Dopo l'ultima riga di
Mario Schifano. Una biografia (Johan & Levi) quello che
resta è un senso di vertigine: effluvi di vernici al nitro, flussi
ininterrotti di immagini televisive, scatti fotografici, dripping,
droghe, musica, auto, corse ciclistiche, apparizioni di artisti,
galleristi, letterati, musicisti, registi, ma anche baronesse,
attrici, modelle, arbitri di calcio, falsari e personaggi della
malavita, in un ritmo incalzante e concitato «fino all'ultimo
respiro».
Luca Ronchi, assistente
di Schifano negli anni settanta, regista, già autore del
documentario Mario Schifano Tutto (2001), cuce sapientemente
un montaggio serrato di testimonianze da lui stesso raccolte e spesso
inedite in cui si alternano decine di voci: Fabio Mauri, Achille
Bonito Oliva, Plinio de Martiis, Franco Brocani, Furio Colombo, Anita
Pallenberg, Marianne Faithfull, solo per nominarne alcune.
Aneddoti
privati e ricordi appassionati, sovrapposti e spesso dissonanti, di
chi ha condiviso tratti di vita con un artista troppo spesso
schiacciato sull'etichetta dell'Andy Warhol italiano. E se questo
ritratto a più voci, una delle biografie possibili, non basterà
certo a restituirci tutta la complessità di chi ha abitato tempi e
media diversi, in una produzione vorace che dalla fine degli anni
cinquanta arriva ininterrottamente agli ultimi anni del ‘900, avrà
comunque il merito di illuminarci, con l'intermittenza di una lampada
stroboscopica, gli aspetti enigmatici, spigolosi, persino
indigeribili di un uomo che ha incarnato in modo ipertrofico pieghe e
contraddizioni di mezzo secolo italiano.
Mario Schifano |
Dopo la prefazione di
Achille Bonito Oliva, il testo avanza in ordine cronologico,
intervallato da brevi introduzioni storiche e corredato da un ricco
apparato iconografico proveniente dall'archivio privato dell'artista.
Nato nel 1934 a Homs, in
Libia, dove il padre dirigeva uno scavo archeologico, Mario Schifano
è uno studente distratto e svogliato che non arriva alla terza
media. La guerra lo porta a Roma in modo rocambolesco e dopo un
periodo di lavoretti saltuari approda, grazie al padre, al museo
etrusco di Valle Giulia. A meno di dieci anni di distanza, nel 1961,
potrà acquistare e sfasciare la sua prima Mg bianca con i soldi
guadagnati dalla vendita di tutti i suoi monocromi in una storica
personale alla Tartaruga di Plinio de Martiis.
Inizia così, a tutta
velocità, il decennio incantato degli anni sessanta. In pochi anni
accade di tutto: nel '62 lascia il museo etrusco e si dedica
completamente alla pittura. Espone a New York nella celebre mostra
«The New Realists» da Sidney Janis, firma e poi straccia un
contratto di esclusiva con la gallerista Ileana Sonnabend, già
allora assieme a Leo Castelli tra le regine del mercato dell'arte,
raggiunge New York in transatlantico e lì soggiorna con il primo
amore, la modella e poi attrice Anita Pallenberg. Rientra a Roma
nell'estate del '64 e da lì non se ne andrà più. Un legame a filo
doppio con una città attraversata in quegli anni da un'effervescenza
intellettuale che Schifano vive in modo eccentrico. Agli amici e
compagni più intimi, tra cui Alberto Moravia, Franco Angeli, Tano
Festa, Alighiero Boetti, Marco Ferreri, Franco Brocani, si affiancano
innumerevoli corpi femminili come quelli di Afdera Franchetti, Anna
Carini, Marianne Faithfull.
Perennemente indebitato e
a caccia di soldi, Schifano è incontenibile: nel 1967 mette in scena
al Piper Grande Angolo, Sogni, Stelle, un livemedia,
diremmo oggi, che unisce musica dal vivo, performance,
multiproiezioni filmiche e fotografiche. L'anno dopo, ed è un non
trascurabile 1968, realizza Festa Cinese, una tela di bandiere
rosse realizzata per la residenza romana degli Agnelli - «un'enorme
marchetta per grandi capitalisti», come la definisce Franco Brocani
- che finì poi in regalo a Potere Operaio.
Siamo intanto nella
stagione del cinema underground, che Schifano attraversa alla
sua maniera, senza mai unirsi, per esempio, all'esperienza della
Cooperativa Cinema Indipendente e tentando invece di approdare,
inutilmente, alle grandi produzioni. Nel 1970 inizia a lavorare a un
film prodotto da Carlo Ponti e sceneggiato da Tonino Guerra, Human
Lab, ma la creatività strutturata del «cinema tradizionale»
non gli si addice e il tentativo naufraga in poco tempo.
Arrivano così gli anni
difficili. Schifano è immerso in un ménage fatto di tele
emulsionate, droghe, donne e un'inarrestabile dissipazione del denaro
che non ha mai saputo, né voluto, trattenere. Chiuso nei mille metri
quadri affittati sopra il Museo Napoleonico, lui che amava Godard e
detestava Totò, allestisce una sala cinematografica con tanto di
platea, proiezionista e programma di sala. L'amico Roberto Ortensi lo
ricorda così: «In confronto a Schifano gli Stones, Mick Jagger,
Keith Richards, tutte le rockstar americane diventavano dei
piccolo-borghesi... Probabilmente è l'artista del suo tempo che ha
guadagnato di più, ma che è stato anche capace di dilapidare
tutto».
Negli anni Ottanta il
matrimonio con Monica De Bei e la nascita del figlio Marco sembrano
indirizzargli la vita e la produzione artistica su binari meno
vertiginosi, ma è un assestamento solo temporaneo.
Il periodo finale è
quello dell'iperproduzione seriale, culminata con la controversa
esclusiva a Telemarket, ultimo omaggio alla sua Musa Ausiliaria e
grande beffa al sistema dell'arte. Il suo «talento picassiano», di
cui parlava Fabio Mauri, si scioglie nei pixel del più bieco trash
televisivo: «questo non è un momento di intuizioni per l'arte,
adesso la pittura è solo consumo, non cultura», commentava con la
sua tipica aderenza al presente. Sono passati più di trent'anni, gli
anni sessanta una memoria sbiadita. In lui, come ricorda Fulvio
Abbate, non una traccia di nostalgia. In noi, forse, la nausea
dell'assenza: quella di un paese, di una città, di un'umanità
impossibili da dimenticare.
“alias – il
manifesto”, 28 luglio 2012
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