Alla Galleria
dell’Accademia di Firenze si tiene fino al 15 aprile l’esposizione
Tessuto e ricchezza a Firenze nel Trecento. Lana, seta,
pittura ideata e curata dalla direttrice Cecilie Hollberg. Delle 66
opere esposte, un numero consistente rimonta al XIV secolo, anche se
non mancano esemplari di tardo Duecento e degli inizi del
Quattrocento. Gli oggetti sono presentati al pubblico con
un’esposizione didatticamente corretta che, oltre al piacere visivo
implicito nella loro qualità estetica, offre al visitatore la
possibilità di soffermarsi su altri materiali storici, fra cui i
sigilli in bronzo dei consoli dell’arte della seta di Firenze e
della drapperia di Calimala o gli statuti dell’arte della lana,
offrendogli una rara occasione per venire a conoscenza di alcuni di
quegli aspetti dell’arte tessile che sono stati determinanti per lo
sviluppo economico e la conseguente ricchezza di Firenze.
La mostra si apre con
un’istallazione multimediale dedicata alla figura del mercante
pratese Francesco di Marco Datini, che illustra il lungo processo di
fabbricazione e commercializzazione dei panni medievali. La seconda
metà del Trecento fu un’epoca in cui per la prima volta diversi
lanaiuoli si specializzarono nella produzione pregiata, favoriti
dalla costante importazione della migliore lana inglese, ottenendo
articoli di pregio, in contrasto con i tempi precedenti, quando
Firenze fabbricava vari tipi di panni di qualità media o addirittura
andante, con lane italiane, iberiche e nordafricane. La rapida ascesa
nel consenso per i panni fioorentini di lusso su scala locale e
internazionale dipese, oltre che dall’impiego di lana eccellente,
anche dalle materie coloranti utilizzate da operai professionisti, i
tintori, che erano tenuti all’osservanza delle rigide prescrizioni
statutarie.
Un ruolo primario era
riservato ai “panni scarlatti” dal rosso vivo e intenso, ottenuto
esclusivamente dal kermes e dalla grana, sostanze entrambe
d’importazione, ricavate da insetti parassiti della quercia (coccus
ilicis). In un mondo dominato dall’apparire, il colore ha una
funzione di indubbia valenza simbolica, e nella gerarchia cromatica
medievale il rosso era il più stimato, essendo il solo in grado di
sostituire l’antichissima porpora, particolarmente apprezzata in
epoca classica per il suo prestigio sociale e nobiliare, ma già
scomparsa in epoca medievale. A differenza di quella della lana,
l’industria della seta ebbe a Firenze uno sviluppo relativamente
tardo rispetto ad altri centri tessili, primo fra tutti Lucca, che
già dal Duecento produceva il rinomato “diaspro” e che nel XIV
secolo era probabilmente l’unica città dell’occidente europeo ad
avere una particolare specializzazione nel campo della seta.
L’attività risulta però presente nel capoluogo fiorentino almeno
dal 1225. Fra i motivi dello sviluppo dell’arte della seta si
ritiene sia stato determinante nel 1314 l’arrivo in città di
mercanti, imprenditori e intere famiglie di artigiani lucchesi,
esiliati a seguito di lotte interne e accolti con benevolenza dai
fiorentini.
Documentare il tipo di
produzione fiorentina in epoca storica anteriore al Quattrocento non
risulta semplice, in mancanza di dati certi, sia per quel fenomeno
d’immigrazione con spostamenti di manodopera che ebbe conseguenze
significative sulle diverse fasi della lavorazione del prodotto, sia
per l’emulazione di modelli e tecniche che si diffusero
nell’Occidente medievale. Nella sezione Geometrie mediterranee
sono visibili alcuni fra gli schemi compositivi seriali più
comuni, già presenti nel mondo sassanide, dominanti in Europa fino
alla fine del Duecento, come quello delle ruote tangenti con iscritti
animali araldici, singoli o a coppie, addorsati o affrontati. La
sezione illustra inoltre la notevole influenza che hanno avuto sulla
produzione locale le stoffe realizzate negli atelier di tessitura
ispano-moreschi, con decoro marcatamente geometrico a partiture
lineari, denominate con il termine lampasso: tecnica che subentrò al
precedente sciamito e fu molto apprezzata per la gamma di varianti
nell’intreccio dei fili che formano il fondo e il disegno della
stoffa.
La sezione Lusso
dell'Asia presenta preziosi tessuti improntati a modelli cinesi:
spiccano il telo funebre proveniente dalla sepoltura a Verona di
Cangrande della Scala, e, come traslato pittorico, il suntuoso drappo
dipinto da Niccolò di Pietro Gerini nel dorsale del trono della
grande Madonna col Bambino fra i santi Giovanni Battista e Zanobi.
Particolarmente ricca la sezione dedicata alle “creature alate”,
per la presenza di preziosi frammenti tessili, prevalentemente
lampassi a trame di seta e oro membranaceo o filato in diverse
varianti cromatiche e decorative, con animali alati, come il grifone
e il senmurv o il fenghuang, l’uccello cinese di leggendaria
bellezza assimilato alla fenice, particolarmente apprezzato in Italia
per le sue posture dinamiche, tanto da trasferirle nelle
rappresentazioni tessili ad aquile, falconi, pappagalli, draghi.
Questo uccello esotico ad ali spiegate fra tralci vegetali è
riprodotto in giallo-oro su fondo rosso nella suntuosa cortina
sorretta da angeli nel San Martino di Lorenzo di Bicci, presente in
mostra, a emulazione dei cosiddetti “panni tartarici”,
interpretato però in senso cristiano come simbolo di sapienza divina
e della resurrezione di Cristo. Lampassi islamici e lampassi di
produzione italiana sono invece a#ancati, nella sezione Invenzioni
pittoriche, alle tavole fiorentine di Jacopo di Cione, Niccolò di
Tommaso e Simone di Lapo, che nelle loro opere mostrano di essere a
conoscenza dei tessuti serici alla moda: nella Madonna dell’Umiltà
sia il drappo su cui lei siede, sia la stoffa che avvolge
integralmente il piccolo Gesù, l’una a decoro di uccelli
affrontati, l’altra con pappagalli e tartarughe entro morbidi
intrecci vegetali, sono ormai distanti dalle statiche immagini degli
impaginati a ruote e dai rigidi animali araldici, in sintonia con la
moderna tendenza naturalistica di più libera organizzazione.
Eccezionale per la sua desti-nazione laica, la grande pala con
l’Incoronazione della Vergine e santi non solo mostra visivamente
un campionario di stoffe esemplificative delle tipologie decorative
apprezzate a Firenze e dell’orientamento cromatico medievale
incentrato su colori vivaci e contrastanti abbinati al prezioso oro,
ma costituisce un importante documento per la storia della città,
per la presenza nello zoccolo di base degli stemmi ecclesiastici e
civili rappresentativi della politica fiorentina in quegli anni.
Le vesti di seta e Il
lusso proibito introducono il visitatore nel trecentesco mondo
dell’eleganza. Mentre ecclesiastici, docenti universitari, medici,
giuristi continuarono a vestirsi all’antica, ossia con ampie vesti
lunghe fino ai piedi, negli abiti di mercanti e artigiani, la classe
emergente, si verificò un rapido processo di trasformazione: l’abito
maschile divenne attillato e pertanto più funzionale, emulando
l’abbigliamento militare, ma soprattutto rispondendo alla moda del
tempo, improntata al linearismo gotico. Si assiste così intorno alla
metà del Trecento a una vera e propria rivoluzione: sopravvesti
strette e cortissime scoprono le gambe dei giovani, mentre il busto è
arrotondato e i fianchi stretti, con opportune imbottiture. Un
esempio tangibile era il pourpoint (“farsetto”), detto di
Charles de Bois, confezionato con un tessuto di seta “tartarico”
e impreziosito dalla novità del secolo: i bottoni. Un riscontro
fiorentino di questo abbigliamento moderno è proposto in mostra dai
due giovani dipinti da Giovanni del Biondo nella Crocifissione di
Sant'Andrea, tavola proveniente dalla Gemäldegalerie di Berlino.
Nasce in quegli anni una nuova figura professionale, il sarto, come
illustra didatticamente il Theatrum Sanitatis, codice della fine del
Trecento illustrato da un miniatore anonimo della scuola di
Giovannino de’ Grassi.
Le leggi suntuarie
emanate contro le novità del vestire non vietavano solo alle donne
l’uso di gioielli, ornamenti preziosi, ricche sto#e e costose
pellicce, ma condannavano persino gli stessi sarti che confezionavano
i nuovi capi d’abbigliamento. Tuttavia la tenace resistenza di gran
parte della cittadinanza nell’applicazione dei divieti fu in grado
qualche volta di attutire il rigore delle prescrizioni limitandolo a
disposizioni fiscali, in modo da consentire lo sfoggio di vesti,
stoffe e ornamenti a fronte di un pagamento, con somme fissate per
legge.
La Prammatica delle vesti
del 1343 è un do-cumento molto importante nel quale sono elencate
famiglie note in città che possedeva-no oltre cento abiti ognuna; vi
sono rigorosa-mente dettagliate tutte le vesti in uso all’epo-ca a
Firenze, suddivise per tipologia, colore e decorazione. Una
campionatura di splendidi esemplari della seconda metà del Trecento
attestava come la produzione serica italiana si sia andata
progressivamente allontanando dai modelli tessili mediterranei e
asiatici, elaborando un inedito repertorio ornamentale gotico e
cortese, più sensibile al fenomeno naturale nella sua pluralità di
forme. Discutibile invece l’istallazione multimediale sulle Vesti
proibite per la regia di Giorgio Ferrero.
Se il percorso espositivo
si apre nella prima sala con una veste infantile trecentesca in lana,
nell’ultima chiude la mostra un sontuoso esemplare di quella stoffa
elitaria che nel Quattrocento divenne simbolo ed espressione visiva
della magnificenza e del potere detenuto dai signori del Rinascimento
e dalla chiesa: un piviale del Museo nazionale del Bargello in
velluto tagliato a un corpo in seta rosso cremisi, con inserti
broccati in oro filato.
L'Indice Aprile 2018
Nessun commento:
Posta un commento