19.6.15

Mario Schifano a più voci. Una biografia (Giulia Simi)

Dopo l'ultima riga di Mario Schifano. Una biografia (Johan & Levi) quello che resta è un senso di vertigine: effluvi di vernici al nitro, flussi ininterrotti di immagini televisive, scatti fotografici, dripping, droghe, musica, auto, corse ciclistiche, apparizioni di artisti, galleristi, letterati, musicisti, registi, ma anche baronesse, attrici, modelle, arbitri di calcio, falsari e personaggi della malavita, in un ritmo incalzante e concitato «fino all'ultimo respiro».
Luca Ronchi, assistente di Schifano negli anni settanta, regista, già autore del documentario Mario Schifano Tutto (2001), cuce sapientemente un montaggio serrato di testimonianze da lui stesso raccolte e spesso inedite in cui si alternano decine di voci: Fabio Mauri, Achille Bonito Oliva, Plinio de Martiis, Franco Brocani, Furio Colombo, Anita Pallenberg, Marianne Faithfull, solo per nominarne alcune.
Mario Schifano
Aneddoti privati e ricordi appassionati, sovrapposti e spesso dissonanti, di chi ha condiviso tratti di vita con un artista troppo spesso schiacciato sull'etichetta dell'Andy Warhol italiano. E se questo ritratto a più voci, una delle biografie possibili, non basterà certo a restituirci tutta la complessità di chi ha abitato tempi e media diversi, in una produzione vorace che dalla fine degli anni cinquanta arriva ininterrottamente agli ultimi anni del ‘900, avrà comunque il merito di illuminarci, con l'intermittenza di una lampada stroboscopica, gli aspetti enigmatici, spigolosi, persino indigeribili di un uomo che ha incarnato in modo ipertrofico pieghe e contraddizioni di mezzo secolo italiano.
Dopo la prefazione di Achille Bonito Oliva, il testo avanza in ordine cronologico, intervallato da brevi introduzioni storiche e corredato da un ricco apparato iconografico proveniente dall'archivio privato dell'artista.
Nato nel 1934 a Homs, in Libia, dove il padre dirigeva uno scavo archeologico, Mario Schifano è uno studente distratto e svogliato che non arriva alla terza media. La guerra lo porta a Roma in modo rocambolesco e dopo un periodo di lavoretti saltuari approda, grazie al padre, al museo etrusco di Valle Giulia. A meno di dieci anni di distanza, nel 1961, potrà acquistare e sfasciare la sua prima Mg bianca con i soldi guadagnati dalla vendita di tutti i suoi monocromi in una storica personale alla Tartaruga di Plinio de Martiis.
Inizia così, a tutta velocità, il decennio incantato degli anni sessanta. In pochi anni accade di tutto: nel '62 lascia il museo etrusco e si dedica completamente alla pittura. Espone a New York nella celebre mostra «The New Realists» da Sidney Janis, firma e poi straccia un contratto di esclusiva con la gallerista Ileana Sonnabend, già allora assieme a Leo Castelli tra le regine del mercato dell'arte, raggiunge New York in transatlantico e lì soggiorna con il primo amore, la modella e poi attrice Anita Pallenberg. Rientra a Roma nell'estate del '64 e da lì non se ne andrà più. Un legame a filo doppio con una città attraversata in quegli anni da un'effervescenza intellettuale che Schifano vive in modo eccentrico. Agli amici e compagni più intimi, tra cui Alberto Moravia, Franco Angeli, Tano Festa, Alighiero Boetti, Marco Ferreri, Franco Brocani, si affiancano innumerevoli corpi femminili come quelli di Afdera Franchetti, Anna Carini, Marianne Faithfull.
Perennemente indebitato e a caccia di soldi, Schifano è incontenibile: nel 1967 mette in scena al Piper Grande Angolo, Sogni, Stelle, un livemedia, diremmo oggi, che unisce musica dal vivo, performance, multiproiezioni filmiche e fotografiche. L'anno dopo, ed è un non trascurabile 1968, realizza Festa Cinese, una tela di bandiere rosse realizzata per la residenza romana degli Agnelli - «un'enorme marchetta per grandi capitalisti», come la definisce Franco Brocani - che finì poi in regalo a Potere Operaio.
Siamo intanto nella stagione del cinema underground, che Schifano attraversa alla sua maniera, senza mai unirsi, per esempio, all'esperienza della Cooperativa Cinema Indipendente e tentando invece di approdare, inutilmente, alle grandi produzioni. Nel 1970 inizia a lavorare a un film prodotto da Carlo Ponti e sceneggiato da Tonino Guerra, Human Lab, ma la creatività strutturata del «cinema tradizionale» non gli si addice e il tentativo naufraga in poco tempo.
Arrivano così gli anni difficili. Schifano è immerso in un ménage fatto di tele emulsionate, droghe, donne e un'inarrestabile dissipazione del denaro che non ha mai saputo, né voluto, trattenere. Chiuso nei mille metri quadri affittati sopra il Museo Napoleonico, lui che amava Godard e detestava Totò, allestisce una sala cinematografica con tanto di platea, proiezionista e programma di sala. L'amico Roberto Ortensi lo ricorda così: «In confronto a Schifano gli Stones, Mick Jagger, Keith Richards, tutte le rockstar americane diventavano dei piccolo-borghesi... Probabilmente è l'artista del suo tempo che ha guadagnato di più, ma che è stato anche capace di dilapidare tutto».
Negli anni Ottanta il matrimonio con Monica De Bei e la nascita del figlio Marco sembrano indirizzargli la vita e la produzione artistica su binari meno vertiginosi, ma è un assestamento solo temporaneo.
Il periodo finale è quello dell'iperproduzione seriale, culminata con la controversa esclusiva a Telemarket, ultimo omaggio alla sua Musa Ausiliaria e grande beffa al sistema dell'arte. Il suo «talento picassiano», di cui parlava Fabio Mauri, si scioglie nei pixel del più bieco trash televisivo: «questo non è un momento di intuizioni per l'arte, adesso la pittura è solo consumo, non cultura», commentava con la sua tipica aderenza al presente. Sono passati più di trent'anni, gli anni sessanta una memoria sbiadita. In lui, come ricorda Fulvio Abbate, non una traccia di nostalgia. In noi, forse, la nausea dell'assenza: quella di un paese, di una città, di un'umanità impossibili da dimenticare.


“alias – il manifesto”, 28 luglio 2012  

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