governo verso gli Arditi. In realtà i 39 morti
e i 150 feriti trai fascisti ed i 10 mila colpi sparati in 5 giorni
(secondo i calcoli della locale Scuola militare d'applicazione)
stavano a dimostrare il contrario. Poco prima della marcia su Roma,
Picelli tentò ripetutamente di ripetere sul piano nazionale
l'esperienza di Parma. Non si arrese neppure quando sfumò
definitivamente l'ipotesi di una manifestazione unitaria e risolutiva
a livello nazionale. Infatti, dopo la marcia su Roma, fine di ottobre
del 1922, sciolse gli Arditi del popolo per fondare «I soldati del
popolo», una nuova organizzazione insurrezionale segreta. «Picelli
prepara la riscossa dei sovversivi contro l'attuale governo fascista
(...) Ventilato in segrete riunioni il progetto di una simultanea
azione violenta contro i capi del Fascismo» scrissero preoccupati i
Prefetti, e i Carabinieri nei loro rapporti. L'anno dopo i fascisti,
dopo numerose aggressioni, gli tesero a Parma un agguato mortale.
Colpito di striscio alla tempia da una pallottola si salvò per
miracolo. Subito dopo sfuggì a un complotto per assassinarlo, ordito
da alti gerarchi, fra i quali c'era Balbo. Non riuscirono né a
intimorirlo né a fermarlo. Beffando Mussolini e i deputati fascisti,
per protestare contro la soppressione della Festa dei lavoratori, il
1 maggio 1924 sfidò il regime fascista innalzando sul pennone del
Parlamento una grande bandiera rossa ornata di falce e martello.
Rieletto nel 1924 come indipendente nelle liste del Pcd'I, Picelli
instaurò un forte rapporto di collaborazione con Gramsci. Nella
corrispondenza segreta del Partito, appare più volte il progetto di
un misterioso libro «sulla guerra civile in Italia», una tesi da
scrivere o un piano d'azione da mettere in pratica? In quei giorni
viaggiò molto per l'Italia, ufficialmente, in veste di deputato, per
visitare le carceri, in realtà, seminando poliziotti e sfuggendo
alle imboscate fasciste, per incontrare segretamente in ogni città i
compagni, con lo scopo di organizzare la struttura insurrezionale
clandestina del partito. Il suo progetto sfumò l'8 novembre del
1926, quando venne arrestato insieme a tutti i maggiori leader
antifascisti. Nel 1932, dopo 5 anni di confino e di galera, fuggì in
Francia dove proseguì la sua attività di rivoluzionario e agitatore
politico. Espulso prima dalla Francia e poi dal Belgio, il
leggendario comandante di Parma, il grande teorico della «guerra di
strada», giunse a Mosca dove, invece di ricevere l'incarico militare
che gli avevano promesso e che si era ampiamente meritato sul campo,
fu messo da parte. Si ritrovò a fare l'operaio nella fabbrica
Kaganovic. In quei lunghi anni passati nell'Unione sovietica
stalinista subì ingiustizie e persecuzioni, contro di lui fu
intentato anche un processo di fabbrica, anticamera del Gulag.
Picelli, con l'abituale
coraggio, riuscì a salvarsi senza rinnegare le sue idee ed a
lasciare l'Unione Sovietica alla volta della Spagna in fiamme. Dopo
aver abbandonato i comunisti italiani ed aver avuto contatti con
Andreu Nin del Poum, il partito comunista spagnolo antistalinista,
accettò di comandare una unità italiana dei Volontari
internazionali, espressione di quel «fronte unico» antifascista nel
quale aveva sempre creduto. Al comando del Battaglione Garibaldi, il
1 gennaio 1937, ottenne a Mirabueno la prima vittoria dei
repubblicani sul Fronte di Madrid. I suoi uomini lo ricorderanno in
battaglia sempre in piedi, dritto, incurante delle fucilate e delle
bombe. Achi gli chiedeva di abbassarsi rispondeva: «Non mi piegherò
mai davanti ai fascisti!». Il 5 gennaio 1937, dopo aver conquistato
l'altura del Matoral, mentre si apprestava ad attaccare le posizioni
fortificate del San Cristobal, cadde colpito non al petto, ma alle
spalle, all'altezza del cuore. Lasciò scritto: «Solo con l'unità
avremo il sopravvento, poiché è indiscutibile che noi siamo una
forza che non s'impone oggi, solo perché divisa in tanti piccoli
raggruppamenti in disaccordo fra di loro». I suoi appelli all'unità
e all'azione, che rimasero inascoltati, appaiono ancora oggi, a
distanza di quasi novant'anni, di grandissima attualità.
“alias il manifesto”,
28 luglio 2012
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